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giovedì 31 ottobre 2013

La tradizione di Gesù in confronto con la religione cristiana

Per capire bene il cristianesimo è necessario fare distinzioni, accettate dalla maggior parte degli studiosi. Quindi, è importante distinguere tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Per Gesù storico si intende il predicatore e profeta di Nazareth come effettivamente esistette sotto Cesare Augusto ed Erode. Il Cristo della fede invece è il contenuto delle predicazioni dei discepoli, che lo vedono come il Figlio di Dio e Salvatore.

Un'altra distinzione importante da fare è quella tra il Regno di Dio e la Chiesa. Regno di Dio è il messaggio originale di Gesù. Significa una rivoluzione assoluta nel ridefinire i rapporti degli esseri umani con Dio (figli e figlie), con gli altri (fratelli e sorelle), con la società (centralità dei poveri), e con l'universo (la creazione di un nuovo cielo e una nuova terra). La Chiesa è stata possibile perché Gesù è stato respinto e, quindi, non è venuto il Regno. Si tratta di una costruzione storica, che cerca di portare avanti la causa di Gesù in diverse culture ed epoche. L'incarnazione dominante di questa costruzione storica si trova nella cultura dei paesi occidentali, ma si è anche incarnata nella cultura orientale, in quella copta ed in altre.

E' anche importante distinguere la tradizione di Gesù e la religione cristiana. La tradizione dei Gesù esisteva prima che venissero scritti i Vangeli, ma è contenuta in essi. I Vangeli sono stati scritti tra 30 e 60 anni dopo l'esecuzione di Gesù. Nel frattempo si erano già organizzate le comunità e le chiese, con le loro tensioni, i loro conflitti interni e le diverse forme di organizzazione. I Vangeli riflettono e prendono posizione su questa situazione. Non intendono essere libri storici, ma libri per l' edificazione e la diffusione della vita e il messaggio di Gesù come Salvatore del mondo.

In questo groviglio, che cosa significa la Tradizione di Gesù? E' lo zoccolo duro, il contenuto che sta in un guscio di noce e rappresenta l’intenzione originale e la pratica di Gesù (ipsissima intentio et acta Jesu) prima di qualsiasi interpretazione. Esso può essere riassunto nei seguenti punti: prima viene il sogno di Gesù, il Regno di Dio come una rivoluzione assoluta nella storia e nell'universo, proposta in conflitto rispetto al regno di Cesare. Poi la sua esperienza personale di Dio che ha trasmesso ai suoi discepoli: Dio è Padre (Abbà), pieno di amore e di tenerezza. La sua particolarità è quella di essere misericordioso, ama anche gli ingrati e i malvagi (Luca 6, 35). Poi predica e vive l'amore incondizionato che mette allo stesso livello dell'amore a Dio. Un altro punto è quello di dare centralità ai poveri e agli invisibili. Essi sono i primi destinatari e beneficiari del Regno, non per la loro condizione morale, ma perché sono privati della vita. Nel comportamento che abbiamo con loro si decide se ereditiamo o no la salvezza (Mt 25,46). Un altro punto importante è la comunità. Egli scelse i dodici per vivere con lui, il numero Dodici è simbolico: rappresenta l'incontro delle 12 tribù di Israele e la riconciliazione di tutte le persone, fatte popolo di Dio. Infine, l'uso del potere. È legittimo soltanto l’uso del potere che è di servizio alla comunità e il detentore deli potere deve cercare sempre l'ultimo posto.

Questo insieme di valori e visioni è la Tradizione di Gesù. Come si vede, non è una istituzione, una dottrina né una disciplina. Quello che Gesù voleva era insegnare a vivere e non creare una nuova religione di fedeli devoti a una istituzione. La tradizione di Gesù è un bel sogno, un cammino spirituale che può assumere molte forme e può avere anche seguaci al di fuori della religione e delle chiese.

La Tradizione di Gesù è stata trasformata nel corso della storia nella religione, la religione cristiana: una organizzazione religiosa sotto forma di varie Chiese, in particolare la Chiesa cattolica romana. Queste sono caratterizzate da istituzioni con dottrina, disciplina, determinazioni etiche, celebrazioni rituali e forme legali. La Chiesa Cattolica Romana è stata organizzata specificamente intorno alla categoria del potere sacro (sacra potestas), concentrato nelle mani di una piccola élite che è la gerarchia con il Papa in testa, esclusi i laici e le donne. Detiene il potere delle decisioni e il monopolio della parola. E' gerarchica e crea grandi disuguaglianze. Si è identificata in modo illegittimo con la tradizione di Gesù. Questo tipo di traduzione storica ha coperto di cenere gran parte del fascino originale e la Tradizione di Gesù. Quindi, tutte le Chiese sono in crisi perché non sono più gioia per tutto il popolo (Lc 2, 11) come erano all'inizio. Gesù stesso, prevedendo questo sviluppo, ha avvertito che non ha molto senso osservare le leggi, e non preoccuparsi di “ciò che è più importante della legge: la giustizia, la misericordia e la fede, queste sono le cose che bisogna fare, senza tralasciare le altre” (Mt 23,23).

Venendo ad oggi: in che cosa risiede il fascino della figura e dei discorsi del Papa Francesco? In che si collega direttamente alla tradizione del Gesù. Egli afferma che "l'amore è prima del dogma e il servizio ai poveri viene prima delle dottrine" (Civiltà Cattolica). Senza questo investimento il cristianesimo perde "la freschezza e la fragranza del Vangelo", si trasforma in una ideologia religiosa e diventa un'ossessione dottrinaria. Non c'è modo migliore di ripristinare la credibilità perduta dalla Chiesa, che ritornare alla tradizione di Gesù, come fa saggiamente Papa
Francesco.

Leonardo Boff

27 ottobre 2013

La mancata spoliazione di Francesco

La recente visita di mons. Bergoglio ad Assisi ha toccato uno dei luoghi simbolici del francescanesimo e cioè la sala del palazzo vescovile nella quale, secondo la tradizione, Francesco spogliandosi delle sue vesti manifestò pubblicamente la sua volontà di darsi a una vita religiosa. Può essere il caso di svolgere qualche riflessione su questo episodio circondato, come molti altri, da non poca retorica.
In primo luogo non bisogna pensare che Francesco in quel frangente avesse le idee chiare sul suo futuro. Aveva chiaro solo che voleva farla finita con un certo tipo di vita, che i panni del giovane figlio di papà gli stavano stretti – se ne era liberato già più di una volta – e che voleva vivere per Dio, per ricambiare l’immenso amore col quale Egli lo aveva toccato. Nulla più di questo (si fa per dire, ovviamente). Abbandonato, quindi, il palazzo vescovile Francesco si confeziona un abito da eremita, composto di tunica, cintura e calzari. Occorre osservare che - per quanto clamorosa, data la sua appartenenza a una famiglia molto in vista - si trattava di una scelta pienamente ortodossa in quanto Francesco aveva abbracciato una forma di vita riconosciuta e apprezzata dalla Chiesa, di antichissima tradizione. Difatti, la reazione del vescovo Guido era stata di scetticismo, vista la durezza delle sue intenzioni, non di ostilità.
La definitiva certezza del suo ideale la ebbe però soltanto due anni dopo. Secondo il racconto quasi unanime dei vari biografi, ascoltato il brano evangelico della missione degli apostoli – durante la festa di san Mattia, il 24 febbraio 1208 – Francesco esclama: «Questo chiedo, questo voglio, questo bramo di fare con tutto il cuore!». Sostituisce così la tunica da eremita con un abito da contadino, la cintura con una corda e abbandona i calzari. Ha scelto il suo futuro: non vuole dedicarsi alla vita eremitica ma alla predicazione itinerante della penitenza.
È una nuova spoliazione, ma questa volta è diverso. La nuova strada che Francesco decide di intraprendere è molto pericolosa poiché quella del predicatore itinerante è una figura malvista sia dalle autorità civili sia da quelle religiose; le prime biasimano tutte le forme di vita instabili e girovaghe, le seconde vedono in questi personaggi potenziali diffusori di eresie. Il suo Dio, quello che vuole seguire in spirito e libertà, non lo conosce nessuno; non è il Dio della Chiesa, né quello dei potenti. Quale Dio si può seguire se non quello che ha ordinato il mondo secondo peso e misura, che ha stabilito il potere temporale e il potere spirituale, che ha diviso l’umano consorzio in oratores, bellatores e laboratores? Quale Dio si può servire scegliendo l’abito dei contadini, degli accattoni, dei lebbrosi, di tutti coloro che non hanno alcun tipo di riconoscimento né nella società né nella Chiesa? Francesco rifiuta un qualcosa di esistente per un qualcosa che non c’è, o che almeno, c’è solo nella sua testa.
Ma perché tutto questo? Perché c’è una terza spoliazione che però Francesco non ha mai fatto: Francesco ha indossato l’abito religioso senza spogliarsi del suo habitus di laico. Una spoliazione mancata, per così dire, ma che in effetti è ben più ricca di conseguenze delle prime due. Già, perché la cifra essenziale della sua esperienza consiste proprio nel sottilissimo equilibrio col quale ha saputo portare un pensiero religioso nella società e un pensiero laico nella Chiesa. Un equilibrio che i suoi seguaci perderanno irrimediabilmente nel volgere di pochi decenni per divenire un ordine monastico come altri.
Mi piace affidare la conclusione di queste riflessioni all’analisi di Paul Sabatier: «Certo, in questo tempo Francesco non capiva ancora ciò che sarebbe diventato, ma sono forse le ore più importanti per l’evoluzione del suo pensiero. Sono gli istanti che hanno dato alla sua vita quel piglio di libertà, quel profumo di campo che la rendono così differente dalla pietà delle sacrestie come da quella dei salotti».


Pietro Urciuoli
31.10.2013

giovedì 10 ottobre 2013

Bergoglio è simpatico popolare ma non tocca i nodi della Chiesa

Intervista a Giovanni Franzoni di Luca Kocci, il manifesto, 5 ottobre 2013

Giovanni Franzoni racconta le origini della comunità di base di San Paolo.
 «La domenica celebravo in basilica la messa di mezzogiorno e nelle omelie tentavo di seguire l'insegnamento del teologo protestante Karl Barth: tenere insieme la Bibbia e il giornale. Ovvero attualizzare il Vangelo, incarnarlo nelle contraddizioni della società. Dopo un po', con un gruppo di 30-40 persone, decidemmo di incontrarci il sabato sera per preparare insieme l'omelia. Leggevamo i testi, discutevamo insieme, i laici portavano il loro contributo che per me, monaco, era molto importante. E la domenica la mia predica era il risultato di quel confronto: quindi un'omelia partecipata, non un indottrinamento dall'alto. Fu quello il primo nucleo della comunità».

Cominciò tutto da lì?
Ci coinvolgemmo sempre più anche nel sociale: l'opposizione alla parata del 2 giugno e ai cappellani militari, le lotte con i disoccupati e i senza casa, le denunce della speculazione edilizia ecclesiastica, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Arrivarono le contestazioni dei fascisti e dei cattolici tradizionalisti. E poi le le ispezioni delle gerarchie ecclesiastiche, da cui però passai sempre indenne. Fino al 1973.

Quando nacque la comunità di San Paolo...
Ci riunivamo in alcuni locali sulla via Ostiense dove iniziammo a celebrare la messa, con il cardinal Poletti, vicario del papa per la città di Roma, che «non approvava ma non proibiva».

Siete degli scissionisti?
No, non vogliamo un'altra Chiesa, anche perché mi sembra che ce ne siano già tante, ma una Chiesa altra. Vogliamo che la Chiesa cambi per essere più fedele al Vangelo e al Concilio.

Che ne è del Concilio?
Lo spirito e le istanze del Concilio Vaticano II sono state soffocate da Ratzinger e da Wojtyla: la collegialità, la partecipazione, la sinodalità sono parole vuote. Certo i Sinodi dei vescovi si svolgono, ma hanno un valore solo consultivo, quindi sono totalmente inefficaci. Si continua ad ignorare il ruolo delle donne nella Chiesa, valorizzate solo a parole. C'è stata la sistematica repressione dei teologi che esprimevano un punto di vista diverso, a cominciare dai teologi della liberazione.

Papa Bergoglio sta raccogliendo molti consensi, anche dall'opinione pubblica laica e di sinistra. Qual è il suo giudizio?
È ancora presto per una valutazione complessiva. Ha cominciato il suo pontificato con una grande retorica pauperistica. La retorica è lecita, ci mancherebbe altro. L'immagine crea simpatia e consenso, ma devono arrivare anche decisioni su questioni controverse, altrimenti è solo apparenza.

Per esempio?
Per esempio la collegialità deve essere vera. I Sinodi devono avere potere decisionale, sennò non servono a nulla. Poi la riabilitazione dei teologi, dei vescovi e dei preti repressi da Wojtyla e Ratzinger, non solo quelli vivi ma anche quelli morti da «eretici». Non per un riconoscimento post mortem ma per dire che è possibile parlare liberamente, senza paura di perdere la cattedra o di subire emarginazioni e scomuniche. E poi le donne, esaltate a parole ma escluse da ogni ruolo decisionale nella Chiesa.

Parliamo di sacerdozio femminile?
No, parlo di ruoli decisionali e di responsabilità. Durante il Concilio un vescovo indiano,  inascoltato, fece notare che molte responsabilità nella Chiesa non sono legate allo stato clericale.  Cioè non bisogna essere per forza preti per ricoprirli. Questi ruoli possono essere affidati ai laici e  quindi anche alle donne: i nunzi apostolici, i capo dicasteri, anche i cardinali. Gli otto «saggi»  nominati da Bergoglio per riformare la Curia sono tutti cardinali maschi. Ci sarebbe potuto essere  tranquillamente qualche laico e qualche donna, senza necessità che fosse prete. La questione del sacerdozio femminile è più ampia: il rischio è di clericalizzare anche le donne. E poi siamo sicuri  che Gesù volesse dei preti così come sono oggi?

E sui principi non negoziabili?
Il discorso è analogo. Papa Francesco usa toni concilianti, parla in modo spontaneo. Ma bisogna  affrontare i nodi. Va bene che il papa dica «chi sono io per giudicare un gay», ma se poi quella  persona chiede che la sua unione omosessuale venga benedetta dalla Chiesa cosa gli si risponde?  Che non è possibile. E allora le parole non sono sufficienti. Bisogna invece aprire le porte, discutere  insieme e decidere.

Francesco, un educatore per tutte le ere

Se il tempo è il pulviscolo sperimentale dell’eternità, gli 800 anni che ci separano dalla morte di Francesco di Assisi non sono un segmento apprezzabile della storia umana. Gli schiamazzi dei garibaldini e l’oratoria metallica dei rivoluzionari dell’89 sono ancora udibili dietro l’angolo della storia europea. Poco più in là, è percettibile il plumbeo respiro del contadino dell’Ancien régime e persino il nitrito dei cavalli dei capitani di ventura. Ma è sufficiente raccordare la mano all'orecchio per distinguere, tra le urla religiose dei crociati, il Cantico delle creature del povero cristiano Francesco. Se è vero che l’umanità ha bisogno di una storia monumentale, perché – come afferma Nietzsche – ciò che un giorno fu capace di dilatare la nozione di uomo e di realizzarla con maggior bellezza, deve esistere in eterno, allora Francesco d’Assisi appartiene alla piccola famiglia di quei giganti che si chiamano l’un l’altro a dialogo, attraverso le desolate distanze delle ere. Egli, tuttavia, non resta incorruttibile come un satiro di fronte alle civiltà che passano; ma pur camminando scalzo ripropone agli uomini fratelli un discorso sulla totalità dell’essere, senza mai proclamare l’innocenza del divenire. Francesco, infatti, non divinizza ogni cosa esistente – e primo fra tutti, l’uomo – alla sua perfezione divina. La storia perciò non ha bisogno di lottare contro il tempo per richiamarlo in vita o per schierarlo di nuovo in battaglia. Chi parla dell’essere e lo attesta non ha neanche bisogno, per nobilitare sé stesso, di operare per la comunità; né ha bisogno di intermediario alcuno per diventare illustre e memorabile. Chi parla dell’essere e lo attesta risulta vivo e presente in sé e per sé, ne mai conosce la mestizia del tramonto. Vivere secondo il Vangelo. Il magistero della Chiesa non è dunque sostitutivo di quello di Cristo quando in causa è la nascita e lo sviluppo del cristiano. La Chiesa medioevale, infatti, né comanda né consiglia a Francesco quella scelta radicale. La Chiesa, forse, porta il Messaggio così come la terra porta nel suo seno il petrolio. Porta una potenzialità che verrà utilizzata, nel corso del tempo, dai più ardenti ricercatori di verità. E il profeta, in terra cristiana, si qualifica per la sua capacità di essere fedele alla Chiesa e a Cristo, alla sposa e allo sposo. Ed ecco come si scandisce in Francesco questa duplice fedeltà. Nel Testamento dichiara rispetto assoluto per i sacerdoti che vivono secondo la forma della santa romana Chiesa. Egli, infatti, non predicherà mai nelle loro parrocchie contro la loro volontà, neanche se avesse addosso tutta la sapienza di Salomone. C’è di più: non vuole in esso considerare il peccato. E tuttavia Francesco non si mette a disposizione “giuridica” o “pastorale” dei vescovi. Se essi non gradiscono ciò denota rispetto per la istituzione ma anche denuncia del suo limite. Dopo il rispetto assoluto per i sacerdoti, troviamo l’omaggio ai teologi e ai predicatori. Egli li onora e li riverisce tutti, ma non dice di volerli imitare. Infine viene ai suoi frati – questo dolente “dono di Dio” – per dichiarare che nessuno di loro era in grado di mostrargli ciò che dovesse fare. Ancora una volta il vero Maestro è “lo stesso Altissimo”, il quale gli rivela che deve vivere “secondo la forma del santo Vangelo”. Per quanto si voglia essere morbidi esegeti di questo asserto non si può nascondere la contrapposizione fra “lo stesso Altissimo” e tutti gli altri maestri, Chiesa e gerarchie comprese. Siamo costretti a pensare che da nessuna parte si vive secondo la forma del santo Vangelo anche se da qualche parte si viveva secondo la forma di santa romana Chiesa.

Aldo Bergamaschi