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giovedì 31 gennaio 2013

Motu proprio

Il frequente ricorso allo strumento del motu proprio da parte di Benedetto XVI – ben quattro negli ultimi due mesi – stimola una riflessione sull’argomento.

Il motu proprio è un documento che il romano pontefice scrive, appunto, di sua iniziativa. Diversamente da altri che per norma o per prassi passano al vaglio di vari organismi curiali questo è un documento che il pontefice può stendere anche senza consultare nessuno e che ha valenza imperativa.

I motu proprio possono avere i contenuti più diversi. Simile è invece l’impostazione.
In genere si aprono con la formula:
“Noi, [xxxxx], pontefice massimo, servo dei servi di Dio, … ”
E si chiudono con quest’altra:
“Tutto ciò che è stabilito con il presente motu proprio, ha pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria”.

Personalmente ritengo che tra queste due formule vi sia una stridente contraddizione. Chi ritiene che la propria opinione sia quella giusta “nonostante qualsiasi cosa contraria” (il massimo dell’arroganza) poi non può definirsi “servo dei servi di Dio” (il massimo dell’umiltà).
Motu improprio.

È un tipo di provvedimento che può prescindere da qualsiasi confronto, da qualsiasi contraddittorio; al limite, il papa potrebbe utilizzarlo per far passare come legge qualunque suo capriccio e tutta la Chiesa, privata della possibilità di esprimersi, dovrebbe accettarlo.
Motu esproprio.

Inoltre, è rappresentativo di una Chiesa che si ispira nelle sue forme organizzative a un odioso assolutismo; un modello di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha cercato invano di lasciarsi alle spalle.
Motu obbrobrio.

Consoliamoci, tuttavia. La formula di chiusura dei motu proprio, per quanto impropria, espropriante e obbrobriosa almeno fa salvo il protocollo.
Ve l’immaginate la chiusura di un pontefice romanesco oltre che romano?
“Nun ve sta bbene? M’arimbalza.”


Pietro Urciuoli

giovedì 24 gennaio 2013

Ecumenismo, banco di prova per la chiesa di base


La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani sollecita una riflessione sul tema dell’ecumenismo. Mi piace riprendere alcune interessanti considerazioni espresse dal prof. Paolo Ricca nel corso della conferenza tenutasi ad Avellino il 14 dicembre 2012, nell’ambito del ciclo di incontri sul Concilio Vaticano II organizzato dalla nostra Comunità della Piana (www.comunitadellapiana.it).
Secondo il pastore valdese gli elementi necessari per un fecondo dialogo ecumenico sono questi:
1.      Coscienza dei propri limiti. Nessuna confessione cristiana rappresenta da sola la Chiesa di Cristo nella sua totalità. Le singole Chiese sono reciprocamente complementari, ciascuna esprime un aspetto particolare dell’identità cristiana; pertanto nessuna è autosufficiente ma tutte hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi e migliorarsi.
2.      Provvisorietà. Le nostre Chiese confessionali sono provvisorie; definitivo è solo il Regno di Dio. Noi stessi siamo provvisori nelle nostre identità di cattolici, valdesi, ortodossi, anglicani, ecc.; siamo nella condizione di un divenire più che di un essere. Non ha senso una identità chiusa, autoreferenziale ma al contrario occorre coltivare una identità aperta, permeabile.
3.      Ridimensionamento del ruolo assegnato alla teologia. Le varie confessioni cristiane hanno tutte in comune lo stesso Vangelo ma sono divise sulle differenti interpretazioni teologiche che ne danno. È questa un’assurdità che va rimossa. Occorre abbandonare l’idea che l’interpretazione della Scrittura sia importante quanto o addirittura più della Scrittura stessa. Occorre ritornare ai primi tempi del cristianesimo quando per riconoscersi cristiani era sufficiente confessare la propria fede in Cristo Signore.
Condivido pienamente e mi permetto di aggiungere qualche mia personale riflessione.
A mio parere occorre distinguere un ecumenismo “di vertice” e un ecumenismo “di base”.
Il primo consiste nel mutuo e ufficiale riconoscimento dei rappresentanti istituzionali delle varie confessioni cristiane. Com’è noto questo tipo di ecumenismo - nonostante alcuni importanti progressi, come la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione del 1999 o la Charta oecumenica del 2001 - non si è ancora realizzato; anzi, allo stato attuale sembra essere in una fase di stallo, come se ci si accontentasse del cammino già fatto e dei rapporti di buon vicinato ormai raggiunti. Personalmente sono piuttosto pessimista per il futuro ma in ogni caso questo ecumenismo di vertice non mi interessa più di tanto, per almeno due motivi. In primo luogo perché è un ecumenismo costruito a tavolino: i massimi rappresentanti delle confessioni cristiane che dopo decenni di approfondite discussioni filosofiche e teologiche firmano un documento ufficiale nel quale dichiarano solennemente di aver raggiunto un accordo sul sesso degli angeli. In secondo luogo perché mi da un po’ fastidio l’idea di essere un burattino nelle mani di altri: i capi religiosi si scomunicano reciprocamente e noi laici dobbiamo fare la guerra; poi, magari a distanza di secoli e senza che sia cambiato un granché, altri capi religiosi decidono di revocare le scomuniche e noi laici dobbiamo fare la pace.  
Io ritengo che sia molto diffusa la tendenza a pensare l’ecumenismo direttamente in termini di ecumenismo “di vertice”, quando invece bisognerebbe pensarlo in termini “di base”. Ecumenismo è quando due cristiani si riconoscono reciprocamente come fratelli in virtù della comune fede in Cristo Signore indipendentemente dalla confessione di appartenenza. Quando ciò avviene siamo già di fronte a un ecumenismo pienamente realizzato: il fatto che i massimi rappresentanti della chiesa cattolica, ortodossa e protestante non abbiano ancora rimosso definitivamente tutti gli ostacoli dottrinali che impediscono l’unità è un fattore decisivo ma non risolutivo per la realizzazione dell’ecumenismo. L’ecumenismo è in primo luogo un cammino di conversione personale: all’ecumenismo ci si converte. È un comune sentire - individuale e quindi anche collettivo - che non può prescindere, ma neanche deve dipendere, da un riconoscimento di tipo istituzionale. Da questo comune sentire deve scaturire una Chiesa trasversale costituita da cristiani che pur rimanendo nelle proprie chiese confessionali sappiano sciogliersi da ogni vincolo di appartenenza che sia tanto marcato da ostacolare il dialogo e il confronto. Un cammino ecumenico siffatto - da costruire dal basso come comunione di singoli cristiani e non calato dall’alto come sintesi di dottrine - è un importante banco di prova per la nostra maturità di laici. Noi non abbiamo il problema di metterci d’accordo sulle interpretazioni teologiche, non abbiamo un prestigio e un potere da difendere; contiamo di meno, certo, ma in compenso siamo più liberi. E per tale motivo abbiamo anche il dovere di essere più intraprendenti e dinamici, più costruttivi e propositivi, più sensibili e disponibili al rinnovamento; certe cose, nella Chiesa, come possiamo dirle noi non le può dire nessuno.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it

giovedì 10 gennaio 2013

Non c’è bene senza legge non c’è libertà senza trasgressione

intervista a Paolo Ricca, a cura di Franco Marcoaldi in “la Repubblica” del 10 gennaio 2013

Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. «Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio».
Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
«Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?».
Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
«Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!».
Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
«Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti accuratamente separati».
Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
«Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate».
Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
«Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione: bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà».
Mi faccia un esempio.
«Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge del sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone».
Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
«Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile».
Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
«La croce di Gesù, e questo è il paradosso dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene  giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato».
Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
«Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce».
Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una de-responsabilizzazione dell’individuo?
«Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca».

martedì 8 gennaio 2013

Sostiene Guglielmo n. 5

Sostiene Guglielmo che la nostra fede non poggia sulla sapienza del papa.
Dialogus de potestate papae et imperatoris

lunedì 7 gennaio 2013

Sacrosantum porcellum

Il papa nomina i cardinali, che poi nominano il papa, che poi nomina i cardinali, che poi nominano il papa, ...
Un papa cattolico comanda da vivo e pure da morto.


Nella foto: Benedetto XVI nomina vescovo Georg Gaenswein, il suo segretario personale. 6.1.2013