Pagine

venerdì 22 giugno 2012

Anche costui era con Gesù

in “Riforma” del 15 giugno 2012


Il pontefice romano è davvero il «successore di Pietro»? È una delle questioni più dibattute tra le chiese, anche se non sono sicuro che sia così interessante. Forse, però, potrebbe esserlo e, per spiegare in che senso, racconterò una storia (vera).
Nel corso di un viaggio a Berlino, ho visitato un cimitero nel quale sono sepolti, tra gli altri, i filosofi Fichte ed Hegel, Bertolt Brecht ed Helène Weigel e dove si trova un monumento in memoria di un teologo famoso e di alcuni suoi familiari, caduti nella lotta contro Hitler. Proprio vicino a questo monumento, non segnalata in alcun modo, ho notato la tomba di Johannes Rau, già presidente della Repubblica federale tedesca, protestante convinto, predicatore laico della Chiesa evangelica della Renania. Mi ha molto emozionato il versetto biblico inciso sul cippo: «Anche costui era con Gesù di Nazareth».
Nel racconto evangelico della passione, come si sa, la frase è sulla bocca di una donna che vuole smascherare Pietro, denunciandolo come discepolo di Gesù. Pietro, da parte sua, vorrebbe negare, nascondersi, piantare in asso il Maestro arrestato. Gli evangeli ci parlano di Pietro come di uno che, nel momento decisivo, tradisce. Questa è la verità. La donna, tuttavia, dice anche un’altra verità, in fondo ancora più grande. La dice per accusare, ma non ha importanza. Decisivo è che, traditore o no, buono o cattivo, intelligente od ottuso, anche lui, Pietro, era con Gesù di Nazareth. E che cosa si potrebbe dire di più importante sulla vita di una donna o di un uomo?
In questo senso, credo che la questione della successione di Pietro sia importante. Naturalmente faccende come il potere del papa, il primato, o addirittura l’infallibilità, hanno poco o nulla a che vedere con ciò che conta, e cioè con questo: successore di Pietro è colui o colei che, magari senza particolare coraggio, magari fallendo ingloriosamente nel momento decisivo, era, comunque, con Gesù. Successori di Pietro sono tutti i cristiani e le cristiane che, tra mille contraddizioni e debolezze, sperano che un giorno si possa dire: anche costui, anche costei, era con Gesù di Nazareth.

di Fulvio Ferrario

mercoledì 13 giugno 2012

Potere del sacro e liberazione del Vangelo

Luca Kocci intervista Vittorio Mencucci



Qualsiasi sarà l’esito della “caccia ai corvi” in Vaticano che hanno diffuso a mezzo stampa documenti riservati fatti uscire dall’appartamento papale e dagli uffici della Curia, certo è che quello che si sta combattendo oltre il colonnato del Bernini è un conflitto di potere e per il potere. Perché quella che si è andata stratificando e costruendo Oltretevere è una struttura di potere che, dalla prima comunità degli apostoli, passando per l’imperatore Costantino – che ha tentato di utilizzare la Chiesa per riorganizzare l’Impero ormai in crisi e prossimo al crollo – e per i papi teocrati Gregorio VII e Innocenzo III, ha assunto e concentrato in sé tutta l’autorità, sacralizzando se stessa e autoproclamandosi padrona e dispensatrice della Verità.
Alla luce di tutto ciò, il volume di Vittorio Mencucci (parroco a Scapezzano di Senigallia, assiduo omileta della nostra agenzia per cui ha recentemente scritto le “omelie fuoritempio” della Quaresima 2012) appena pubblicato dall’editore Di Girolamo (Ma liberaci dal... sacro. Vivere il vangelo nella modernità, pp. 240, 16€, in vendita anche presso Adista), pur tenendosi a debita distanza dal Vatileaks, ha profondamente a che fare con quello che sta accadendo in questi mesi nei “sacri palazzi”, proprio perché, nella fedeltà al Vangelo, tenta una demistificazione del “sacro”, unica strada per avviare un cammino di liberazione.   

«Il sacro in Vaticano e nella istituzione ecclesiastica è “l’unguento magico” che imbalsama le mummie e genera il blocco storico di sapore tridentino», spiega Mencucci ad Adista. «Il sacro prende il posto di Dio: è originario e nello stesso tempo definitivo, la sua trasformazione storica nell’epoca costantiniana, nell’antagonismo contro l’Impero e nella riorganizzazione feudale, viene rimossa, perciò diventa intangibile, esige solo sottomissione. Metto in discussione non qualche episodio spiacevole, ma l’insieme della struttura: la pomposità delle parate, la scalata al potere e alle onorificenze, gli stemmi nobiliari, i titoli onorifici di eccellenza o eminenza, abiti ed agi adeguati al rango, mal si conciliano con il messaggio evangelico: non fatevi chiamare… voi siete tutti fratelli, chi vuol essere primo si faccia servo di tutti. Inoltre la sacralizzazione delle strutture genera fastidio alla coscienza moderna educata alla dignità del pensare libero, fatto di dubbi, di interrogativi e di ricerca. Tra le ragioni dell’abbandono della pratica religiosa c’è sempre il rifiuto della struttura al vertice. Ma è blasfemo avanzare delle critiche. Così il sacro diventa la copertura della logica di gruppo. Il segreto pontificio non serve niente alla vita di fede della nostra gente, né allo spirito evangelico che suggerisce di proclamare sui tetti. I segreti appartengono alla logica del potere che si autodifende».

Il titolo del tuo libro però sembrerebbe invitare gli uomini e le donne a liberarsi e ad affrancarsi dalla fede. È proprio così?
Il titolo Ma liberaci dal…sacro è provocatorio. Potrebbe essere rovesciato in “Liberiamo il sacro dalle sue contraffazioni”. Infatti, se per sacro intendo l’apertura all’infinito, allora esprime l’essenza stessa della persona nella sua capacità di pensare che sempre trascende ogni limite e ogni finitezza: è il fondamento della libertà. In questo orizzonte si delinea il volto di Dio inteso come il “totalmente altro” e si pone la domanda sul senso del vivere e morire. Così inteso, allora, il sacro sollecita l’insonne fatica della ricerca e del pensare, con lo stupore di fronte all’immenso: è il sigillo della nostra dignità e allo stesso tempo l’impronta di Dio.

E le religioni intendono il sacro con questa accezione?
Nelle varie religioni domina il sacro oggettivato, che pretende di catturare la divinità in un oggetto finito, “separato” (qadosh) dall’uso umano e chiamato a rappresentare Dio nella dimensione percepibile dai nostri sensi e quindi a nostra disposizione. E proprio perché separato, erige divieti al vivere ordinario e impone doveri, ma rassicura e genera l’illusione di aver catturato Dio e quindi di essere potenti.

Insomma, la religione del tempio…
Se il divino abita nel tempio, il resto è pro-fano, che però deve essere sottomesso al potere divino, magari con una guerra santa o con una crociata. Fissato una volta per sempre, richiede solo accettazione e sottomissione. Questa via però non è percorribile per l’essere umano moderno, che si caratterizza invece proprio per la libertà del pensare.

L’annuncio di Gesù invece ha infranto questa tradizione e questo schema?
In tutto il discorso evangelico la critica di Gesù al sacro oggettivato è costante. Pone la propria umanità che muore in croce e dopo tre giorni risorge come alternativa al tempio. Afferma che i veri adoratori del Padre lo adorano in spirito e verità, al di fuori di ogni tempio. Quando muore in croce, il velo del tempio si squarcia da cima a fondo: è la fine della religione del sacro che nel tempio trova il suo fulcro. Infatti la Nuova Gerusalemme che scende dal cielo non ha tempio, non perché gli uomini siano atei, ma perché Dio abita in mezzo a loro senza bisogno del tempio. D’altra parte l’incarnazione è diametralmente opposta alla separazione del sacro.

Il sacerdozio come si inserisce in questa visione?
Sacrificio e sacerdozio sono intimamente legati al sacro. Il sacrificio espiatorio presuppone un Dio adirato che esige il sangue del colpevole o di una vittima sostitutiva. Il Dio che ci ha rivelato Gesù invece ha un volto totalmente diverso, è come il padre nella parabola del figliol prodigo. Il sacerdote è gestore del sacro, ma nel cristianesimo non c’è un sacro da gestire. All’inizio infatti si usa il termine “apostolo”, ossia colui che è mandato ad annunciare l’evento salvifico ormai compiuto, su cui fondare l’esperienza di fede. I termini sacrificio e sacerdote entrano nel linguaggio ordinario nel III secolo, in un percorso parallelo alla crisi della coscienza romana, che cerca nel sacro un argine alla disgregazione dell’Impero.

Si tratta però di termini che ormai sono entrati a far parte non solo del linguaggio, ma anche delle strutture e dell’immaginario comune…
La sacralizzazione delle strutture le rende intangibili, perciò è nemica di ogni novità storica. Da qui scaturisce il conflitto con la modernità, che di per sé non avrebbe alcun senso, perché nella Parola di Dio si trovano le radici delle conquiste moderne sul valore della persona e del suo impegno storico. Anzi, lo sviluppo della modernità permette una più approfondita comprensione della Parola di Dio di quanto non l’abbia permesso il Medioevo chiuso nella sua struttura piramidale, autoritaria e statica, con le sue guerre sante e gli imperdonabili roghi di chi la pensano diversamente.

Come spieghi il “ritorno al sacro” di questi ultimi anni?
Il ritorno al sacro che si sta verificando talora ha un’impronta positiva quando nasce dal desiderio di trovare un senso alla vita oltre il godimento del consumismo, ma per lo più esprime l’insicurezza e lo smarrimento di fronte al mondo moderno dinamico e pluralista: è lo scoglio a cui il naufrago si aggrappa per sfuggire a un mare tempestoso. Qui la religione diventa la copertura delle falle umane. Bonhoeffer parlava di tappabuchi. Spesso la ricerca di un fondamento inconcusso e rassicurante si trasforma in fondamentalismo cieco, ostinato e persino aggressivo.


da Adista-Segni nuovi n. 23/2012

venerdì 1 giugno 2012

Istigazione a riflettere n. 2

L'unica cosa che veramente resta di una vita sono le idee.

Paul Henri Thiry d'Holbach

Né servo né padrone


Francesco d’Assisi è universalmente noto anche per il suo amore per il creato e per gli animali; un aspetto caratteristico della sua personalità e della sua spiritualità, che da sempre ha attirato l’attenzione dei biografi, ispirato l’estro degli artisti e suscitato la devozione popolare.
Il tema, a mio parere, è però soltanto apparentemente semplice e occorre evitare due estremizzazioni.
Il primo errore è scadere nell’aneddotica, salvo a scoprire quanto d’interessante possa celarsi anche in essa. Prendiamo ad esempio il noto episodio del lupo di Gubbio, riportato dai Fioretti al cap. XXI. Comunemente si ritiene che si tratti di una storia inventata, di una leggenda: dietro il feroce animale si nasconderebbe in realtà un signorotto locale che Francesco avrebbe convertito e rappacificato con la gente del posto. Invece non pochi elementi portano a ritenere che si tratti proprio di un lupo in carne ed ossa. In primo luogo, il contesto storico e ambientale del tempo: il massiccio disboscamento praticato dai contadini per far fronte alle esigenze alimentari di una popolazione in forte crescita demografica privò del loro habitat naturale molti animali selvatici che cominciarono così a spingersi alla ricerca di cibo sino alle soglie dei centri urbani minacciandone gli abitanti. Ma soprattutto vi sono alcune circostanze mai del tutto chiarite: la più interessante è la seguente. Nei pressi della chiesa intitolata a San Francesco della Pace, nel centro di Gubbio, fu ritrovato nel 1873 nel corso di lavori edili un sarcofago in pietra contenente i resti mortali di un lupo; è a dir poco strano che a un simile animale fosse riservato un tale riguardo. Di segno contrario, per così dire, sono invece le notizie storiche relative alla altrettanto famosa predica agli uccelli, immortalata da Giotto in uno dei più famosi affreschi della Basilica superiore di Assisi. Tommaso da Celano, il primo biografo ufficiale di Francesco, colloca questo episodio a Bevagna, in un tempo imprecisato, facendone un esempio dell’amore di Francesco per la natura. Ben diversa è la descrizione dell’episodio contenuta nelle cronache dei monaci benedettini Ruggero di Wendover e Matteo Paris: reduce dalla visita al papa nel 1210 Francesco, amareggiato dall’indifferenza e dal disprezzo mostrati dal popolo romano nei suoi confronti, sulla via del ritorno si mette a predicare a uno stormo di uccellacci intento a raspolare sui rifiuti.
Il secondo errore di cui si diceva è attribuire a Francesco intenzioni che egli invece non ebbe affatto, conferendo ai suoi atteggiamenti discutibili contenuti teologici. Non sono infrequenti, ad esempio, le interpretazioni del suo amore per la natura in funzione anti-catara quando invece è noto che Francesco evitò sempre confronti con gli eretici sia sul piano dottrinale sia su quello della prassi; per altro verso, invece, non mancano i tentativi di attribuirgli sfumature di un latente panteismo; e soprattutto abbondano in letteratura testi che sovraccaricano questo suo amore per il creato di un misticismo e di uno spiritualismo sicuramente esagerati.
Personalmente ritengo che entrambe queste estremizzazioni siano sbagliate giacché da un lato banalizzano, dall’altro distorcono il suo genuino atteggiamento offuscandolo nel suo carattere principale: Francesco è innanzitutto un uomo che ha preso sul serio il suo impegno alla conversione. Più si sforzava di liberarsi dal peso del peccato più riusciva a guardare il creato con gli occhi stessi del Creatore. E così, con quella concretezza e spontaneità che erano proprie del suo carattere, elaborò con un modo tutto suo di stare al mondo: riscopertosi fratello di Cristo visse da fratello universale, rapportandosi a tutto e a tutti semplicemente da uomo libero, “né servo né padrone”, neanche fosse stato un anarchico.

Pietro Urciuoli