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giovedì 28 febbraio 2013

Le dimissioni di Ratzinger e l'attuazione del Concilio

di Raniero La Valle, da il Manifesto del 17 febbraio 2013

Quasi volesse non farsi rimpiangere, il Papa alla fine si è lasciato andare ad una confidenza che ha svelato tutta la difficoltà che sul piano personale egli ha avuto nel vivere il Concilio come una delusione. Nella “chiacchierata” in cui ha raccontato come lui “ha visto” il Vaticano II, c’è forse la chiave per capire come non gli bastassero più le forze per guidare una Chiesa che, come aveva detto nel 2005 nel suo primo discorso alla Curia, nel Concilio aveva avuto la sua vera “discontinuità” riconciliandosi con l’età moderna, quella modernità che egli non ha invece ancora accettato e che patisce come “relativismo”.
Questo risvolto personale del suo difficile rapporto col Concilio, che già era venuto fuori in un suo discorso estivo, in montagna, al clero del Triveneto, quando aveva negato che dal Concilio potesse scaturire “la grande Chiesa del futuro”, è emerso con grande sincerità nel suo discorso di giovedì a un altro clero particolare, quello di Roma. Al presbiterio di cui, come vescovo di Roma, è il capo, Benedetto XVI ha voluto parlare come se fosse uno dei vescovi che aveva partecipato al Concilio, sul filo dei ricordi personali, piuttosto che con “un grande, vero discorso” da papa.
Da questa confidenza risulta che nel vissuto di papa Ratzinger non c’è stato un solo Concilio, ma ci sono stati diversi Concili. Il primo, l’unico che gli è veramente piaciuto, è stato quello dell’entusiasmo iniziale, quando “speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste”. Il secondo è quello soprattutto condotto dall’”alleanza renana”, cioè dai vescovi francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che vi hanno introdotto i temi “più conflittuali”, come quello del rapporto tra papa e vescovi (con quella discussa parola, “collegialità”, a cui forse Ratzinger avrebbe preferito “comunione”), la “battaglia” sul rapporto tra Scrittura e Tradizione, la “lite” sull’esegesi che tenderebbe “a leggere la Scrittura fuori della Chiesa, fuori della fede”, l’ecumenismo. Poi c’è stato il terzo Vaticano II, in cui “sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio” gli americani degli Stati Uniti e dell’America Latina, l’Africa, l’Asia: ed è stata la fase della responsabilità per il mondo, della libertà religiosa, del dialogo tra le religioni, per cui “sono cresciuti problemi che noi tedeschi all’inizio non avevamo visto”; e sono nate le grandi questioni del rapporto non solo con gli Ebrei, ma con l’Islam, il Buddismo, l’Induismo; e qui la cosa che è ancora “da capire meglio” è il rapporto tra la sola vera religione e le altre di cui un credente non può pensare, secondo il Papa, che “siano tutte varianti di un tema”, anche se le esperienze religiose portano “una certa luce della creazione”.
Molti problemi aperti dal Concilio sono dunque ancora “da studiare” e molte applicazioni non sono ancora complete, sono “ancora da fare”.
Ma la contraddizione principale che il Papa dice di aver vissuto, è stata tra il “vero Concilio”, che era quello dei Padri e il Concilio dei media. Il primo era un Concilio della fede che si realizzava nella fede, il secondo era il Concilio dei giornalisti che si realizzava non nella fede, ma nelle categorie politiche di una lotta per il potere nella Chiesa. Starebbe nel fatto che il Concilio giunto alla Chiesa, reso accessibile a tutti, fosse quello dei giornalisti e non quello “reale”, la vera causa della crisi della Chiesa: “tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata”; sarebbe questo Concilio dei media che avrebbe invaso le chiese, profanato la liturgia, negato il culto, trasformato il “popolo di Dio” nella “sovranità popolare”, messo fine alla religione del sacro, intesa come “cosa pagana”.
Sicché il vero Concilio, l’ultimo, starebbe arrivando ora, dopo 50 anni, che sono i decenni in cui i vescovi se ne sono stati a casa, la Chiesa è stata sottoposta alla robusta cura romana, la controriforma è giunta a buon punto, la liturgia restaurata e i giornalisti, non dovendo più misurarsi con la missione e la fede della Chiesa, sono tornati a fare i “vaticanisti”.
È un peccato che su questo punto cruciale dei media il Papa sia male informato e forse, allora, non abbia capito il Concilio. Ed è singolare che oggi si attribuiscano tutti i mali della Chiesa a quelli che, nelle due prime parole del primo documento del Concilio, “Inter mirifica”, erano definiti “cose meravigliose”, cioè appunto i mezzi di comunicazione sociale.
È vero invece che si è rischiato che ci fossero due Concili: un Concilio dei Padri, e un Concilio dei media. Ma questo era il progetto della Chiesa preconciliare, che aveva creduto di nascondere il Concilio chiudendone le porte e decretandone il segreto, lasciando ai giornali la sola via dello “scoop”; ma questo finì subito, all’inizio della seconda sessione, quando il segreto fu rotto, e il Concilio irruppe nella coscienza dei fedeli e nel popolo di Dio, che nessuno mai pensò di paragonare al popolo sovrano, come nessuno interpretò le discussioni teologiche sulla sacramentalità dell’episcopato e la successione dei vescovi al collegio degli apostoli come una “lite” o lotta di potere, come ora il Papa rivela che per molti sia stato, dicendo addirittura che nel Concilio dei Padri “forse qualcuno ha anche pensato al suo potere”.
E quello che allora il giovane prof. Ratzinger non vide fu che tra i giornalisti che “fecero” il Concilio c’erano uomini di grandissima fede: per esempio l’abbé Laurentin, mariologo, per “Le Figaro”, Jean Fesquet e poi Nobécourt per “Le Monde”, Grootaers per l’Olanda, Juan Arias per “El Pais”, e tra gli italiani cristiani come Giancarlo Zizola, Ettore Masina, Lamberto Furno, e anche Gianfranco Svidercoschi, che poi addirittura diventò vicedirettore dell’ “Osservatore Romano”; e padre Caprile della “Civiltà Cattolica”; e padre Roberto Tucci, oggi cardinale, e mons. Clemente Riva, poi vescovo ausiliare di Roma, che ogni giorno informavano i giornalisti italiani dei contenuti, e non solo delle coreografie, dei lavori. Quanto a me, se è lecito aggiungere ricordi a ricordi, papa Giovanni scrisse sul suo diario, dopo avermi ricevuto una mattina dell’agosto 1961: “Ho ricevuto il giovane (30 anni!) direttore dell’ Avvenire d’Italia, una promessa per la causa cattolica”; e “L’Avvenire d’Italia”, a spese della Santa Sede, fu mandato a tutti i Padri conciliari per tutto il corso del Concilio, e non credo che ciò fosse per spiantare la Chiesa.
Ma io ora sono grato al Papa che ci lascia, perché andandosene ci dice che proprio questo è il problema: l’attuazione del Concilio, la fede per l’ età moderna, una Chiesa non incapsulata nella magia idolatrica del sacro.

martedì 26 febbraio 2013

Catodica e romana

Catodica e romana, così si presenta la nostra Chiesa. Tutti in piazza S. Pietro a osannare il pontefice, per un evento ripreso dalle telecamere di tutto il mondo. Papolatria e televisione: un abbraccio mortale forse addirittura peggiore di quello tra Stato e Chiesa.
In occasione dell’ultimo Angelus di Benedetto XVI il 24 febbraio 2013 i Christi(tele)fideles hanno acclamato il papa dimissionario così come anni fa avevano acclamato il papa che non volle “scendere dalla croce”. Eppure si è trattato di comportamenti diametralmente opposti cui avrebbero dovuto logicamente corrispondere reazioni altrettanto opposte: se il primo ha dimostrato una grande umiltà nell’ammettere la propria inadeguatezza allora il secondo fu un irresponsabile nel lasciare per anni la Chiesa priva di una guida sicura; viceversa, se al secondo si riconosce il coraggio di aver portato stoicamente a termine il suo ministero nonostante la grave malattia allora il primo è stato un traditore che si è defilato elegantemente abbandonando la barca di Pietro in un mare di guai.
Invece no. Piazza gremita per Karol, piazza gremita per Joseph. E come fu per Karol con quel “Santo subito” anche per Joseph ci sarà qualche immagine-simbolo che resterà nella storia. A me è piaciuto uno striscione che su un fondo bianco e giallo recava la scritta: “Benedetto XVI di nuovo papa”. Se questo è il “popolo di Dio” non resta da sperare che da qualche parte ci sia un “resto di Israele”.


Pietro Urciuoli

giovedì 7 febbraio 2013

Tutto il potere nelle mani di un pescatore

di Vito Mancuso, in “la Repubblica” del 6 febbraio 2013
Un paradosso incombe su Pietro, sia come personaggio storico sia come figura teologica. A livello storico il paradosso riguarda il fatto che egli è passato alla storia non con il suo nome effettivo (l’ebraico Shimeon, grecizzato nei Vangeli in Simone) ma con il soprannome datogli da Gesù che lo chiamava “roccia”, forse anche un po’ nel senso ironico di “testa dura” come si può dedurre da alcuni episodi evangelici. Ma Gesù parlava aramaico, quindi lo chiamava Kefa, così che è stato solo il greco degli evangelisti a fare di lui “Pietro”. Abbiamo quindi che un uomo che si chiamava Shimeon è passato alla storia con la versione greca del suo soprannome aramaico. Quanto al personaggio effettivo, sappiamo dai Vangeli che era sposato (Gesù ne guarì la suocera), faceva il pescatore, rivestiva un ruolo speciale tra i discepoli, fu uno dei testimoni della risurrezione. Dai testi emerge un carattere composito: focoso, perché aggredì con la spada un servo del sommo sacerdote tagliandogli l’orecchio; pavido, perché negò tre volte di conoscere Gesù; sincero, perché subito si
vergognò di sé piangendo amaramente. Nell’insieme un emotivo, sanguigno, poco incline alle sfumature. Dal libro degli Atti apprendiamo che aveva un ruolo di guida nella prima comunità e che non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso il 50 e l’aperta opposizione di Paolo verso di lui ad Antiochia. Il Nuovo Testamento non fa menzione del suo viaggio a Roma, ma la tradizione parla del suo martirio sotto Nerone verso il 64 sul colle Vaticano, una testimonianza resa ancora più sicura dal fatto che nessun’altra chiesa ha mai rivendicato per sé di essere la sede del martirio di Pietro. Vi sono fondamenti storici per ritenere che la tomba nell’attuale basilica di San Pietro sia autentica, mentre molto meno certe sono le vicende legate al suo soggiorno romano, compresa la scena del Quo vadis? e la crocifissione a testa in giù.
Il paradosso di Pietro in quanto figura teologica consiste nel fatto che egli venne prescelto da Gesù quale fondamento su cui costruire la Chiesa (Matteo16,18: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa»), e però lungo la storia le più acute divisioni della Chiesa si ebbero proprio in ordine a Pietro e al suo potere. Si pensi anzitutto a quelle avvenute nella Chiesa cattolica, per secoli spesso divisa tra papi e antipapi, fino a giungere al cosiddetto scisma di occidente (1378 1417) con ben tre papi regnanti contemporaneamente. Gli antipapi sono stati una quarantina, il primo dei quali, per accrescere il paradosso, è stato anche dichiarato santo (Sant’Ippolito). Ma le divisioni più dolorose, perché tuttora persistenti, sono quelle che portarono alla lacerazione della cristianità: nel 1054 tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, nel 1517 tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti. Ebbene, se si va a vedere il motivo principale di queste divisioni, si scopre che esso consiste nell’esercizio del potere papale, e il risultato non cambia se si va a vedere che cosa impedisce oggi la riunificazione delle Chiese, soprattutto tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Quindi quel Pietro che secondo Gesù doveva tenere unita la sua Chiesa, in realtà spesso l’ha divisa e la divide. Una cosa infatti deve essere chiara: fino a quando il papa successore di Pietro godrà del potere assoluto di cui gode oggi, non vi sarà nessuna possibilità di riunificazione dei cristiani. Ha scritto il gesuita americano John McKenzie, celebre biblista: «Lo sviluppo del potere posseduto dalla Chiesa e da Pietro in una forma di tipo monarchico è estranea alla teologia biblica». Il futuro della cristianità dipenderà da quanto Pietro vorrà tornare a essere fedele a Kefa.