Nato nel febbraio del ’64 non ho vissuto gli
anni del Concilio e neanche quelli dell’immediato post-Concilio ma ho avuto
familiarità con questo evento fin da ragazzo poiché lo statuto della Gioventù
Francescana di cui facevo parte era costruito proprio sui testi conciliari; gli
articoli dello statuto rimandavano continuamente alla Gaudium et spes, alla Lumen
gentium, all’Apostolicam actuositatem
e quindi posso dire che, sebbene in modo indiretto, ho avuto modo di
assimilarne i contenuti principali. Oggi, tuttavia, col senno del poi, mi rendo
conto che i frati deputati alla formazione di noi giovani francescani si
limitavano a commentare i testi conciliari ma non ci aggiornavano su quanto,
proprio sull’impulso di quei testi, avveniva all’interno della Chiesa: nessuno,
in quegli anni, mi ha parlato dell’esperienza delle Comunità di base
dell’Isolotto e di San Paolo Fuori le Mura, di Lercaro e Dossetti, di Congar e
Chenu e io ero solo un ragazzo, troppo ingenuo per capire certe cose. Chiuso
nel guscio rassicurante della mia fraternità e preso dai mille impegni che essa
comportava non mi rendevo conto che vivevo come sotto una campana di vetro.
Tante vicende spinose che hanno agitato la Chiesa del post-Concilio le ho
scoperte molto tempo dopo, da solo, sui libri; l’Humanae vitae, il catechismo olandese, la Teologia della
Liberazione. C’è tutto un pezzo Chiesa che mi sono perso, ricco di stimoli e fermenti,
che confrontato con il clima di conformismo e di apatia di oggi sembra
appartenere a un’epoca distante anni luce. Per un verso, ovviamente, me ne
rammarico; per un altro, invece, mi sento stimolato a un maggiore impegno. Sono
consapevole, infatti, di appartenere ad una generazione che ha il compito di riappropriarsi del patrimonio spirituale e culturale di quegli anni per trasmetterlo
alle generazioni successive, perché niente vada perduto.
Anche io sto cogliendo l’occasione di questo
cinquantesimo per chiedermi cosa ha cambiato il Concilio, nella Chiesa e nella
società. E devo dire che la disputatio
in corso tra i sostenitori di ermeneutiche varie non mi aiuta a fare chiarezza.
Sicuramente però posso dire che mi pare del tutto campata per aria la pretesa
di affermare a tutti i costi la continuità tra Vaticano I e Vaticano II. Dal
punto di vista dogmatico questa continuità c’è stata, ma solo perché il
Vaticano II di dogmatico non ha detto nulla di nuovo. Ma come si fa ad
affermare che c’è stata continuità riguardo alla liturgia, all’accessibilità
del popolo alla Sacra Scrittura, al rapporto con gli ebrei e con le altre
confessioni cristiane, alla libertà di coscienza quale fondamento imprescindibile
della dignità umana e via discorrendo? In tutti questi campi il Vaticano II ha
rappresentato non solo una innovazione ma una svolta epocale, una vera e
propria rivoluzione copernicana. La Chiesa, almeno nelle intenzioni, uscì profondamente
rinnovata da quell’evento. E’ questo, più che le diverse ermeneutiche, il
messaggio centrale da cogliere e da trasmettere alle nuove generazioni: l’importanza
per noi cristiani di interrogarci, di rinnovarci, di aprirci fiduciosamente al dialogo
con tutti gli uomini di buona volontà. E
aver messo insieme il Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa
Cattolica nell’unico contenitore dell’Anno della fede forse non ha giovato alla
trasmissione di questo messaggio, distogliendo l’attenzione generale dalle
rivoluzioni apportate dal Concilio e da quelle di cui oggi la nostra Chiesa ha urgentemente
bisogno.
Del resto, limitarsi a dire che in questi
cinquant’anni molto si è fatto ma che ancora molto c’è da fare non ha molto
senso, è una evidente ovvietà. Ha un senso solo se si ha il coraggio di
affrontare i problemi alla radice, mettendo a confronto a viso aperto le
differenti opinioni. A mio parere uno dei problemi centrali è il modo con cui
viene gestito il potere nella Chiesa sotto il duplice profilo del “chi” è
chiamato a decidere e del “come” è strutturato il processo decisionale. Non
condivido l’opinione di quanti, confidando nell’opera dello Spirito Santo,
sostengono che si tratti di un problema marginale. Sicuramente lo Spirito Santo
guida sempre e comunque la Chiesa ma ciò non ci esime dal dovere di definire
architetture istituzionali che lascino spazio più all’azione dello Spirito e che
a quella degli uomini. Non è un caso se
l’attuale disagio manifestato da varie componenti ecclesiali ad ogni latitudine
– dai parroci austriaci, alle suore americane, al laicato di tutto il mondo – è
legato a filo doppio con problematiche
che cinquant’anni fa furono espunte dal dibattito conciliare e risolte
d’imperio dalla Santa Sede a concilio finito; basti pensare celibato obbligatorio,
al sacerdozio femminile, alla sessualità coniugale. Si dice, ed è tristemente
vero, che i concili vanno e vengono ma la curia vaticana resta. Io penso che il
Concilio potrà essere foriero di nuove e profonde riforme soltanto se si avrà
il coraggio di affrontare il nodo problematico della gestione del potere. Non
certo per fare rivoluzioni; ma un conto è il fondamento divino del primato
petrino, altro sono le istituzioni umane deputate a tradurre questo primato in
termini di norme e prassi.
Pietro Urciuoli