Pagine

domenica 29 aprile 2012

Attesa

Da Koinonia - forum 304, 24 aprile 2012


Con tutta l'anima spero nel Signore e conto sulla sua parola:
Spero nel Signore e l'attendo più che una sentinella l'aurora.
Tutto Israele speri nel Signore:  egli è buono e può liberarci.
Il Signore libera il suo popolo da tutti i suoi peccati.
Salmo 130, 5-7

Perché è vero che siamo salvati, ma soltanto nella speranza.
E se quel che si spera si vede, non c'è più una speranza,
dal momento che nessuno spera ciò che già vede. Se invece
speriamo quel che non vediamo ancora, lo aspettiamo con pazienza.
Romani 8, 24-25


Sia l’Antico che il Nuovo Testamento descrivono la nostra esistenza in rapporto a Dio come una relazione di attesa. Nel salmista c’è un’attesa ansiosa; nell’apostolo c’è un’attesa paziente. Aspettare significa non avere e al tempo stesso avere. Dal momento che  non abbiamo ciò che attendiamo; o, come dice l’apostolo, se noi speriamo in quello che non vediamo, allora lo aspettiamo. La condizione della relazione dell’uomo con Dio è prima di tutto di non avere, non vedere, non conoscere e non comprendere.

Una religione nella quale questo viene dimenticato, non importa quanto sia estatica o attiva o ragionevole , sostituisce Dio con la propria creazione di un’immagine di Dio. La nostra vita religiosa è caratterizzata più da questo genere di creazione che da qualcos’altro. Penso al teologo che non aspetta Dio, perché Lo possiede, racchiuso in una dottrina. Penso a chi studia la Bibbia che non aspetta Dio,perché Lo possiede, chiuso in un libro. Penso all’uomo di chiesa che non aspetta Dio, perché Lo possiede, chiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio perché lo possiede, chiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio,questo aspettare Dio. Non è facile pregare domenica dopo domenica senza convincere noi stessi e gli altri che noi abbiamo Dio e che possiamo disporre di Lui. Non è facile proclamare Dio ai bambini e ai pagani, agli scettici e agli atei, e al tempo stesso spiegare loro chiaramente che noi stessi non possediamo Dio, che anche noi Lo aspettiamo. Sono convinto che gran parte della ribellione contro il Cristianesimo è dovuto all’aperta o non esplicita  pretesa dei cristiani di possedere Dio, e perciò, anche, alla perdita di questo elemento dell’attesa, così decisivo per i profeti e gli apostoli. Non lasciamoci deludere nel pensare che, poiché parlano di attesa, essi aspettassero solamente la fine, il giudizio e l’adempimento di tutte le cose, e non Dio il quale venisse a portare tale fine. Essi non possedevano Dio; Lo aspettavano. Ma come può essere posseduto Dio? È Dio una cosa che può essere afferrata e conosciuta tra le altre cose? È Dio inferiore a una persona umana? Abbiamo sempre da aspettare un essere umano. Persino nella più intima comunione tra esseri umani, c’è un elemento di non avere e non conoscere, e di aspettare.


Perciò, poiché Dio è infinitamente nascosto, libero, e incalcolabile dobbiamo aspettarLo nel modo più assoluto e radicale. Egli è Dio per noi proprio nella misura in cui noi non Lo possediamo. Il salmista dice che il suo intero essere aspetta il Signore, indicando che aspettare Dio non è semplicemente una parte della nostra relazione verso Dio, ma piuttosto la condizione di quel rapporto come un tutto. Abbiamo Dio benché non Lo abbiamo.


Ma, sebbene aspettare sia non avere, è anche avere. Il fatto che aspettiamo qualcosa mostra che in qualche modo già la possediamo. Aspettare anticipa ciò che non è ancora reale. Se aspettiamo con speranza e pazienza, il potere di ciò che aspettiamo  è già reale dentro di noi. In definitiva colui che aspetta non è lontano da ciò che aspetta. Colui che aspetta con pazienza ha già ricevuto il potere di ciò che attende. Colui che aspetta ardentemente è già un potere attivo lui stesso, il più grande potere di trasformazione nella vita personale e storica. Siamo più forti quando aspettiamo che quando possediamo. Quando possediamo Dio, Lo riduciamo a quella piccola cosa che conosciamo e che afferriamo di Lui; e ne facciamo un idolo. Soltanto nell’idolatria si può credere nel possesso di Dio. C’è molto di questa idolatria tra i Cristiani.

Ma se sappiamo che non Lo conosciamo, e se aspettiamo che Egli riveli se stesso a noi, allora conosciamo veramente qualcosa di Lui, allora siamo afferrati e conosciuti e posseduti da Lui. È allora che siamo credenti nella nostra incredulità, e che siamo accettati da Lui nonostante la nostra separazione da Lui.


Non dimentichiamo, comunque, che aspettare è una tremenda tensione. Preclude tutta la soddisfazione di non avere nulla, l’indifferenza o il cinico disprezzo verso coloro che hanno qualcosa, e il lasciarsi andare al dubbio e alla disperazione. Non permettiamo che il nostro orgoglio di non possedere nulla diventi un nuovo possesso. Questa è una delle grandi tentazioni del nostro tempo, poiché restano poche cose che possiamo dichiarare di possedere.  E ci arrendiamo alla stessa tentazione quando ci vantiamo, nel nostro tentativo di possedere Dio, che non Lo possediamo. La risposta divina ad un tale tentativo è il vuoto assoluto. Aspettare non è la disperazione. È l’accettazione del nostro non avere, nel potere di ciò che già abbiamo.


Il nostro tempo è un tempo di attesa; aspettare è il suo speciale destino. E ogni tempo è un tempo di attesa, l’attesa per l’irruzione dell’eternità. Il tempo scorre avanti. Il tempo, sia nella storia che nella vita personale, è attesa. Il tempo stesso è aspettare, aspettare non un altro tempo, ma ciò che è eterno.


Paul Tillich

sabato 28 aprile 2012

Per molti, non per tutti


Nei giorni scorsi Benedetto XVI ha inviato una lettera alla Conferenza Episcopale tedesca nella quale comunicava un importante cambiamento riguardante la liturgia eucaristica: al momento della consacrazione il sacerdote non dovrà più dire “...versato per voi e per tutti...” bensì “...per molti...”. Ovviamente la cosa non riguarda solo i vescovi tedeschi ma tutti i vescovi del mondo; quelli italiani ne discuteranno nell’assemblea nel prossimo maggio quando saranno chiamati ad approvare il nuovo messale.

Benedetto XVI spiega la sua decisione con motivazioni di carattere esegetico. L’evangelista Marco (14,24) nel suo vangelo scrive upèr pollôn, Matteo (26,28) perì pollôn,  Luca (22,19) upèr umôn. La vulgata latina traduce il testo di Marco e Matteo con pro multis e quello di Luca con pro vobis. Il messale latino in uso fino al Concilio Vaticano II diceva quindi pro multis cioè «per molti». Paolo VI nel 1969 volle sostituire il «per molti» con il «per tutti» per sottolineare l’universalità della salvezza; fu una decisione contestata che scatenò le proteste degli ambienti più tradizionalisti. Benedetto XVI ha voluto così ripristinare la formula preconciliare perché più aderente al testo originale greco e alla sua traduzione latina. La questione però è controversa; Gesù, infatti, parlava ai suoi discepoli in aramaico e molti esegeti ritengono che probabilmente avrà usato l’espressione la-rabbîm che significa «per le moltitudini» o anche «per tutti»; una espressione che nella cultura ebraica del tempo sta ad indicare una totalità, una universalità.

Benedetto XVI offre anche una spiegazione teologica e pastorale della sua scelta. La salvezza operata dal Cristo è sicuramente per tutti ma sono gli uomini a decidere se accettare la chiamata oppure no. Ecco perché il «per molti» va meglio del «per tutti»: per coloro, cioè, che vogliono rispondere alla chiamata. In sostanza, questa espressione sottolinea l’importanza della cooperazione del singolo fedele al raggiungimento della salvezza. Il «per tutti», invece, rappresenterebbe una sorta di banalizzazione, una salvezza offerta a buon mercato anche a chi non la chiede. 

Inutile dire che la questione ha sollevato e sta sollevando molte polemiche. Dal punto di vista esegetico è stato osservato che se è per questo nei vangeli ci sono molte espressioni tradotte in maniera del tutto inappropriata (tanto per fare un esempio, il cammello che non passa per la cruna dell’ago) che però non sono state oggetto di analoga attenzione da parte del pontefice. Molte polemiche sono state sollevate anche riguardo alla spiegazione teologica addotta dal papa: questa traduzione si presta facilmente ad essere interpretata nel senso che la salvezza non è per tutti ma solo per un certo numero di eletti - secondo l’obsoleto ma mai definitivamente sepolto principio secondo il quale extra Ecclesiam nulla salus – tanto che lo stesso Benedetto XVI ha ammesso che i fedeli devono essere opportunamente catechizzati prima di introdurre questa novità nella liturgia. Ma soprattutto non è passato inosservato che il ritorno a questa formula preconciliare coincide con l’approssimarsi della chiusura delle trattative con i lefebrviani; questa precisazione circa la corretta traduzione del testo evangelico - della quale nessuno sentiva la necessità e l’urgenza - rappresenterebbe una ennesima concessione di Benedetto XVI in vista di una riconciliazione.

Cosa pensare di tutto ciò? Non saprei; so solo che con sempre maggior frequenza le decisioni del papa mi lasciano perplesso e che la situazione della nostra Chiesa cattolica mi sembra sempre più avvilente. Per consolarmi mi sono soffermato a rileggere una pagina di un libro dell’Abbé Pierre (Mio Dio ... perché?, Garzanti, 2005) che a suo tempo mi aprì la mente e il cuore.



Gesù ha trovato una maniera straordinaria per ri­manere presente in mezzo a noi nascostamente: at­traverso la consacrazione del pane e del vino, che di­ventano per il credente presenza del suo corpo e del suo sangue.
Di tutti i sacramenti, l’eucaristia è il sacramento per eccellenza. È a un tempo il testamento di Gesù e l’attualizzazione della sua presenza in mezzo a noi. È il sacramento che più mi parla, che più mi tocca an­che in modo sensibile.
L’eucaristia è veramente il sacramento della fede. Senza la fede, non è che un insignificante pezzo di pane. Con la fede, è di capitale importanza. Nella co­munità cristiana ci sono diversi modi di concepire l’eucaristia. Per i cattolici, si tratta del Cristo real­mente e misteriosamente presente. Teologicamente, si può parlare, seguendo san Tommaso d’Aquino, di «transustanziazione». La parola è un po’ barbara e significa che la sostanza del pane viene trasformata (dalle parole del sacerdote) nella sostanza di Gesù. All'estremo opposto, la maggior parte dei prote­stanti considera l’eucaristia come un simbolo: il pane consacrato non è il corpo del Cristo ma il simbolo della sua presenza fra di noi.
Personalmente, e come un certo numero di catto­lici o di protestanti, mi colloco in una posizione di mezzo. Non mi preoccupo della «transustanziazione» ma unicamente della presenza. Io credo, senza sapere come, senza cercare di spiegarmi la ragione, che il Cristo sia misteriosamente presente nell’ostia consacrata. Poco importa il modo.



E poco importano, mi sento di aggiungere, le discettazioni esegetiche del papa: Cristo si è incarnato, è morto ed è risorto per tutti. Punto. Se così non fosse non avrebbe alcun senso la nostra fede.



Pietro Urciuoli

venerdì 27 aprile 2012

Dammi tre parole


Il titolo l’ho preso in prestito da una canzonetta commerciale che imperversava qualche anno fa. Le parole su cui voglio riflettere, però, non sono “sole”, “cuore” e “amore” bensì “Ordine”, “Francescano” e “Secolare”.

Cominciamo dalla seconda, “Francescano”. Da un qualunque dizionario della lingua italiana si apprende che si tratta di un aggettivo col quale indicare una qualsiasi cosa riferibile a Francesco d‘Assisi: es., predicazione francescana, frate francescano, regola francescana.

Sin qui tutto bene. I problemi nascono con la prima e la terza parola dietro le quali si celano rispettivamente un errore e una tautologia.

“Ordine” è inappropriato. Francesco non ha mai voluto niente di simile, l’ordo è il frutto della modificazione genetica imposta dalla chiesa istituzionale alla sua fraternitas. “Secolare” è ridondante. Non esiste un francescanesimo clericale, il francescanesimo o è laicale o non è.

Insomma, su tre parole se ne salva solo una. Vuoi vedere che era meglio la canzonetta?!

Pietro Urciuoli

sabato 21 aprile 2012

La mia umanità è al futuro

Da http://www.padrebergamaschi.com/, aprile 2012


Ecco cosa mi dico: il Cristo viene a te sotto le specie sacramentali del diverso: la donna, l'operaio, il nero, il musulmano, il buddista ecc. Il Dio di Gesù Cristo è nascosto in ogni diversità, egli è il Santo. Ma la sua diversità ha disteso veli tra noi e ci viene incontro attraverso gli uomini differenti da noi. Il viso di Dio è il viso dell'uomo che io non arrivo a comprendere. Mio compito non è far diventare cristiani gli altri, bensì quello di entrare nella identità degli altri e di comprenderli o, almeno, di prenderla come misura delle possibilità del Regno. La vera via della Trascendenza è nel passaggio verso l'altro, è nel fatto dì accogliere la provocazione dell'altro conservandola nel mio cuore come faceva Maria mentre ascoltava lo parola del Figlio, il Diverso per eccellenza.

È su questa premessa che baso la mia risposta alla domanda: Perché rimango cristiano? Resto cristiano per essere totalmente uomo. Quando dico totalmente non faccio allusione alle dimensioni di tipo esistenziale contenute nella totalità dell'umanità; l'uomo vero è la realizzazione delle possibilità che giacciono come una semenza nelle profondità dell'uomo "homo absconditus". Diciamo e siamo figli di Dio ma non sappiamo propriamente chi siamo noi. Lo sapremo quando vedremo Dio faccia a faccia. La mia identità è quindi al futuro e sarà esprimibile soltanto nel momento in cui l'umanità raggiungerà la sua pienezza. Questa pienezza è il Regno di Dio. lo non vivo per la Chiesa, non vivo per dilatare la comunità dei cristiani. Vivo perché venga il Regno. La Chiesa alla quale appartengo è un segno ed uno strumento di questo futuro, ma questo futuro la oltrepassa, io stesso la oltrepasso pur restando fedele.

Ieri come prete portavo abiti, segni distintivi dell'istituzione di cui ero il rappresentante. Due anni or sono, in un dibattito a Milano, una pia signora mi chiese perché non portavo l'abito da prete . "È bene che si sappia con chi si ha a che fare, un agente di polizia porta l'uniforme, se ne ho bisogno so a chi devo rivolgermi". Ebbene, io non sono affatto l'agente di polizia di Dio. Vorrei essere come il Cristo, semplicemente un figlio d'uomo, qualcuno che difende l'uomo per l'uomo.

Come dicevo all'inizio, la mia identità è di non averne alcuna o, meglio, di averne una che è situata nel futuro, una che riscopro soltanto quando dico : "Venga il tuo regno, sulla terra come nel cielo".

Per esporre in maniera riassuntiva Dio, la Chiesa, il mondo: ieri, credevo che Dio amasse la Chiesa e la inviasse al mondo per salvarlo; oggi, credo che Dio ami il mondo e che la Chiesa sia un segno ed uno strumento di questo amore che la precede e la oltrepassa. Ieri, mi definivo collocandomi dentro la Chiesa e guardando il mondo come una realtà da conquistare per la Chiesa; oggi, mi colloco nel mondo e vivo entro la Chiesa quel tanto che anticipa simbolicamente l'avvenire del mondo.

Ma mentre ieri guardavo il mondo a partire dalla Chiesa, oggi guardo la Chiesa a partire dal mondo e mi siedo alla tavola della Chiesa, la tavola eucaristica, precisamente perché là si ascoltano le parole che rivelano i segreti nascosti fin dalla creazione del mondo, perché là si elaborano le speranze di cui tutti gli uomini hanno bisogno.

E' vero, esiste ancora, e quanto è ingombrante, una Chiesa che si esprime col linguaggio della prudenza politica, che riveste di sacro la morale dominante.

Questa Chiesa non mi interessa, è quella di cui contemplo il declino con cuore gioioso. In me essa è già quasi morta. Ma questo declino è direttamente proporzionale all'emergenza della Chiesa come assemblea di coloro che non si curano di sapere chi essi sono, ma sanno di non avere, quaggiù, una città permanente (e dunque non è affatto necessario esservi registrati) e che cercano la città futura, la città verso la quale vanno tutti gli uomini, ciascuno con lo sua diversità. Si narra che durante l'età post-apostolica, si dava ai cristiani che partivano in viaggio, un frammento di vaso di terracotta. Al ritorno sarebbero stati riconosciuti per il fatto che il loro frammento poteva combinarsi perfettamente con gli altri. Sì, io so che la verità di cui vivo è appena un frammento. La mia identità è appunto il pezzo di un tutto. Quando tutti i frammenti saranno riuniti, allora io saprò veramente chi sono. La mia presunzione di ieri era di voler concentrare il tutto negli stretti limiti del mio frammento. Allora dicevo "noi cristiani " con gran fierezza.

Vorrei essere fedele al mio frammento nell'attesa che si compia la totalità. La via verso questo futuro è la stessa via che mi conduce verso il fratello per unirmi a lui, non in quello che egli è (poiché la suo verità è solo un altro frammento) ma in ciò che egli cerca. E' così che io mi sento a casa mia in tutti i luoghi di questo mondo. Io sono finalmente cattolico, e precisamente perché non lo sono più, perché sono un figlio dell'uomo.


Ernesto Balducci

venerdì 20 aprile 2012

Francesco uomo di pace


Francesco d’Assisi è presente nella coscienza di tutti, credenti o no, come uno degli uomini che più hanno saputo diffondere un messaggio di pace.

Numerose sono le circostanze nelle quali Francesco si è fatto luminoso portatore di pace e alcune di esse sono di grande notorietà: il patto di riconciliazione stipulato tra maiores e minores ad Assisi nel 1210 con il quale vengono risolti i conflitti sociali scoppiati durante la guerra contro Perugia del 1202, la missione presso il sultano nel 1219 nel corso della quinta crociata, la predica a Bologna nel 1222 a seguito della quale alcune famiglie nobili posero fine a secolari inimicizie, la concordia ritrovata tra il vescovo e il podestà di Assisi nel 1225 che gli ispira l’ultima strofa del Cantico di frate sole, la pace ristabilita a Siena e ad Arezzo; per non parlare della sua intermediazione tra il lupo e gli eugubini, episodio molto più vicino al vero di quanto si è spesso indotti a pensare.  

Tuttavia può risultare riduttivo svolgere la riflessione sull’argomento soltanto mettendo in fila una serie di episodi; è necessario ampliare l’orizzonte, andare oltre l’approccio episodico e aneddotico.

In primo luogo, il suo sentimento di pace va inteso come il frutto più importante della sua conversione; una conversione profonda e radicale, autentica, quella metanoia – dal greco metà (oltre) e nous (pensiero) - che consiste appunto nell’andare oltre il proprio modo di pensare, nel mettere in discussione il proprio modo di vedere le cose. Una conversione accompagnata, come tutte le conversioni, da un carico di sofferenza e di travaglio interiore: dai suoi inizi, quando sceglie di abbandonare prima le sue certezze (una agiata vita da mercante) e poi i suoi sogni (una avventurosa vita da cavaliere) per abbracciare lo status di penitente laico; ai suoi esiti finali, quando teme di aver sbagliato tutto e di aver condotto altri all’errore, quando si ritrova a pensare che avrebbe fatto meglio a prender moglie e a seguire il mestiere del padre.

Inoltre, va sottolineato che Francesco si spende tanto per portare la pace nel mondo quanto per portare la pace all’interno del suo Ordine e della Chiesa - nei quali non vi erano meno contrasti e discordie - e che è proprio in tali circostanze che il suo spirito è messo a più dura prova. Non è forse per salvaguardare la pace dell’Ordine che Francesco nel 1221 sceglie di farsi da parte affidandone la guida a frate Pietro Cattani, che accetta di scrivere una regola benché ciò costituisse per lui la più amara delle sconfitte, che chiede la protezione del cardinale Ugolino dei Segni pur sapendo che, per quanto gli fosse sinceramente devoto, avrebbe condotto l’Ordine sulla via dell’istituzionalizzazione e della clericalizzazione? E non è per salvaguardare la pace della Chiesa che si mostra sempre servo devoto di una istituzione della quale conosce bene i limiti e i difetti, che non si lancia mai in dispute con i cosiddetti eretici pur riconoscendone in alcuni casi la sincerità delle intenzioni? La pace che Francesco porta nell’Ordine e nella Chiesa non è affatto gratuita ma reca un profondo carico di sofferenza intesa come spoliazione di sé, mortificazione, umiliazione, rinuncia.

Ecco quindi che il messaggio di pace di Francesco non può essere ridotto alla riflessione su alcuni singoli episodi - per quanto significativi essi siano - e neanche può essere considerato come un suo atteggiamento istintivo e spontaneo, quasi il frutto di una naturale predisposizione; la pace che egli porta nel mondo e nella Chiesa è frutto di una profonda e sofferta conversione. Ciò serve anche a rendercelo più vicino. Francesco viene spesso presentato come un uomo inviato da Dio per sostenere una Chiesa in rovina e per questo motivo dotato di carismi del tutto speciali. Ciò è sicuramente vero ma non bisogna dare a questa lettura un peso eccessivo; quello che differenzia il grande santo dal comune battezzato non è tanto l’importanza della chiamata quanto la generosità, la costanza e la coerenza della risposta.

mercoledì 18 aprile 2012

Il discorso della montagna del dialogo intrareligioso

Da http://www.padrebergamaschi.com/, aprile 2012


Quando entri in un dialogo intrareligioso, non pensare prima ciò che tu devi credere.

Quando tu dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi costituiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fa' come gli uccelli del cielo che cantano e volano e non difendono la loro musica o la loro bellezza.

Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come una esperienza rivelativa, come tu guarderesti - o ti piacerebbe guardare - i gigli del campo.

Quando intraprendi un dialogo intrareligioso cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio, prima di rimuovere la pagliuzza dall'occhio del tuo vicino.

Beato te quando non ti senti autosufficiente mentre sei in dialogo.

Beato te quando credi all'altro perché tu credi in Me.

Beato te quando affronti incomprensioni da parte della tua comunità o di altri a causa della tua fedeltà alla verità.

Beato te quando non attenui le tue convinzioni e tuttavia non le presenti come norme assolute.

Guai a voi, teologi ed accademici, quando trascurate ciò che gli altri dicono perché lo considerate imbarazzante o non sufficientemente "scientifico".

Guai a voi, praticanti delle religioni, quando non ascoltate il grido dei piccoli.

Guai a voi, autorità religiose, perché impedite il cambiamento e la (ri)conversione.

Guai a voi, gente religiosa, perché monopolizzate la religione e soffocate lo Spirito che soffia dove vuole e come vuole.

Raimundo Panikkar


Tavertet, 6 agosto 1988

In Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, pp. 12-13

venerdì 13 aprile 2012

Monarchia assoluta


Mi è recentemente capitato di dover aiutare mio figlio (classe quinta elementare) in una ricerca scolastica: oggetto del compito era il significato di monarchia assoluta.

Mi sono subito diretto su Wikipedia, un sito molto utile per chi, avendo poco tempo a disposizione, sia alla ricerca di informazioni sintetiche, schematiche e dotate anche di una discreta attendibilità.

Non mi era ignoto il significato generale di assolutismo monarchico – un tipo di ordinamento istituzionale in base al quale tutto il potere è concentrato nelle mani di una sola persona, il sovrano – né che si trattasse di una forma di governo ormai quasi in disuso, limitata a pochi stati nazionali: non sapevo, però, quali fossero.

Ho così appreso che questi Stati sono sette: il Brunei, l’Oman, il Quatar, l’Arabia Saudita, lo Swaziland, gli Emirati Arabi Uniti e … la Città del Vaticano.

Il Brunei è un sultanato; il sultano è Hassanal Bolkiah, quello che ha la collezione di Ferrari, Bentley e Rolls-Royce; quelle vere, ovviamente, non i modellini. Per non parlare della carta da parati rivestita d’oro e dei diamanti sulla rubinetteria.

A capo dello Swaziland c’è il re Mswati III, quello che si sposa circa una volta l’anno scegliendo la sua nuova moglie tra tutte le vergini del suo regno nel corso della cosiddetta “Danza dei giunchi”, nella quale diverse migliaia di adolescenti danzano nei costumi tipici locali - cioè seminude - al suo cospetto: ha 37 anni e pare che attualmente abbia 13 mogli e 25 figli. Il suo è uno dei paesi più poveri del mondo ma lui vive in un lusso sfrenato.

Non mi sono peritato di raccogliere informazioni sugli altri sovrani, tutti compresi fra i dieci uomini più ricchi del mondo: non nutro simpatia per chi ha redditi troppo elevati e, peggio ancora, li ostenta.

Solo mi domando e dico: senza neanche bisogno di scomodare le teorie politiche di Montesquieu o di appellarsi a ecclesiologie conciliariste, non sarebbe opportuno ripensare alla gestione interna del potere nella Chiesa, non fosse altro per non vedere il nostro benedetto papa – che volenti o nolenti ci rappresenta tutti – accomunato a certa gente? Qualche malpensante potrebbe essere indotto a credere che non è molto dissimile...



Pietro Urciuoli

giovedì 12 aprile 2012

In ricordo di Antonio Tabucchi

Un ricordo del grande Antonio Tabucchi, attraverso una gustosa pagina del suo primo romanzo, Piazza d'Italia, la storia di una famiglia di anarchici toscani attraverso tre generazioni.


"Bisogna amputare", disse il pizzetto del medico.
La scheggia aveva sfracellato il piede che pendeva attaccato ai tendini, come un ex voto.
"Taglia pure questi filacci", disse Plinio.
Non fu un lavoro difficile, anche se fatto alla buona, tra il fumo e la confusione della breccia. Quando ebbe stagnato i vasi il medico prese la bacinella e fece per andarsene, ma Plinio lo fermò.
"Quello è mio e lo rivoglio", disse deciso.
Attraversò Roma in barella, col suo piede in mano sotto la coperta. Ai due compagni che lo trasportavano diceva "di qua, di là" quasi che conoscesse Roma come un romano. Invece andava a fiuto, come un bracco che ha trovato la pista. Arrivarono in vista della cupola che il sole ci tramontava dietro. Plinio aveva un sorriso di attesa sul viso di calcina. Volle essere portato, mentre i due davano ormai segni di impazienza, fin sotto le mura dei giardini vaticani. Allora tirò fuori il suo piede di sotto la coperta e con un gitto forte lo fece frullare al di là come un sasso. Poi si fece portare a un botteghino, comprò una veduta di San Pietro e la indirizzò alla sua Ester.
"Ho preso a calci Pio IX. Rispettosi saluti tuo Plinio". 

lunedì 9 aprile 2012

Non solo ottimo cinema



Brancaleone alle crociate (1970). Ballata dell'intolleranza

Cosa resta della povertà francescana

Il noto medievista francese Jacques Dalarun sostiene che lo studio delle origini di un ordine religioso non può limitarsi alla storia del suo fondatore e che non si può considerare il suo punto di vista come unico parametro di riferimento. Assumere questa prospettiva appare assolutamente doveroso nel caso dell’Ordine dei Frati Minori che conobbe nei suoi primi decenni di vita uno sviluppo tumultuoso e disordinato durante il quale molti tra i suoi caratteri distintivi, come appunto la povertà, subirono sensibili modificazioni.
Dal mio punto di vista per cogliere il senso della povertà francescana occorre far riferimento a un arco temporale che va da Francesco d’Assisi a Guglielmo da Ockham.
Francesco era una persona intuitiva, diretta, concreta; non era nelle sue corde un approccio speculativo alle cose, ai problemi, alle persone. Per lui la povertà era l’atteggiamento naturale dell’uomo che liberatosi dal peccato attraverso un cammino di conversione interiore riesce finalmente a riconoscere in Dio un padre che ha cura dei suoi figli. Nulla necessita veramente all’uomo se non Dio solo; sarà Lui a nutrirlo come nutre gli uccelli del cielo, sarà Lui a vestirlo come veste i gigli dei campi.
Ma quella che per Francesco era stata la più alta delle virtù divenne il più gravoso dei problemi per i suoi frati; subito dopo la sua morte, infatti, nell’Ordine si formarono due fazioni fieramente contrapposte che elaborarono concezioni differenti in merito alla interpretazione teologica della povertà e alla sua pratica regolamentazione. In questo passaggio, per un verso, la povertà perse sicuramente quel carattere spirituale, mistico, utopistico e sognante proprio di Francesco. Per altri versi, però, guadagnò spessore e concretezza, acquistò nuovi contenuti: contenuti giuridici, filosofici, ecclesiologici, teologici, politici.
La prima interpretazione della povertà francescana risale alla bolla Quo elongati del 1230 di Gregorio IX, un’interpretazione giuridica basata sulla differenza tra il concetto di usus e quello di proprietas. Questo documento, per usare una felice espressione di Giovanni Grado Merlo, segna il passaggio da una povertà vissuta a una povertà pensata; d’ora in avanti l’attenzione dell’Ordine sarà sempre meno rivolta ai poveri e sempre più alla povertà. Ma la questione della povertà trattata nella Quo elongati si innestava su una questione ancora più importante e cioè il conflitto tra Regola e Testamento, documenti dai quali trasparivano due modi diversi se non addirittura antitetici di concepire il francescanesimo: doveva essere l’ordo clericale che voleva Gregorio IX o la fraternitas laica che voleva Francesco? Inutile dire che il pontefice risolse il conflitto a favore della prima opzione negando ogni valore giuridico al Testamento da intendersi solo come esortazione morale.
Nei decenni successivi i migliori francescani, consapevoli del valore strategico della povertà e delle sue implicazioni, continuarono e approfondirono la riflessione sul tema; basti pensare all’opera di Pier Giovanni Olivi e alla sua teorizzazione dell’usus pauper o a Bonaventura da Bagnoregio, per quanto l’opera di quest’ultimo abbia un carattere più che altro apologetico.
Al vertice di questo percorso si colloca sicuramente Guglielmo da Ockham che consolidò la teologia francescana della povertà durante gli anni che videro l’Ordine impegnato in un aspro conflitto con il papato avignonese, determinandone un impressionante allargamento di orizzonti. La visione francescana della povertà che sino a quel momento aveva rappresentato l’elemento culminante di una dialettica tutta interna all’Ordine dei Frati Minori assunse con Ockham una funzione decisiva nella definizione dei rapporti di questo con la Chiesa istituzionale. Ma non basta, giacché il Venerabilis inceptor spinse la sua riflessione sino a concepire teorie del tutto originali sulla nascita della proprietà privata, sulla differenza tra legge naturale e legge positiva, sulla libertà dell’individuo e del cristiano, sulle prerogative del pontefice rispetto all’assemblea dei fedeli, sui rapporti tra papato e impero.
Per quanto la riflessione di Ockham abbia rappresentato il momento più alto della riflessione della scuola francescana sulla povertà non mancarono nei secoli successivi ulteriori e importanti specificazioni e approfondimenti; determinante, ad esempio, è l’opera di Bernardino da Siena che sviluppa la sua analisi nel senso della equa ripartizione della ricchezza e quindi sulla funzione sociale del commercio, stigmatizzando con violenza impressionante nelle sue famose omelie il diffuso fenomeno dell’usura.
Che cosa resta ai nostri giorni di tutta questa ricchezza di temi e prospettive? Ben poco, a mio parere. Oggi la povertà è prevalentemente declinata o in senso spirituale – il fiducioso abbandono a sorella Provvidenza – o in senso etico – l’impegno a condurre uno stile di vita sobrio e distaccato. Della povertà francescana intesa come autocoscienza laica di un Ordine coattivamente clericalizzato dalle gerarchie ecclesiastiche, come chiave ermeneutica del rapporto dialettico tra potere civile e potere religioso o come possibile modello alternativo agli squilibri economici e sociali sembrano essersi perse le tracce; temi dibattuti tra una ristretta cerchia di accademici in seminari e conferenze ma che non permeano più la riflessione e la prassi quotidiana dei singoli francescani e delle singole fraternità locali del primo, secondo o terzo Ordine. Un vero peccato.

Pietro Urciuoli

Chiesa si dice in molti modi

Cosa avverrebbe se tentassimo di definire il termine «Chiesa» secondo le categorie aristoteliche?
Le ricordate? Erano dieci: sostanza (la determinazione primaria dell’essere dell’ente, ciò che costituisce il suo «esser tale»), quantità, qualità, luogo, relazione, tempo, stare, avere, agire, patire. Rappresentavano i dieci modi generali (“i generi sommi di predicazione”) dell’essere. Esemplificando, Aristotele diceva che di Socrate (una sostanza) si può dire che è basso (predicazione secondo la quantità), è bianco (qualità), sta seduto (predicazione secondo il luogo), ecc. Aristotele diceva anche che la sostanza, dal canto suo, può intendersi in più modi: come materia (cioè come il substrato materiale), come forma (la sua funzione) e come l’unione o sinolo di entrambe; ma soprattutto come. Così nell’occhio (sostanza) distinguiamo una materia (la cornea, il cristallino, la retina…) e la forma (la funzione della vista); ma ciò che costituisce il suo «esser tale» è la sua funzione visiva, la forma; privato di essa, non sarebbe diverso dall’occhio di una statua.
E allora, finito il ripasso, che accadrebbe se provassimo a “predicare” aristotelicamente l’ente Chiesa (sostanza)?
Quantità. Notoriamente la Chiesa è Una, a maggior ragione dopo la svolta accentratrice impressa da Giovanni Paolo II che ha praticamente azzerato le Conferenze Episcopali nazionali. «Una», quindi, non nel senso di «unita» ma nel senso di «una-e-basta».
Qualità. In questo caso gli aggettivi si sprecano: santa, cattolica, apostolica, ecc. Ma ci sarebbe da aggiungere anche madre e matrigna, vergine e prostituta, ecc.
Luogo. Roma; ma neanche: Oltretevere.
Relazione. A forza di assumere l’atteggiamento da cittadella assediata dal relativismo, dall’ateismo, dal laicismo, dall’agnosticismo e Dio solo sa cos’altro ancora, la Chiesa si sta condannando a un dorato autoisolamento.
Tempo. Quello che pesa non sono i due millenni di storia, quanto i secoli che ci sono voluti per riconoscere Galileo e quelli che ancora ci vorranno per riconoscere definitivamente Darwin.
Stare. Preoccupa l’immobilismo intellettuale delle gerarchie ecclesiastiche e la conseguente difficoltà di elaborare visioni un po’ più dinamiche dei concetti di laicità, etica, sessualità, ecc.
Avere. Un po’ troppo, specie se si considera il subdolo meccanismo dell’otto per mille, le esenzioni fiscali, gli affari con la cricca, lo IOR e via di seguito.
Agire. Il Catechismo ci dice di una Chiesa militante, purgante, trionfante. Ma rispetto all’agire politico dovremmo parlare piuttosto di “Chiesa connivente”, rispetto all’agire sociale, di “Chiesa esitante” e rispetto all’agire finanziario di “Chiesa delinquente”.
Patire. Sono in molti a patire, fuori dalle mura vaticane. E forse anche dentro.
Fin qui una possibile lista di “predicazioni”, tra il serio e il faceto. Ma una domanda serissima si impone: quale sia la sostanza, la determinazione primaria della Chiesa, ciò che marchi il suo «esser tale». E’ una domanda di tale profondità che il solo tentare una risposta potrebbe sembrare presuntuoso. Preferisco allora riproporre, condividendola appieno, la definizione di un mio confratello del XIV secolo, fra’ Guglielmo da Ockham «la Chiesa non è il papa o la congregazione dei chierici ma è la comunità dei fedeli che comprende chierici e laici, uomini e donne».
Geniale, per suoi tempi ed i nostri.

Pietro Urciuoli

domenica 8 aprile 2012

Quando Benedetto XVI vola...


Da Micromega 26 marzo 2012


Quando è sull’aereo, e vola alto nel cielo, al di sopra delle nuvole (ma con un aereo dell’Alitalia pagato da noi, un altro otto per mille in altra forma), papa Benedetto XVI si sente forse più vicino alla Verità di Dio di quanto lo sia sulla terraferma. Fa ricordare “l’Occhio di Dio” racchiuso nel triangolo sopra le nubi tipico delle figurine devote diffuse nelle parrocchie. Da lassù, forse crede di vedere tutto e meglio. Perciò parla, e molto. E, sia detto senza irriverenza, spesso a sproposito.

Come quando, in volo per l’Africa, si esibì nel memorabile “discorso del preservativo”: peccato grave usarlo, anche se sei malato di Aids, anche se sai che, se non lo usi, infetti mortalmente la donna e il nascituro. Ecco dove giunge l’ossessione del peccato carnale, che il furioso sessuofobico
Agostino insufflò nella Chiesa, e di cui è erede anche Benedetto XVI, peraltro studioso e grande estimatore del santo.
Ma veniamo all’ultimo volo celeste del papa teologo. Quali, questo volta, le sue memorabili sentenze? Due, l’una legata all’altra in un groviglio di contraddizioni.

1) «La Chiesa non è un potere politico, non è un partito ma non rinuncia alla sua missione. La Chiesa sta sempre dalla parte della libertà, libertà di coscienza, di religione. Anche la politica però deve essere una realtà morale ed è in questo che la Chiesa ha fondamentalmente a che fare con la politica. Il primo compito è educare le coscienze sia nell’etica individuale, sia nell’etica pubblica».

“La Chiesa non è un partito, non è un potere politico”? È molto di più. Il suo capo è Benedetto XVI: qualche premuroso giornalista sull’aereo poteva ricordarglielo? Quello stesso Benedetto XVI che è anche il monarca dello Stato Vaticano: perché questa amnesia generale, tutta italiota? Dunque, la missione del papa a Cuba e in Messico, è, e non potrebbe essere diversamente, politica e religiosa al tempo stesso. Va a difendere la libertà religiosa, di coscienza? Ma di chi? In Messico, e a Cuba (almeno, a quanto sembra, dopo la storica visita di Wojtyla), nessuno la mette in dubbio. Ma allora che senso ha rivendicarla recandosi in missione in quei due paesi?

E poi, se la libertà religiosa va difesa, domanda lapalissiana per un laico, credente o non credente che sia, perché non difenderla, o meglio, perché non introdurla anche nello Stato Vaticano, dove c’è una sola religione che è religione di Stato, e tutte le altre sono messe al bando? Perché non guardare, evangelicamente, la trave nel proprio occhio, invece che la pagliuzza nell’occhio altrui? Perché non ricordare in modo coerentemente autocritico, con un pubblico altisonante mea culpa, le centinaia di encicliche papali e di documenti ecclesiastici dal Seicento ad oggi, che hanno condannato la libertà religiosa, anzi la libertà tout court?

Infine, se “anche la politica è realtà morale”, mi sembra chiaro che in democrazia lo è in senso pluralistico: che mille religioni e mille morali fioriscano, purché sia salva la libertà di tutti e di ciascuno. E invece no. La Chiesa di Benedetto possiede la vera morale, la vera etica, sia per la sfera privata del singolo sia per quella pubblica dello Stato. E poiché, secondo la dogmatica cattolica, ciò che è vero lo è in senso assoluto, perché viene da Dio, e ciò che è opposto al vero, il falso, lo è in senso altrettanto assoluto, perché viene da Satana, – tutti, singoli e Stati, se non vogliono deviare, si lascino, docili pecorelle, guidare sulla “retta via” dalla Chiesa e dal papa.

Orsù dunque, Cuba deviante e peccatrice, inginocchiati devota, e bacia l’anello di Benedetto, l’aspirante Gregorio VII o Innocenzo III dell’era globale!

2) «Oggi è un tempo in cui l’ideologia marxista, come concepita, non risponde più alla realtà. Occorre trovare nuovi modelli, con pazienza, in modo costruttivo. Vogliamo aiutare in uno spirito di dialogo, per evitare traumi e per contribuire ad andare verso una società giusta come la desideriamo per tutto il mondo».

Dunque il marxismo prima (quando, dove, quale: quello stalinista, polpottista, maoista, o fidelista?) rispondeva alla realtà. Dunque era vero, corretto, condivisibile? Ma allora perché papi, vescovi e cardinali l’hanno combattuto e anatemizzato, in tutte le forme e in tutte le salse, per oltre 150 anni? Perché, si può rispondere, era ateo, materialista, nemico della Chiesa, della vera religio, della Verità di Dio, e perciò falso.

Ma se era falso anche prima, la frase del papa ha poco senso. E poi, incredibile a dirsi!, quella frase si sposa perfettamente con la teoria della verità professata dalle scuole di partito e dai manuali di Diamat staliniani: «La verità è la corrispondenza delle nostre idee con la realtà esterna», che riproduce e aggiorna in senso scientista e positivista la vecchia aristotelico-tomistica adequatio rei atque intellectus.

Ma Benedetto agostiniano non dovrebbe professare l’opposta teoria del santo di Ippona, per cui in interiore homine habitat veritas? Che cosa c’entra quindi la concezione meccanicistica, aristotelico-tomistico-sovietica della corrispondenza tra idee e realtà? Evitiamo qui una discussione filosofica antiquata, di cui oggi nessuno o pochi sentono il bisogno. Ci basta rilevare la strana (ma non tanto!) analogia tra due dogmatismi opposti e simmetrici: quello del Partito-Stato e quello della Chiesa-Stato.

“Nuovi modelli” alternativi al marxismo? Ma quali? Benedetto conosce un solo modello universalmente valido (ne ha parlato egli stesso in altre occasioni), opposto sia a quello marxista sia a quello liberal-democratico moderno: il modello gelasiano (di papa Gelasio I, V secolo d.C., figuratevi!), che prevede la sottomissione dell’imperium al sacerdotium, dell’imperatore e dei governanti al papa, del potere temporale al potere spirituale, religioso, dello Stato alla Chiesa. Benedetto l’ha tradotto in due formule: a) «l’ingresso di Dio nella sfera pubblica»; b) «agire veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». In uno Stato, e in un supposto “giusto” ordine politico mondiale confessionale all’ombra del Vaticano, primato e privilegi della Chiesa cattolica sarebbero al sicuro.

È questo l’oggetto del “dialogo” del papa col governo cubano? Lo scalpo che il papa chiede al vecchio e debole ottantenne Fidel? Convèrtiti, figliolo; se lo fai, passerai alla storia come un nuovo piccolo Costantino Magno; io, che siedo sul trono di Pietro, ti assicuro, pregherò san Pietro che ti apra le porte del Paradiso!

Michele Martelli

sabato 7 aprile 2012

Una fede senza puntelli


Queste profetiche parole di Giuseppe Dossetti, pronunciate nel 1994 nel corso di un'omelia a Montesole, mi sembrano il modo migliore per aprire il blog e per augurare buona Pasqua 2012 a tutti.

Da Adista-Segni nuovi, n. 119/2009

Vivremo sempre di più la nostra fede senza puntelli, senza presidi di sorta, umanamente parlando. Destinati a vivere in un mondo che richiede la fede pura. Potremo attingere soltanto alla fede pura, senza poggiare in nessun modo su argomenti umani. Nessuna ragione, nessun sistema di pensiero, nessuna organicità culturale, nessuna completezza e forza di pensiero organico, costruito, potrà presidiare la nostra fede. Sarà fede nuda, pura, fondata solo sulla parola di Dio considerata interiormente. Non potremo attingere a niente, a nessuna sintesi, a nessuna summa. Può darsi che i geni, che l’umanità può ancora far nascere dal suo seno, possano esprimere una nuova sintesi culturale adeguata al Vangelo. Ma è molto, molto, molto, sempre più difficile. E non avremo il conforto in nessuno dei piccoli nidi sociali che siano omogenei e sostengano la nostra vita evangelica. Come non lo avremo più nessuno di noi nel nostro Paese. Quegli ultimi nidi, quelle ultime nicchie “covanti” ed un poco facenti calore, un certo tepore... sarà molto difficile che si riproducano. E invano si cercherà di riprodurli. Anzi, ogni tentativo di ricostituire, o di dar da bere che si può ricostituire una sintesi culturale o una organicità sociale che presidi e che difenda la fede sarà sempre un tentativo illusorio, anche se una certa tentazione è sempre rinascente. Forse già in questi giorni si cerca di preparare nuovi presidi, nuove illusione storiche, nove aggregazioni che cerchino di ricompattare i cristiani. Ma i cristiani si ricompattano solo sulla parola di Dio e sull’Evangelo! E sempre più dovremo contare esclusivamente sulla parola del Signore, sull’Evangelo riflettuto, meditato, assimilato. Non guardando fuori, non appoggiandoci ad altri che possano in qualche modo consentire col nostro pensiero, ma guardando noi stessi ed ascoltando interiormente la testimonianza dello Spirito che ci attesta che Gesù è vero, che vive ed è eterno. Sì, c’è la Chiesa, ma se anche essa non si fa più spirituale, anziché cercare dei sostegni, dei puntelli delle aggregazioni sociali di ogni tipo, delle cose che avrebbero dovuto ormai persuadere che non tengono, che non sono adeguate alla verità del tutto divina che noi professiamo, se la Chiesa stessa non si fa più spirituale non riuscirà ad adempiere alla sua missione di collegare veramente i figli del Vangelo!