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lunedì 31 dicembre 2012

Il Concilio ha 50 anni. Prima sessione, prime riflessioni


Nato nel febbraio del ’64 non ho vissuto gli anni del Concilio e neanche quelli dell’immediato post-Concilio ma ho avuto familiarità con questo evento fin da ragazzo poiché lo statuto della Gioventù Francescana di cui facevo parte era costruito proprio sui testi conciliari; gli articoli dello statuto rimandavano continuamente alla Gaudium et spes, alla Lumen gentium, all’Apostolicam actuositatem e quindi posso dire che, sebbene in modo indiretto, ho avuto modo di assimilarne i contenuti principali. Oggi, tuttavia, col senno del poi, mi rendo conto che i frati deputati alla formazione di noi giovani francescani si limitavano a commentare i testi conciliari ma non ci aggiornavano su quanto, proprio sull’impulso di quei testi, avveniva all’interno della Chiesa: nessuno, in quegli anni, mi ha parlato dell’esperienza delle Comunità di base dell’Isolotto e di San Paolo Fuori le Mura, di Lercaro e Dossetti, di Congar e Chenu e io ero solo un ragazzo, troppo ingenuo per capire certe cose. Chiuso nel guscio rassicurante della mia fraternità e preso dai mille impegni che essa comportava non mi rendevo conto che vivevo come sotto una campana di vetro. Tante vicende spinose che hanno agitato la Chiesa del post-Concilio le ho scoperte molto tempo dopo, da solo, sui libri; l’Humanae vitae, il catechismo olandese, la Teologia della Liberazione. C’è tutto un pezzo Chiesa che mi sono perso, ricco di stimoli e fermenti, che confrontato con il clima di conformismo e di apatia di oggi sembra appartenere a un’epoca distante anni luce. Per un verso, ovviamente, me ne rammarico; per un altro, invece, mi sento stimolato a un maggiore impegno. Sono consapevole, infatti, di appartenere ad una generazione che ha il compito di riappropriarsi del patrimonio spirituale e culturale di quegli anni per trasmetterlo alle generazioni successive, perché niente vada perduto.

 

Anche io sto cogliendo l’occasione di questo cinquantesimo per chiedermi cosa ha cambiato il Concilio, nella Chiesa e nella società. E devo dire che la disputatio in corso tra i sostenitori di ermeneutiche varie non mi aiuta a fare chiarezza. Sicuramente però posso dire che mi pare del tutto campata per aria la pretesa di affermare a tutti i costi la continuità tra Vaticano I e Vaticano II. Dal punto di vista dogmatico questa continuità c’è stata, ma solo perché il Vaticano II di dogmatico non ha detto nulla di nuovo. Ma come si fa ad affermare che c’è stata continuità riguardo alla liturgia, all’accessibilità del popolo alla Sacra Scrittura, al rapporto con gli ebrei e con le altre confessioni cristiane, alla libertà di coscienza quale fondamento imprescindibile della dignità umana e via discorrendo? In tutti questi campi il Vaticano II ha rappresentato non solo una innovazione ma una svolta epocale, una vera e propria rivoluzione copernicana. La Chiesa, almeno nelle intenzioni, uscì profondamente rinnovata da quell’evento. E’ questo, più che le diverse ermeneutiche, il messaggio centrale da cogliere e da trasmettere alle nuove generazioni: l’importanza per noi cristiani di interrogarci, di rinnovarci, di aprirci fiduciosamente al dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.  E aver messo insieme il Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica nell’unico contenitore dell’Anno della fede forse non ha giovato alla trasmissione di questo messaggio, distogliendo l’attenzione generale dalle rivoluzioni apportate dal Concilio e da quelle di cui oggi la nostra Chiesa ha urgentemente bisogno.

 

Del resto, limitarsi a dire che in questi cinquant’anni molto si è fatto ma che ancora molto c’è da fare non ha molto senso, è una evidente ovvietà. Ha un senso solo se si ha il coraggio di affrontare i problemi alla radice, mettendo a confronto a viso aperto le differenti opinioni. A mio parere uno dei problemi centrali è il modo con cui viene gestito il potere nella Chiesa sotto il duplice profilo del “chi” è chiamato a decidere e del “come” è strutturato il processo decisionale. Non condivido l’opinione di quanti, confidando nell’opera dello Spirito Santo, sostengono che si tratti di un problema marginale. Sicuramente lo Spirito Santo guida sempre e comunque la Chiesa ma ciò non ci esime dal dovere di definire architetture istituzionali che lascino spazio più all’azione dello Spirito e che a quella degli uomini.  Non è un caso se l’attuale disagio manifestato da varie componenti ecclesiali ad ogni latitudine – dai parroci austriaci, alle suore americane, al laicato di tutto il mondo – è legato a filo doppio con  problematiche che cinquant’anni fa furono espunte dal dibattito conciliare e risolte d’imperio dalla Santa Sede a concilio finito; basti pensare celibato obbligatorio, al sacerdozio femminile, alla sessualità coniugale. Si dice, ed è tristemente vero, che i concili vanno e vengono ma la curia vaticana resta. Io penso che il Concilio potrà essere foriero di nuove e profonde riforme soltanto se si avrà il coraggio di affrontare il nodo problematico della gestione del potere. Non certo per fare rivoluzioni; ma un conto è il fondamento divino del primato petrino, altro sono le istituzioni umane deputate a tradurre questo primato in termini di norme e prassi.  

 

Pietro Urciuoli

mercoledì 26 dicembre 2012


Il presepe di Greccio


Del presepio di Greccio ce ne parlano Tommaso da Celano nella Vita Prima e Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda maggiore.

All’approssimarsi del Natale del 1223 Francesco ebbe il desiderio di vedere con i suoi occhi la scena che si presentò ai pastori accorsi alla grotta di Bethlehem. Chiese quindi a un uomo fidato di Greccio, un tale di nome Giovanni, di approntare il necessario: la stalla, il bue e l’asinello, ecc. Giovanni dispose tutto secondo i suoi desideri. Si celebrò la S.Messa tra una folla commossa, Francesco lesse il Vangelo e poi predicò al popolo; un’orazione memorabile, tanta era la dolcezza che usciva dalla sua bocca nel solo pronunciare le parole “bimbo di Bethlehem”. Un uomo ebbe anche una visione: vide Francesco che si accostava al bimbo dormiente e lo svegliava, a significare che Francesco aveva effettivamente risvegliato il Cristo nel cuore di molti uomini.

Non vi sono molte differenze tra i due testi se non la circostanza - riportata da Bonaventura - che Francesco aveva diligentemente chiesto ed ottenuto l’autorizzazione papale prima di mettere in scena quello che sarebbe stato il primo presepio vivente della storia, una situazione del tutto inusuale per quei tempi; Bonaventura, inoltre, identifica l’uomo della visione con lo stesso Giovanni.

Non sappiamo se davvero tutti i dettagli riportati dai due biografi sono degni di fede. Possiamo però affermare che questo episodio conferma un carattere fondamentale della spiritualità di Francesco: il suo cristocentrismo. Un cristocentrismo che non nasce da una riflessione teologica o biblica ma da un profondo e genuino sentimento religioso: mentre i teologi esaltavano l’adorazione dei pastori o il giubilo degli angeli, Francesco rimane invece affascinato dall’umiltà della greppia, dalla nudità del bimbo, dalla povertà di Giuseppe e Maria.

La commozione che prova di fronte all’umanità dell’incarnazione è la stessa che prova di fronte all’umanità della passione. E anche in questo caso, mentre i teologi proponevano la croce come il trono da cui Cristo aveva vinto il mondo, Francesco invece piange dinanzi alle sofferenze di un corpo martoriato e offeso.

Greccio va letta insieme alla Verna, dalla quale è cronologicamente separata da pochi mesi soltanto.

Il presepe, quindi, non è l’idea scenica di un uomo sensibile alla poesia e all’arte: è la manifestazione plastica della sua scelta di stare dalla parte degli ultimi, dei poveri, dei minores, così come ultimo, povero e minores si era fatto lo stesso Cristo nella culla e sulla croce. E a una Chiesa teocratica che al grido di “Dio lo vuole” lanciava il popolo cristiano in sanguinose crociate Francesco mostra che l’unica Terra Santa da riconquistare è l’interiorità dell’uomo. Pertanto il presepe di Greccio non è solo una manifestazione dell’amore del Poverello per il “Verbo umanato”; è anche l’ennesima dimostrazione di come Francesco, pur fuggendo da ogni polemica con la Chiesa ufficiale e gerarchica, sa scegliere sempre e comunque la sua strada personale.

Per questi motivi il suo è un presepe speciale, addirittura rivoluzionario: l’etimo di rivoluzione, infatti, viene da volgere indietro, ritornare, rivolgere. È un tornare indietro, quindi, alle origini, agli inizi, per poi ripartire questa volta col piede giusto, per recuperare quanto si è perso per strada, ricostruendo, se necessario, relazioni e istituzioni. Un concetto evidentemente non molto lontano da quello di conversione.

 

Pietro Urciuoli

Quando un bambino sceglie il patriarca


di David Gabrielli

in “Confronti” n.12 del dicembre 2012

 

Dopo tre giorni di digiuno proposti all’intera comunità copta, nella cattedrale di San Marco, al Cairo, il 4 novembre la mano di un bambino bendato ha estratto a sorte una delle tre  pergamene depositate in un’urna di cristallo, su ciascuna delle quali era scritto un nome. Su quella presa in mano si leggeva: Anba Tawadros, arcivescovo di Beheira; e questi è diventato il 118° papa di Alessandria, patriarca di San Marco e capo della Chiesa copta ortodossa in Egitto. È terminata così la sede vacante iniziata il 17 marzo 2012, con la morte del patriarca Shenouda III. Passato un periodo di lutto, erano state avviate le procedure per la scelta del successore: una speciale commissione composta da nove vescovi e da nove laici, ai primi di ottobre, da una lista di diciassette candidati, dieci monaci e sette vescovi, ne ha scelti cinque. Quindi, il 29 ottobre un collegio elettorale di 2.405 membri – vescovi, preti, monaci, laici uomini e donne – ha ridotto a tre i candidati: Tawadros (diventato II, appunto) e due monaci.

Altre Chiese, d’Oriente (come quella ortodossa serba) e d’Occidente, hanno modi simili, o assai diversi, per scegliere i loro leader, ma tutti comunque con marcati criteri democratici. Fa eccezione, e da secoli, la Chiesa cattolica romana. Nei primi tempi del cristianesimo, in verità, erano i fedeli, clero e popolo, a scegliere il proprio vescovo, a Roma come altrove. Poco alla volta nella «città eterna» il popolo fu estromesso, e il suo diritto fu usurpato da alcune famiglie nobili che, con una parte del clero, decideva sull’elezione del papa. Ne nacquero abusi, violenze, simonia: e così nel  1059 Niccolò II stabilì che l’elezione del vescovo di Roma fosse riservata ai cardinali. Il loro numero variò, nel tempo, da una ventina a settanta, ma nel 1975 Paolo VI portò a 120 il plenum dei cardinali elettori. Da sempre è rimasto diritto esclusivo del papa scegliere i cardinali; e così è stato, ora, nel concistoro del 24 novembre, durante il quale Benedetto XVI ha creato sei nuovi porporati, portando l’insieme dei votanti al plenum stabilito.

Questa situazione – il papa che ferreamente si riserva di nominare la cerchia che dovrà eleggere il suo successore – stride sempre più. Al Vaticano II nessuno osò proferire verbo, in merito. Ma nel post-Concilio il cardinale Leo Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles, propose che, con i cardinali, anche i presidenti delle Conferenze episcopali entrassero in conclave. Proposta caduta. Nel 1973 Paolo VI ipotizzò che nel conclave entrassero anche i membri del Consiglio della Segreteria del Sinodo dei vescovi (dodici eletti dai padri sinodali, tre dal pontefice), ma poi abbandonò l’idea. Un vescovo africano, nel 1994, ha suggerito che il papa creasse donne cardinali; altri hanno proposto che fosse istituito un Senato della Chiesa, composto da due-trecento donne e uomini eletti nelle varie nazioni, con il compito di assistere il papa e con il diritto di entrare, con i cardinali, in conclave. I pontefici recenti hanno respinto tali ipotesi affermando: «La Chiesa non è una democrazia». Curiosissimo pretesto! Infatti, nessuna Chiesa pensa che, attraverso un voto di tipo parlamentare, con maggioranze e minoranze, si possa variare ciò che affermano le Scritture; ma – domanda – come cercare, lungo i sentieri complessi della storia, la volontà di Dio? Ecco, allora, Sinodi e Concili dove, con la preghiera, la riflessione e l’ascolto reciproco si cerca di capire che cosa lo Spirito indichi a chi voglia coerentemente vivere l’Evangelo.

E poi si vota, come accadde al Vaticano II. Quanto poi ai ministri e pastori della Chiesa, come scegliere le persone che dovranno essere consacrate? La normativa attuale – salvo i diritti delle Chiese cattoliche orientali e quelli di alcune pochissime diocesi mitteleuropee – riserva al pontefice, in linea di principio, la nomina dei vescovi nella Chiesa latina. Un potere enorme, che in teoria si sarebbe potuto ridiscutere alla luce delle affermazioni della costituzione Lumen gentium del Vaticano II sul «popolo di Dio», ma che di fatto è rimasto inattuato. Ma nessun cambiamento del «modo di esercizio» del primato petrino, pur fatto balenare dai papi Wojtyla e Ratzinger, sarà reale senza restituire nelle mani delle Chiese locali il diritto-dovere di scegliere il proprio pastore. Come?

Le ipotesi sono diverse; la prudenza nelle procedure è d’obbligo; per le modalità, la fantasia è desiderata; assai utile la conoscenza della storia; determinanti saranno la corresponsabilità e il senso della comunione. E, in attesa del conclave... se sul Tevere non si sa come navigare, si consiglia un viaggio sul Nilo.

martedì 6 novembre 2012

Sostiene Guglielmo n. 4

Sostiene Guglielmo che se Cristo ha detto a Pietro "Pasci le mie pecore" e non "Tosa le mie pecore" ci sarà pure un motivo.

Guglielmo da Ockham, Octo quaestiones de potestate papae

martedì 16 ottobre 2012

Fratello padre, sorella madre

Sarà che oggi ho grosso modo la stessa età che avrà avuto Pietro di Bernardone quando Francesco decise di cambiare vita, sarà che anche io mi chiamo Pietro e che ho pure un figlio che si chiama Francesco … ma quello che è considerato come il momento culminante della conversione di Francesco d’Assisi suscita in me motivi di riflessione nuovi rispetto al passato: mi riferisco al famoso episodio della spoliazione di Francesco dinanzi al vescovo di Assisi, quando restituendo le vesti a suo padre pronuncia le famose parole: “D’ora in poi non dirò più padre mio Pietro di Bernardone ma Padre nostro che sei nei cieli”.
È uno dei momenti decisivi nella vita di Francesco, carico di un profondo significato simbolico: lo sposalizio solenne, definitivo e pubblico di Francesco con Madonna Povertà. Tuttavia, oggi – scherzi dell’età –  immaginando la scena il mio pensiero va istintivamente non a Francesco ma a suo padre che nel dramma che si andava rappresentando in quella piazza aveva solo un ruolo da comprimario; il ruolo del cattivo, per la precisione.
Io oggi mi chiedo se c’era bisogno di tutta quella teatralità; a Francesco non sarebbe bastato semplicemente andarsene di casa, in silenzio, magari nel cuore della notte, come aveva fatto chissà quante altre volte per scopi meno nobili, risparmiando a suo padre un dileggio pubblico forse eccessivo per le sue pur numerose colpe? E mi chiedo anche se Pietro di Bernardone fosse veramente così avido e insensibile come viene descritto dagli agiografi o se piuttosto si tratti del solito artificio letterario per esaltare la generosità d’animo di Francesco. E soprattutto mi chiedo se l’atteggiamento di Francesco fosse del tutto immune da una certa ostentazione, da un certo autocompiacimento; le sue parole hanno una grande carica spirituale ma sanno anche di sfida, di provocazione, un atteggiamento che non avrà mai più nel corso della sua vita, neanche davanti al Sultano.
Forse una possibile risposta a queste domande va ricercata nel fatto che allora Francesco era un baldanzoso giovane di vent’anni, si sentiva ancora un cavaliere destinato a gesta eroiche e un cavaliere ha bisogno di una consacrazione adeguata per essere veramente tale. Le sue parole – sante ma anche terribili come tutte le parole di ripudio – sembrano quelle del giuramento di un cavaliere nell’atto dell’investitura. Quel giorno, forse, doveva necessariamente andare così.
Ma allora mi chiedo perché questo strappo non si sia più ricucito giacché, almeno per quanto ne sappiamo, Francesco non cercò mai una riconciliazione, neanche negli ultimi anni della sua esistenza. Eppure il tempo trascorso e le sofferenze che neanche a lui la vita aveva risparmiato avrebbero dovuto indurlo a ripensare con maggior comprensione alla figura del padre e al dolore che inevitabilmente la sua scelta di vita gli aveva procurato.
Tante domande alle quali, come spesso succede, non c’è risposta. Domande forse addirittura oziose, alle quali non è estranea un’istintiva compassione per un pari età. Un fatto però è certo: Francesco, l’uomo della fratellanza universale, ha chiamato “fratello” finanche un animale feroce ma non suo padre, “sorella” finanche la morte ma non sua madre; “fratello padre, sorella madre” sono le uniche parole d’amore che non ha mai pronunciato.
Tuttavia, in questi giorni di ottobre in cui viene proposto alla devozione dei fedeli come il “più santo degli italiani e il più italiano dei santi”, io trovo in questa sua umanissima incapacità di superare l’eterno conflitto generazionale un ulteriore motivo per amarlo.

Pietro Urciuoli
Ecclesiaspiritualis.blogspot.it

Sostiene Guglielmo n. 3

Sostiene Guglielmo, apertis verbis, che l'origine di tutti i mali della Chiesa è l'esercizio dispotico del potere papale. E con tipico humor inglese muta l'espressione plenitudo potestatis in plenitudo pravitatis.

Guglielmo da Ockham, Breviloquium de principatu tyrannico

lunedì 8 ottobre 2012

In attesa dei frutti del Concilio

da Adista Segni nuovi n. 36 - 13 Ottobre 2012


L'11 ottobre 2012 ricorrono cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Come si sa, il Concilio ecumenico è l’assemblea di tutti i vescovi cattolici del mondo, convocati dal papa per affrontare e risolvere con lui i problemi dottrinali e vitali più importanti. Il primo Concilio si era riunito a Nicea, presso Costantinopoli, nell’anno 325. L’ultimo, il ventesimo, era stato convocato da Pio IX a Roma (e per questo denominato Vaticano I) nel 1869 e sospeso nel luglio del 1870 (in previsione dell’arrivo delle truppe italiane, che entrarono difatti a Porta Pia il 20 settembre), con la definizione del primato e dell’infallibilità del papa, quando parla come papa («ex cathedra»). Papa Giovanni XXIII, sollecitato dai suoi interessi giovanili e dalle conoscenze varie del suo servizio diplomatico (in Bulgaria, a Costantinopoli, a Parigi) decise, all’insaputa di tutti, di convocare un Concilio e di presentarlo non come «dogmatico» (cioè che proclama le verità di fede, scomunicando chi non le accetta), ma «pastorale», che si preoccupasse cioè di presentare quelle verità in modo comprensibile e adeguato all’umanità del nostro tempo. E questo non rende il Concilio pastorale meno autorevole del dogmatico, anzi lo valorizza, perché una verità di fede non raggiunge pienamente il suo scopo se non quando viene accolta e vissuta.
Tale aspetto qualifica il Concilio Vaticano II come un richiamo alla responsabilità specifica dei cristiani e delle comunità; ed è evidente, se consideriamo i quattro documenti conciliari, le Costituzioni.
Così la prima, sulla liturgia (il titolo viene dalle prime parole del testo latino, Sacrosanctum Concilium), ci fa scoprire nella messa non solo l’atto misterioso – a cui “si assisteva” – della transustanziazione, cioè del cambiamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo, bensì la presenza di Cristo nella sua eterna offerta pasquale, a cui «si partecipa», ricevendo lo Spirito Santo che alimenta così la nostra vita cristiana. La Bibbia (Costituzione Dei Verbum) non è tanto un deposito di verità a cui attingere per la nostra teologia, bensì la parola viva che Dio continua a rivolgere alla sua Chiesa e ad ogni cristiano per aprirli al suo amore.
Le altre due Costituzioni sono state indicate come «rivoluzioni copernicane», nel senso che come l’astronomo polacco Copernico dimostrò che non è il Sole a girare intorno alla Terra ma la Terra intorno al Sole, così quanto sembrava primario si rivela funzionale e viceversa. E in realtà la Chiesa nel mondo contemporaneo (Costituzione Gaudium et spes) riconosce che non è l’umanità subordinata alla Chiesa, ma è la Chiesa al servizio dell’umanità; e nella Chiesa in sé (Costituzione Lumen gentium) prima ancora di un laicato subordinato alla gerarchia, vi è un primato del popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio (in latino: ministerium).
Già da qui si evidenzia che, se con Benedetto XVI consentiamo che nella Chiesa v’è una «continuità» dogmatica (non è stato definito alcun nuovo dogma, al massimo ne sono stati richiamati alcuni trascurati, come l’universalità dell’offerta di salvezza o la collegialità, o collaborazione dei vescovi col papa), vi è stata però una forte «discontinuità» pastorale, col richiamo appunto della responsabilità personale, nella formazione cristiana e nell’agire ecclesiale.
Dobbiamo riconoscere che l’entusiasmo e la spinta dei tempi del Concilio e delle speranze immediate si sono affievoliti, un po’ per la maggiore difficoltà di una maturazione comunitaria nei confronti di strutture gestite autoritativamente (a tutti i livelli), un po’ per alcuni eccessi realizzati negli anni ‘68-‘69 che hanno indotto chi era in allarme per i cambiamenti a bloccare tutto (e forse, come dicono i tedeschi, insieme all’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino).
Una lezione comunque che abbiamo ricevuto da questo Concilio è che la tradizione non equivale alla fissazione del passato, bensì, secondo l’etimologia (tradere è trasmettere, tradizione è trasmissione), è «aggiornare», secondo la formulazione di papa Giovanni, è dire le verità di sempre in modo adatto al giorno d’oggi.
Diceva padre Congar – poi diventato cardinale – che un Concilio ottiene i frutti più pieni dopo cinquant’anni. Preghiamo il Signore che sia proprio così!

mons. Luigi Bettazzi

mercoledì 12 settembre 2012

Quel papa che non habemus

da Confronti

«Sarebbe stato bello poter dire di lui Carlo Maria I, papa. La sua scomparsa mi ha riportato alla mente la morte di Giovanni XXIII: pena oggi soprattutto di affetti memori, mentre questa è tutta pena della mente. Perché Martini vuole far pensare».

Se fossimo stati tutti come lui, audaci e prudenti, il Vaticano II non sarebbe un reperto archeologico e il suo valore più importante, che è l’apertura al futuro della vecchia Chiesa del Vaticano I e del Tridentino, si sarebbe meglio affermato. Invece Giovanni Paolo II, ma in particolare Benedetto XVI, rinnegando un concilio solo «pastorale», e, quindi, estraneo al potere del dogma, hanno tentato di riportarci alla Chiesa delle certezze e a quella Tradizione ormai arida, lasciando la comunità dei credenti nel disagio della solitudine. Intanto la storia correva, seminando problemi ardui e nuovi e interpellando le coscienze a rileggere valori e credenze, mentre il futuro viene caricando di ambiguità le crisi del sistema ormai violento della globalizzazione.

«La chiesa è rimasta indietro di duecento anni»: è la constatazione di Martini nella sua ultima intervista, espressione lucida di una sofferenza che non è stata soltanto sua, ma di molti teologi silenziati dalla censura vaticana. Ed è la sofferenza di molti credenti che vedono, come dice Martini, «la Chiesa stanca… la nostra cultura invecchiata: le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi… Siamo come il giovane ricco che triste se ne andò via».

Martini non aveva mai avuto accenti così diretti, anche perché non intendeva farsi leader di nessuna opposizione. Tuttavia i suoi interventi e le sue iniziative sono sempre state esemplari. Lezioni di dubbio davanti al mistero della fede che non fornisce ricette consolatorie sulla morte. Lezioni di teologia attenta a rileggere la scrittura e la morale per l’umanità del terzo millennio. Lezioni di purificazione dai tabù tradizionali che hanno coinvolto la religione nella mortificazione della corporeità e del sesso, con sofferenze che, nel caso dell’omosessualità, hanno prodotto grandi sofferenze. Lezioni di cultura «plurale»: «Cattedra dei non credenti» (Cortile dei Gentili ha altro senso) per imparare nella reciprocità, anche con gli atei; e, con lo stesso interesse, dialogo con le altre religioni, a partire dall’islam di quel Maometto che, due secoli dopo Ambrogio, credeva nel Dio unico e auspicava un mondo di solidarietà e di pace. Lezioni di carità autenticamente cristiana sui limiti della bioetica strumentale e nelle argomentazioni per l’accettazione del preservativo, della volontà del malato in materia di accanimento terapeutico, delle libere convivenze «che sono già famiglie» e della comunione ai divorziati. Lezioni di solidale «scelta dei poveri», sia nella presenza diretta in carcere, negli ospedali, tra i lavoratori, sia nel sostegno per leggi internazionali di giustizia sociale, per un’Europa migliore, per limitare i danni delle speculazioni e del liberismo nella crisi. Lezioni di giustizia, di temperanza, di carità veramente cristiane. Lezioni di amore. L’intervista al Corriere si chiudeva con una domanda: «Che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

10 settembre 2012

Giancarla Codrignani

martedì 11 settembre 2012

Sostiene Guglielmo n. 2


Sostiene Guglielmo che i laici devono partecipare ai concili ecumenici poiché ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Tutti i laici, quindi anche le donne: Dio, sostiene, non fa differenza di sesso.

Guglielmo da Ockham, Dialogus de potestate papae et imperatoris

mercoledì 5 settembre 2012

Sostiene Guglielmo n. 1


Sostiene Guglielmo che i laici hanno il dovere di difendere la fede come difendono i propri figli.

Guglielmo da Ockham, Dialogus de potestate papae et imperatoris

mercoledì 29 agosto 2012

Senso di appartenenza

Quello che viene comunemente definito senso di appartenenza è sicuramente un sentimento di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana, un legame che si instaura tra individui coscienti di avere in comune una medesima matrice culturale, intellettuale, sociale, professionale, religiosa. Frequentemente esso porta alla costituzione di organismi di vario genere – fondazioni, istituzioni, società, enti, associazioni, corporazioni, ordini e quant’altro – i cui principali obiettivi sono ad extra la tutela degli interessi degli aderenti e ad intra la promozione della loro coscienza identitaria.

Tuttavia è anche vero che un senso di appartenenza troppo marcato può comportare effetti deleteri. In questi casi l’organismo si chiude in se stesso separandosi dal suo naturale contesto; finisce col prendere piede una logica di divisione di tipo “dentro/fuori” per la quale gli estranei vengono visti come diversi. È appena il caso di rilevare che questa è la stessa logica che ispira i settarismi, i fondamentalismi, i nazionalismi; in questi casi, evidentemente patologici, la rivendicazione identitaria è talmente esasperata che gli estranei da diversi finiscono col diventare nemici. Il singolo, inoltre, rischia di vedere compromessa la propria individualità. Frequenti sono i casi di organismi che richiedono ai propri membri un’adesione totale e incondizionata e utilizzano ogni mezzo per stimolare e accrescere in essi lo spirito di gruppo; l’individuo in questo ambiente così fortemente caratterizzato può trovarsi nella condizione di dover delegare ad altri, più o meno consapevolmente, le proprie scelte.

Come va dunque vissuto un senso di appartenenza che per quanto intenso e gratificante sappia tenersi lontano da questi eccessi? Come si può appartenere a un organismo senza esserne assorbiti, senza rinchiudere in esso i propri orizzonti intellettuali ed emotivi?

Personalmente ritengo che collocarsi in una posizione di frontiera, di bordo - con i piedi dentro e con la testa fuori, se così si può dire - possa costituire un sistema efficace: sufficientemente dentro, così da contribuire e attingere a un comune sentire, ma anche sufficientemente fuori, così da esercitare liberamente il proprio giudizio critico. Una posizione un po’ decentrata, eccentrica, così da resistere ai richiami centripeti e non cedere a tentazioni centrifughe. Credo che questa sia la sola collocazione che consenta di non lasciarsi condizionare eccessivamente dall’organismo di appartenenza: rimanere terzi rispetto ad esso quel tanto che basta per conservare la propria indipendenza di azione e di pensiero, per mantenere integra la propria obiettività di giudizio. Conseguentemente, il senso di appartenenza che deriva da questa collocazione marginale non è mai totalizzante, senza se e senza ma; al contrario, è sempre parziale, limitato, anche quando la propria adesione è suggellata da un atto ufficiale, solenne, se non addirittura sacro, come può esserlo un sacramento o una professione religiosa. Si appartiene, certo, ma solo fino a un certo punto; c’è sempre una riserva mentale che lascia aperta una via di fuga intellettuale, è sempre alta la soglia di attenzione critica che consente di operare tutti quei distinguo resi opportuni o necessari dalle circostanze contingenti.

È una collocazione intellettualmente scomoda, impegnativa, faticosa da sostenere e da difendere: chi decide di farla propria corre il rischio di essere considerato come uno che ha l’arroganza di preferire la propria opinione a quella dei più, che col proprio comportamento mette a rischio l’unità del gruppo, che rifiuta l’ortodossia dell’organismo stesso del quale fa parte; una posizione scomoda, quindi, anche dal punto di vista emotivo poiché non risparmia sensi di colpa e conflitti interiori. Tuttavia, per quanto scomoda, ritengo che questa collocazione sia anche l’unica che possa essere di una qualche utilità per se stessi e in fin dei conti anche per gli altri. È l’eresia, non certo l’ortodossia, il vero motore del rinnovamento; eretico è colui che ha il coraggio di scegliere e utilizza ciò che sceglie per aprire nuove strade, per esplorare nuovi territori. Per rinnovarsi e rinnovare bisogna essere eretici. Per essere eretici bisogna essere liberi. E per essere liberi bisogna restare ai margini.

29.8.2012

Pietro Urciuoli

mercoledì 25 luglio 2012

Istigazione a riflettere n. 3

Nel medioevo alla riverenza verso il pontefice si abbinava, con una facilità e frequenza oggi sconosciuta, la più grande libertà di parola e di atteggiamento nei suoi confronti.

Marino Damiata, Guglielmo da Ockham, povertà e potere Vol. II.

mercoledì 18 luglio 2012

Prima di tutto la nostra conversione

Una omelia di P. Aldo Bergamaschi


Poi Gesù andò a insegnare nei villaggi dei dintorni. Chiamò i dodici apostoli e cominciò a mandarli qua e là, a due a due. Dava loro il potere di scacciare gli spiriti maligni e diceva: Per il viaggio, prendete un bastone e nient’altro; né pane, né borsa, né soldi in tasca. Tenete pure i sandali, ma non due vestiti. Inoltre raccomandava: Quando entrate in una casa, fermatevi finché è ora di andarvene da quella città. Se la gente di un paese non vi accoglie e non vuole ascoltarvi, andatevene e scuotete la polvere dai piedi: sarà un gesto contro di loro. I discepoli allora partirono. Essi predicavano dicendo alla gente di cambiare vita, scacciavano molti demoni e guarivano molti malati ungendoli con olio.
Marco 6, 7-13

Voi direte cosa ci sia da dire dopo la lettura di questo vangelo, c’è purtroppo molto da dire, perché qui se voi notate siamo all’origine della divulgazione del messaggio cristiano. Se questo è il paradigma, cosa è accaduto lungo i secoli? Come si è divulgato invece il messaggio cristiano?
La mia tesi è che purtroppo ormai siamo in una specie di palude, dove cioè il cristianesimo si è trasformato in una religione come tutte le altre religioni, quindi, con tutti quei difetti che sono costitutivi della religione stessa. La cosa più grave è che il messaggio cristiano non è più la salvezza degli uomini, non lo è di fatto e purtroppo non lo è di principio, perché quello che dovevamo predicare è diventato ormai una formula e ci troviamo nella situazione che tutti deprechiamo, ma che nessuno di noi riesce a tirarsi fuori.
Scusatemi, ma quando le cose vanno male si cerca un colpevole: fino a 15 anni fa la colpa era del comunismo, adesso che il comunismo non c’è più, si dice che la colpa è dell’ateismo e di tutte queste forme parallele che mostrano una forma di ateismo. Le cose vanno male perché noi siamo malati, Gesù non va in giro a dare colpe, né manda i suoi discepoli a dare delle colpe, li manda a guarire questi poveri disgraziati che erano posseduti dai demoni, aggravati da malattie dovute alla caduta del peccato originale, su cui noi portiamo il nostro peso successivo. Li manda a cacciare i demoni, a ungere di olio gli infermi e guarirli.
Per coloro che fossero interessati a questi problemi, voglio fare notare come i testi evangelici sono delle testimonianze, non dei testi storici. Ecco un esempio piccolo: S. Marco, che è un evangelista, discepolo di Pietro, ma che probabilmente non ha seguito Gesù, fa dire a Gesù che l’apostolo deve andare con il bastone, non prendere nulla per il viaggio, né pane, né bisaccia ecc. S. Matteo, che si riferisce al medesimo episodio, dice invece che il discepolo non deve portare il bastone. Allora, quale sarà il vero pensiero di Gesù? Cercherò di darvi una soluzione, che non sarà definitiva, nel senso che resta sospeso il fatto di sapere di preciso che cosa Gesù ha detto. Si desume il pensiero generale, si vuol dire che il discepolo di Gesù, l’apostolo, non va in giro come vanno in giro i propagandisti delle altre religioni o con dei prodotti da vendere.
Come mai un evangelista dice che possono prendere il bastone e l’altro invece no? E non si sa di preciso che cosa Gesù abbia veramente detto. La spiegazione che prescinde dal sapere con esattezza quale è l’indicazione, ma che ci fa capire il pensiero generale di Gesù, lascia sospeso il discorso. E questo è un caso piccolo, ma ce ne sono dei più grossi con i quali non voglio turbarvi ora la coscienza. Badate che chi vi parla crede che Gesù sia Dio, però l’accesso al Vangelo va fatto con questa precauzione, cioè a dire, che i vangeli sono delle testimonianze non sono dei testi storici.
S. Matteo dice che il discepolo va senza bastone, perché Matteo scrive il suo vangelo per gli orientali. Nella mentalità orientale - e si vede anche da tutta la raffigurazione artistica - il bastone è sempre in mano al padrone. Chi ha il bastone in mano è colui che comanda, e Gesù non vuole assolutamente questo, quindi il Vangelo è rivolto agli orientali ed è l’interpretazione di Matteo che dice che chi va in giro con il bastone ha l’aria di essere il padrone imponendo le leggi. Questo è il motivo per cui Matteo dice: niente bastone. Il discepolo deve avere l’apparenza di un mendicante senza essere un mendicante, ed ecco la proibizione della bisaccia. Tutte queste proibizioni sono in funzione di quell’ambiente dove il bastone, la bisaccia, o il danaro erano simbolo di qualcosa che il discepolo di Cristo era venuto a rivoluzionare e non poteva diventare il simbolo della novità evangelica.
Vi racconto un episodio accaduto all’epoca di S. Francesco e S. Domenico. Voglio citare S. Domenico perché non lo ritengo dal punto di vista della tecnica, della novità evangelica, all’altezza di S. Francesco, perché S. Domenico si mette al servizio dell’istituzione, mentre S. Francesco si mette al servizio del Vangelo, e non è il caso di parlarvi di come S. Francesco si sia convertito ascoltando questo passo nella forma di Matteo. Siamo attorno all'anno 1220 e S. Domenico stava predicando in una zona dove c’erano molti eretici, nella zona della Francia meridionale verso Tolosa. Come adesso, le autorità ecclesiastiche promuovevano delle dispute, e decidevano la loro sorte; il Vescovo della zona vi prende parte con i suoi cavalli, le carrozze con tutto il seguito, i simboli dell’episcopato e così via. S. Domenico si rivolge al vescovo suo e dice: Eccellenza, ho l’impressione che se vogliamo convertire gli eretici, dobbiamo percorrere un’altra strada, bisogna che noi andiamo a questo convegno scalzi, vestiti poveramente, senza le insegne del potere. Mentre si addentravano nella zona, si presenta un eretico il quale sotto false spoglie chiede di indicargli la strada per portarli al convegno. S. Domenico accetta e questo eretico insegnò loro una strada sbagliata. Il vescovo e tutta la corte, S. Domenico e i suoi frati, scalzi, incominciarono ad entrare in un bosco. Ora, tra le spine delle castagne e dei pruni, cominciarono a sentire sgomento e il vescovo si lamentava. Allora S. Domenico gli rispose che era l’unica strada per potere dialogare con gli eretici: noi abbiamo molte colpe e quindi dobbiamo scontarle con questa penitenza e dobbiamo essere umili pronti a tutte le sofferenze.
Dice il cronista che quell’eretico che li aveva deviati a un certo punto si butta in ginocchio confessando il male fatto e convertendosi. S. Domenico confermerà al vescovo che quella era le sola strada per convertire gli eretici, e non quella di fare dei convegni e di imporre la propria autorità, perché abbiamo molte colpe e su quelle,  prima di tutto dobbiamo portare la nostra attenzione.
Ora dovrei fare l’applicazione all’epoca nostra. Domenica scorsa abbiamo avuto la questione dei gay, come debbono comportarsi i cristiani per essere in ordine con il precetto evangelico? Tutti predichiamo la conversione, ma prima di tutto dobbiamo convertirci noi; questo è il mio dramma, prima di tutto la nostra conversione, dare un esempio chiaro di come dovrebbe essere l’interpretazione del messaggio di Gesù Cristo. Questo purtroppo è il punto debole del cristianesimo.
Chiudo ripetendovi che ormai siamo caduti al rango di religione e non riusciamo più a tirarci fuori. Beati coloro - io miseramente sono su questa linea - che cercano di capire che cosa veramente il cristiano deve fare in quei tre ordini di peccato che si espande in tutto il mondo: sesso, danaro, potere. Non si scappa, è perfettamente inutile sognare di avere le Chiese piene e trovare delle gherminelle degli apostolati per riaggregare la gente, che vedo molto pericolose, e sarebbero fenomeni religiosi, secondo me gravissimi, che allontanano dalla conversione. Dicevo a dei fratelli di Geova: guardate, so quello che devo fare, e piuttosto chiedo a voi come avete risolto il problema del sesso, del danaro e del potere; a quel punto scappano via. Io so dove sono debole, ma voi che volete criticare, ditemi come avete risolto questi tre problemi, e io andrò con chi li avrà risolti, bisogna essere uniti in nostro Signore Gesù Cristo.

Omelia pronunciata il 16 luglio 2000

venerdì 22 giugno 2012

Anche costui era con Gesù

in “Riforma” del 15 giugno 2012


Il pontefice romano è davvero il «successore di Pietro»? È una delle questioni più dibattute tra le chiese, anche se non sono sicuro che sia così interessante. Forse, però, potrebbe esserlo e, per spiegare in che senso, racconterò una storia (vera).
Nel corso di un viaggio a Berlino, ho visitato un cimitero nel quale sono sepolti, tra gli altri, i filosofi Fichte ed Hegel, Bertolt Brecht ed Helène Weigel e dove si trova un monumento in memoria di un teologo famoso e di alcuni suoi familiari, caduti nella lotta contro Hitler. Proprio vicino a questo monumento, non segnalata in alcun modo, ho notato la tomba di Johannes Rau, già presidente della Repubblica federale tedesca, protestante convinto, predicatore laico della Chiesa evangelica della Renania. Mi ha molto emozionato il versetto biblico inciso sul cippo: «Anche costui era con Gesù di Nazareth».
Nel racconto evangelico della passione, come si sa, la frase è sulla bocca di una donna che vuole smascherare Pietro, denunciandolo come discepolo di Gesù. Pietro, da parte sua, vorrebbe negare, nascondersi, piantare in asso il Maestro arrestato. Gli evangeli ci parlano di Pietro come di uno che, nel momento decisivo, tradisce. Questa è la verità. La donna, tuttavia, dice anche un’altra verità, in fondo ancora più grande. La dice per accusare, ma non ha importanza. Decisivo è che, traditore o no, buono o cattivo, intelligente od ottuso, anche lui, Pietro, era con Gesù di Nazareth. E che cosa si potrebbe dire di più importante sulla vita di una donna o di un uomo?
In questo senso, credo che la questione della successione di Pietro sia importante. Naturalmente faccende come il potere del papa, il primato, o addirittura l’infallibilità, hanno poco o nulla a che vedere con ciò che conta, e cioè con questo: successore di Pietro è colui o colei che, magari senza particolare coraggio, magari fallendo ingloriosamente nel momento decisivo, era, comunque, con Gesù. Successori di Pietro sono tutti i cristiani e le cristiane che, tra mille contraddizioni e debolezze, sperano che un giorno si possa dire: anche costui, anche costei, era con Gesù di Nazareth.

di Fulvio Ferrario

mercoledì 13 giugno 2012

Potere del sacro e liberazione del Vangelo

Luca Kocci intervista Vittorio Mencucci



Qualsiasi sarà l’esito della “caccia ai corvi” in Vaticano che hanno diffuso a mezzo stampa documenti riservati fatti uscire dall’appartamento papale e dagli uffici della Curia, certo è che quello che si sta combattendo oltre il colonnato del Bernini è un conflitto di potere e per il potere. Perché quella che si è andata stratificando e costruendo Oltretevere è una struttura di potere che, dalla prima comunità degli apostoli, passando per l’imperatore Costantino – che ha tentato di utilizzare la Chiesa per riorganizzare l’Impero ormai in crisi e prossimo al crollo – e per i papi teocrati Gregorio VII e Innocenzo III, ha assunto e concentrato in sé tutta l’autorità, sacralizzando se stessa e autoproclamandosi padrona e dispensatrice della Verità.
Alla luce di tutto ciò, il volume di Vittorio Mencucci (parroco a Scapezzano di Senigallia, assiduo omileta della nostra agenzia per cui ha recentemente scritto le “omelie fuoritempio” della Quaresima 2012) appena pubblicato dall’editore Di Girolamo (Ma liberaci dal... sacro. Vivere il vangelo nella modernità, pp. 240, 16€, in vendita anche presso Adista), pur tenendosi a debita distanza dal Vatileaks, ha profondamente a che fare con quello che sta accadendo in questi mesi nei “sacri palazzi”, proprio perché, nella fedeltà al Vangelo, tenta una demistificazione del “sacro”, unica strada per avviare un cammino di liberazione.   

«Il sacro in Vaticano e nella istituzione ecclesiastica è “l’unguento magico” che imbalsama le mummie e genera il blocco storico di sapore tridentino», spiega Mencucci ad Adista. «Il sacro prende il posto di Dio: è originario e nello stesso tempo definitivo, la sua trasformazione storica nell’epoca costantiniana, nell’antagonismo contro l’Impero e nella riorganizzazione feudale, viene rimossa, perciò diventa intangibile, esige solo sottomissione. Metto in discussione non qualche episodio spiacevole, ma l’insieme della struttura: la pomposità delle parate, la scalata al potere e alle onorificenze, gli stemmi nobiliari, i titoli onorifici di eccellenza o eminenza, abiti ed agi adeguati al rango, mal si conciliano con il messaggio evangelico: non fatevi chiamare… voi siete tutti fratelli, chi vuol essere primo si faccia servo di tutti. Inoltre la sacralizzazione delle strutture genera fastidio alla coscienza moderna educata alla dignità del pensare libero, fatto di dubbi, di interrogativi e di ricerca. Tra le ragioni dell’abbandono della pratica religiosa c’è sempre il rifiuto della struttura al vertice. Ma è blasfemo avanzare delle critiche. Così il sacro diventa la copertura della logica di gruppo. Il segreto pontificio non serve niente alla vita di fede della nostra gente, né allo spirito evangelico che suggerisce di proclamare sui tetti. I segreti appartengono alla logica del potere che si autodifende».

Il titolo del tuo libro però sembrerebbe invitare gli uomini e le donne a liberarsi e ad affrancarsi dalla fede. È proprio così?
Il titolo Ma liberaci dal…sacro è provocatorio. Potrebbe essere rovesciato in “Liberiamo il sacro dalle sue contraffazioni”. Infatti, se per sacro intendo l’apertura all’infinito, allora esprime l’essenza stessa della persona nella sua capacità di pensare che sempre trascende ogni limite e ogni finitezza: è il fondamento della libertà. In questo orizzonte si delinea il volto di Dio inteso come il “totalmente altro” e si pone la domanda sul senso del vivere e morire. Così inteso, allora, il sacro sollecita l’insonne fatica della ricerca e del pensare, con lo stupore di fronte all’immenso: è il sigillo della nostra dignità e allo stesso tempo l’impronta di Dio.

E le religioni intendono il sacro con questa accezione?
Nelle varie religioni domina il sacro oggettivato, che pretende di catturare la divinità in un oggetto finito, “separato” (qadosh) dall’uso umano e chiamato a rappresentare Dio nella dimensione percepibile dai nostri sensi e quindi a nostra disposizione. E proprio perché separato, erige divieti al vivere ordinario e impone doveri, ma rassicura e genera l’illusione di aver catturato Dio e quindi di essere potenti.

Insomma, la religione del tempio…
Se il divino abita nel tempio, il resto è pro-fano, che però deve essere sottomesso al potere divino, magari con una guerra santa o con una crociata. Fissato una volta per sempre, richiede solo accettazione e sottomissione. Questa via però non è percorribile per l’essere umano moderno, che si caratterizza invece proprio per la libertà del pensare.

L’annuncio di Gesù invece ha infranto questa tradizione e questo schema?
In tutto il discorso evangelico la critica di Gesù al sacro oggettivato è costante. Pone la propria umanità che muore in croce e dopo tre giorni risorge come alternativa al tempio. Afferma che i veri adoratori del Padre lo adorano in spirito e verità, al di fuori di ogni tempio. Quando muore in croce, il velo del tempio si squarcia da cima a fondo: è la fine della religione del sacro che nel tempio trova il suo fulcro. Infatti la Nuova Gerusalemme che scende dal cielo non ha tempio, non perché gli uomini siano atei, ma perché Dio abita in mezzo a loro senza bisogno del tempio. D’altra parte l’incarnazione è diametralmente opposta alla separazione del sacro.

Il sacerdozio come si inserisce in questa visione?
Sacrificio e sacerdozio sono intimamente legati al sacro. Il sacrificio espiatorio presuppone un Dio adirato che esige il sangue del colpevole o di una vittima sostitutiva. Il Dio che ci ha rivelato Gesù invece ha un volto totalmente diverso, è come il padre nella parabola del figliol prodigo. Il sacerdote è gestore del sacro, ma nel cristianesimo non c’è un sacro da gestire. All’inizio infatti si usa il termine “apostolo”, ossia colui che è mandato ad annunciare l’evento salvifico ormai compiuto, su cui fondare l’esperienza di fede. I termini sacrificio e sacerdote entrano nel linguaggio ordinario nel III secolo, in un percorso parallelo alla crisi della coscienza romana, che cerca nel sacro un argine alla disgregazione dell’Impero.

Si tratta però di termini che ormai sono entrati a far parte non solo del linguaggio, ma anche delle strutture e dell’immaginario comune…
La sacralizzazione delle strutture le rende intangibili, perciò è nemica di ogni novità storica. Da qui scaturisce il conflitto con la modernità, che di per sé non avrebbe alcun senso, perché nella Parola di Dio si trovano le radici delle conquiste moderne sul valore della persona e del suo impegno storico. Anzi, lo sviluppo della modernità permette una più approfondita comprensione della Parola di Dio di quanto non l’abbia permesso il Medioevo chiuso nella sua struttura piramidale, autoritaria e statica, con le sue guerre sante e gli imperdonabili roghi di chi la pensano diversamente.

Come spieghi il “ritorno al sacro” di questi ultimi anni?
Il ritorno al sacro che si sta verificando talora ha un’impronta positiva quando nasce dal desiderio di trovare un senso alla vita oltre il godimento del consumismo, ma per lo più esprime l’insicurezza e lo smarrimento di fronte al mondo moderno dinamico e pluralista: è lo scoglio a cui il naufrago si aggrappa per sfuggire a un mare tempestoso. Qui la religione diventa la copertura delle falle umane. Bonhoeffer parlava di tappabuchi. Spesso la ricerca di un fondamento inconcusso e rassicurante si trasforma in fondamentalismo cieco, ostinato e persino aggressivo.


da Adista-Segni nuovi n. 23/2012

venerdì 1 giugno 2012

Istigazione a riflettere n. 2

L'unica cosa che veramente resta di una vita sono le idee.

Paul Henri Thiry d'Holbach

Né servo né padrone


Francesco d’Assisi è universalmente noto anche per il suo amore per il creato e per gli animali; un aspetto caratteristico della sua personalità e della sua spiritualità, che da sempre ha attirato l’attenzione dei biografi, ispirato l’estro degli artisti e suscitato la devozione popolare.
Il tema, a mio parere, è però soltanto apparentemente semplice e occorre evitare due estremizzazioni.
Il primo errore è scadere nell’aneddotica, salvo a scoprire quanto d’interessante possa celarsi anche in essa. Prendiamo ad esempio il noto episodio del lupo di Gubbio, riportato dai Fioretti al cap. XXI. Comunemente si ritiene che si tratti di una storia inventata, di una leggenda: dietro il feroce animale si nasconderebbe in realtà un signorotto locale che Francesco avrebbe convertito e rappacificato con la gente del posto. Invece non pochi elementi portano a ritenere che si tratti proprio di un lupo in carne ed ossa. In primo luogo, il contesto storico e ambientale del tempo: il massiccio disboscamento praticato dai contadini per far fronte alle esigenze alimentari di una popolazione in forte crescita demografica privò del loro habitat naturale molti animali selvatici che cominciarono così a spingersi alla ricerca di cibo sino alle soglie dei centri urbani minacciandone gli abitanti. Ma soprattutto vi sono alcune circostanze mai del tutto chiarite: la più interessante è la seguente. Nei pressi della chiesa intitolata a San Francesco della Pace, nel centro di Gubbio, fu ritrovato nel 1873 nel corso di lavori edili un sarcofago in pietra contenente i resti mortali di un lupo; è a dir poco strano che a un simile animale fosse riservato un tale riguardo. Di segno contrario, per così dire, sono invece le notizie storiche relative alla altrettanto famosa predica agli uccelli, immortalata da Giotto in uno dei più famosi affreschi della Basilica superiore di Assisi. Tommaso da Celano, il primo biografo ufficiale di Francesco, colloca questo episodio a Bevagna, in un tempo imprecisato, facendone un esempio dell’amore di Francesco per la natura. Ben diversa è la descrizione dell’episodio contenuta nelle cronache dei monaci benedettini Ruggero di Wendover e Matteo Paris: reduce dalla visita al papa nel 1210 Francesco, amareggiato dall’indifferenza e dal disprezzo mostrati dal popolo romano nei suoi confronti, sulla via del ritorno si mette a predicare a uno stormo di uccellacci intento a raspolare sui rifiuti.
Il secondo errore di cui si diceva è attribuire a Francesco intenzioni che egli invece non ebbe affatto, conferendo ai suoi atteggiamenti discutibili contenuti teologici. Non sono infrequenti, ad esempio, le interpretazioni del suo amore per la natura in funzione anti-catara quando invece è noto che Francesco evitò sempre confronti con gli eretici sia sul piano dottrinale sia su quello della prassi; per altro verso, invece, non mancano i tentativi di attribuirgli sfumature di un latente panteismo; e soprattutto abbondano in letteratura testi che sovraccaricano questo suo amore per il creato di un misticismo e di uno spiritualismo sicuramente esagerati.
Personalmente ritengo che entrambe queste estremizzazioni siano sbagliate giacché da un lato banalizzano, dall’altro distorcono il suo genuino atteggiamento offuscandolo nel suo carattere principale: Francesco è innanzitutto un uomo che ha preso sul serio il suo impegno alla conversione. Più si sforzava di liberarsi dal peso del peccato più riusciva a guardare il creato con gli occhi stessi del Creatore. E così, con quella concretezza e spontaneità che erano proprie del suo carattere, elaborò con un modo tutto suo di stare al mondo: riscopertosi fratello di Cristo visse da fratello universale, rapportandosi a tutto e a tutti semplicemente da uomo libero, “né servo né padrone”, neanche fosse stato un anarchico.

Pietro Urciuoli

giovedì 31 maggio 2012

Istigazione a riflettere n. 1

Una nuova forma di chiesa può nascere solo dal vivo di chi se ne fa carico in prima persona, non per soppiantare un sistema inestirpabile, né per dichiarasi fuori, né per risolvere tutto in pura interiorità di compensazione, ma per essere insieme in povertà portatori di nuova coscienza e nuova incarnazione nella potenza dello Spirito, interpreti per quanto sconosciuti di una istanza generale di Popolo di Dio!

Alberto Bruno Simoni o.p.

da Koinonia forum n. 307 - maggio 2012

domenica 27 maggio 2012

Non citare il Vangelo invano





28.05.2012
Non è un comandamento ma dovrebbe esserlo. Troppo spesso si offrono del Vangelo interpretazioni improprie, strumentali, capziose; e la cosa è ancor più grave quando queste operazioni sono compiute proprio da quelle persone che, teoricamente, sarebbero deputate alla guida del popolo di Dio.
Per commentare l’ennesimo scandalo che ha travolto la curia vaticana Benedetto XVI ha fatto riferimento alla parabola della casa sulla roccia: Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa ma essa non cadde perché era fondata sopra la roccia” (Mt 7, 25).
Ma con questo suo dire il nostro benedetto papa, in pratica, identifica la sua curia con l’intera Chiesa e questa tesi non mi sembra per niente corretta, anzi, per dirla tutta, ritengo che si tratti di una autentica idiozia.
È la Chiesa tutta intera, la Chiesa popolo di Dio, la Chiesa assemblea dei credenti che non andrà mai in rovina perché costruita sulla roccia di Cristo; su questo non vi è alcun dubbio. Ma la curia vaticana non è la Chiesa tutta intera; tutt’al più, per alcuni aspetti, la rappresenta. Essa ne è solo una sua componente istituzionale; una componente regolata da leggi umane, che segue logiche umane. E se non va in rovina non è certo per una speciale protezione dall’alto ma solo perché, come tutte le istituzioni governative degli stati sovrani, è difficile da rovesciare. Conseguentemente non c’è niente di strano che anch’essa sia popolata da personaggi ambigui, intenti a tessere segrete trame; tutte le istituzioni hanno i loro corvi, perché non il Vaticano? È normale che sia così e non c’è motivo di gridare allo scandalo né di invocare a sproposito il Vangelo. La vicenda del corvo – o dei corvi, laici o chierici che siano - non minaccia affatto la Chiesa popolo di Dio; minaccia solo il papa e il suo codazzo di ridicoli cicisbei. E che questa Chiesa vada in rovina mi lascia del tutto indifferente, anzi, per certi versi, mi fa anche piacere.
Piuttosto, citazione per citazione, mi viene in mente un passo dell’apostolo Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Spero che le vicende di questi giorni inducano noi tutti, popolo di Dio, a riflettere su cosa è veramente “Chiesa” e cosa invece non lo è.

Pietro Urciuoli

giovedì 24 maggio 2012

La Casta ecclesiastica si chiude a riccio

Dichiarazione di Vittorio Bellavite, portavoce nazionale di “Noi Siamo Chiesa” 



Questa mattina sono state distribuite ai vescovi, riuniti  in assemblea, le attese “Linee guida”  sul comportamento da tenere da parte dei vescovi per quanto riguarda gli abusi sessuali del clero sui minori. Esse sono state direttamente approvate dal Consiglio Permanente della CEI  e poi ratificate in Vaticano. Il testo è stato  redatto in un rigoroso segreto, esclusi i vescovi, esclusi i rappresentanti delle vittime e qualsiasi altro soggetto interessato, per esempio l’opinione pubblica, cattolica e non. A proposito, tra l’altro, di collegialità episcopale !!
Nel merito, ad una prima lettura, tutte le varie tappe dei procedimenti previsti (“verosimiglianza della notizia”, “indagine previa” , provvedimenti cautelari ecc..) appaiono affidate al “prudente discernimento del vescovo”. Molte sono le garanzia a tutela dei preti; delle vittime non si parla, salvo qualche generica parola di buone intenzioni nella Premessa. Esse non hanno diritti espliciti e garantiti.
Il testo ricorda che il vescovo non è tenuto, in base alla legge italiana, a deferire il prete accusato all’autorità giudiziaria. Lo sapevamo già. Ma se questo obbligo non è previsto dalla legge, poteva però  essere un impegno vincolante a carico del vescovo che le “Linee guida” decidevano  unilateralmente.
Il testo inoltre non prevede l’istituzione di alcuna autorità indipendente che  sia il primo punto di riferimento per le vittime (ciò è avvenuto invece in tante altre conferenze episcopali e nella diocesi di Bolzano-Bressanone). Quindi tutto come prima.         
Sorde e cieche sono le guide del nostri vescovi
Sorde perché, chiuse nella difesa della loro casta, non hanno ascoltato nessuno dei tanti, vittime e altri, che hanno cercato di interloquire e di proporre ragionevolmente, a partire da diritti violati.
Cieche perché non vedono, non vogliono vedere,  la situazione come si è manifestata, anche nel nostro paese, negli ultimi tre o quattro anni       
Che poi i vescovi si ritengano  degni di fiducia in questa materia è atto di pura arroganza quando, ovunque nelle nostre diocesi, è stata prassi consolidata quella di “coprire” i colpevoli e l’istituzione-Chiesa, con ben scarso interesse per le vittime. Forse a qualcuno di essi che ha più coscienza, supponiamo, capiterà di non volersi guardare allo specchio.
Amareggiati come ci è capitato raramente di esserlo, non ci resta che sperare che la nostra magistratura applichi con rigore, come ha fatto il GIP di Savona nel caso Lafranconi, il secondo comma dell’art. 40 del codice penale là dove recita : “Non impedire un reato, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” e che, a questo titolo, si proceda nei confronti dei vescovi, ogni volta che ce ne siano le condizioni oggettive.

Roma, 22 maggio 2012

CHIESA DI TUTTI, CHIESA DEI POVERI.

Da Adista-Notizie n. 19/2012 la convocazione di una assemblea di laici a 50 anni dal Concilio

 

La Chiesa cattolica celebrerà nel prossimo ottobre i cinquant’anni dall’inizio del Concilio e ha indetto, a partire da questa ricorrenza, un anno della fede. Viene così stabilito un nesso molto stretto tra il ricordo del Vaticano II e la fede trasmessa dal Vangelo e annunziata dal Concilio. A ciò sono interessati non solo i fedeli cattolici, ma anche gli uomini e le donne di buona volontà associati, come dice il Concilio, «nel modo che Dio conosce» al mistero pasquale, che intendono, nel nostro Paese come in tante parti del mondo, ricordare e interrogare quell’evento e quell’annuncio. Per questa ragione i gruppi ecclesiali, le riviste, le associazioni e le singole persone appartenenti al “popolo di Dio”, firmatari di questo appello, convocano un’assemblea nazionale per
sabato 15 settembre 2012 (10-18) a Roma presso l’Auditorium dell’Istituto “Massimo” (zona Eur)
Nella consapevolezza dei promotori è ben presente il fatto che ricordare gli eventi non consiste nel portare indietro gli orologi, ma nel rielaborarne la memoria per capirne più a fondo il significato e farne scaturire eredità nuove ed antiche e impegni per il futuro. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda gli eventi di salvezza (come certamente il Concilio è stato), molti dei quali non furono capiti dagli uomini della vecchia legge e dagli stessi discepoli di Gesù, se non più tardi, quando alla luce di nuovi eventi la memoria trasformatrice ne permise una nuova comprensione. Fu così ad esempio che, dopo la lavanda dei piedi, Gesù disse a Pietro: «Quello che io faccio ora non lo capisci, lo capirai dopo”, e fu da questa nuova comprensione che scaturì il primato della carità nella vita della Chiesa.
Così noi pensiamo che in questo modo, non meramente celebrativo, debba essere fatta memoria del Concilio nell’anno cinquantesimo dal suo inizio, e che al di là delle diverse ermeneutiche che si sono confrontate nella lettura di quell’evento, quella oggi più ricca di verità e di frutti sia un’ermeneutica della memoria rigeneratrice. Essa è volta a cogliere l’“aggiornamento” che il Concilio ha portato ed ancora oggi porta nella Chiesa, in maggiore o minore corrispondenza con il progetto per il quale era stato convocato. 
L’assemblea di settembre vorrebbe essere una tappa di questa ricerca. Se si terrà a settembre, invece che in ottobre, è perché intende rievocare, sia come inizio che come principio ispiratore del Vaticano II, anche il messaggio radiofonico di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962 che conteneva quella folgorante evocazione della Chiesa come «la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri». Da questo deriva infatti il tema del convegno.
Dopo un pensiero sulla “Mater Ecclesia” che gioì in quel giorno inaugurale dell’11 ottobre 1962 (intervento di Rosanna Virgili) l’incontro si articolerà in tre momenti: il primo dedicato a ricordare ciò che erano la Chiesa e il mondo fino al Concilio (intervento di Giovanni Turbanti); il secondo per discernere tra le diverse ermeneutiche del Vaticano II (intervento di don Carlo Molari); il terzo sulle prospettive future, nella previsione e nella speranza di un “aggiornamento” che continui, sia nelle forme dell’annuncio, sia nelle forme della preghiera, sia nella riforma delle strutture ecclesiali (intervento di Cettina Militello), con parole conclusive di Raniero La Valle (“Il Concilio nelle vostre mani”).
Sono previsti diversi interventi e contributi di testimoni del Concilio così come di comunità, di gruppi e di persone presenti al convegno, che potranno testimoniare la loro volontà di essere protagonisti della vita della Chiesa. L’ipotesi è che mentre lo Spirito «spinge la Chiesa ad aprire vie nuove per arrivare al mondo» (Presbyterorum Ordinis n. 22), l’eredità del Concilio, nella continuità della Chiesa e nell’unità di pastori e fedeli,  ancora susciti ricchezze che è troppo presto per chiudere nelle forme di nuove “leggi fondamentali” (come fu tentato a suo tempo) o di nuovi catechismi, che non godono degli stessi carismi dei testi conciliari; mentre restano aperti gli orizzonti dell’ecumenismo e del dialogo con le altre religioni e tutte le culture per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.
In questo spirito i promotori invitano alla preparazione e alla celebrazione del convegno romano di settembre, che parteciperà in tal modo a un programma di iniziative analoghe che si stanno già realizzando, in diverse forme, in Europa e nel mondo e che si concluderanno nel dicembre 2015 con un’assemblea mondiale a Roma a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio.
Vittorio Bellavite, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Raniero La Valle, Alessandro Maggi, Enrico Peyretti, Fabrizio Truini
Promotori: Agire politicamente; Associazione “Cercasi un fine” (Ba); Associazione Cresia (Ca); Associazione Esodo (Ve); Associazione Mounier (Cr) (Rete dei Viandanti); Associazione nazionale Maurizio Polverari (Rm); Assemblea permanente S. Francesco Saverio (Pa); Associazione Sulla Strada – Attigliano (Vt); Associazione Viandanti (Pr); Beati i costruttori di pace (Pd); Casa della Solidarietà - Quarrata (Pt) (Rete dei Viandanti); Centro internazionale Helder Camara (Mi); Chicco di Senape (To) (Rete dei Viandanti); Chiesa-Città (Pa); Chiesa Oggi (Pr) (Rete dei Viandanti); Cipax (Rm); Città di Dio - Invorio (No) (Rete dei Viandanti); Comunità cristiana di base di S.Paolo (Rm); Comunità Cristiane di Base italiane; Comunità del Villaggio artigiano (Mo); Comunità di base delle Piagge (Fi); Comunità di Mambre – Busca (Cn); Comunità di S.Benedetto (Ge); Comunità di S. Rocco (Ca); Comunità ecclesiale di S. Angelo (Mi); Comunità La Collina (Ca); Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza); Fine Settimana (Vb) (Rete dei Viandanti); Fraternità degli Anavim (Rm); Galilei (Pd) (Rete dei Viandanti); Gruppo ecumenico donne (Vb) (Rete dei Viandanti); Gruppo Promozione Donna (Mi); Il Concilio Vaticano II davanti a noi (Pr) (Rete dei Viandanti); Il Dialogo – Monteforte Irpino (Av); Il filo (Na) (Rete dei Viandanti); Il Guado - Gruppo di riflessione su fede e omosessualità (Mi); Koinonia (Pt) (Rete dei Viandanti; La Rosa Bianca; Le radici e frutti (Ca); Lettera alla chiesa fiorentina (Fi) (Rete dei Viandanti); MIR- Movimento Internazionale per la Riconciliazione; Noi Siamo Chiesa; Nuove Generazioni (Rn); Oggi la parola - Camaldoli (Ar) (Rete dei Viandanti); Ore Undici (Rm); Parrocchia S. Maria Immacolata e San Torpete (Ge); Piccola Comunità Nuovi Orizzonti (Me); Preti del Friuli-Venezia Giulia della Lettera di Natale; Preti operai della Lombardia; Progetto Continenti – Roma; Progetto Gionata su Fede e omosessualità (Fi); Scuola popolare Oscar Romero (Ca); Vasti - scuola di ricerca e critica delle antropologie (Rm); Vocatio - Movimento dei preti sposati. Riviste: Adista; Cem mondialità; Combonifem; Confronti; Dialoghi; Esodo; Il Foglio; Il Gallo; Il Tetto; L’Altrapagina; Missioni Consolata; Missione oggi; Mosaico di pace; Nigrizia; Orientamenti sociali sardi; Popoli; Preti operai; Qol; Segno; Sulla Strada; Tempi di fraternità; Viottoli.