Pagine

giovedì 11 aprile 2013

Il concetto di pace in Giovanni XXIII e in Francesco di Assisi: due storie parallele

Stiamo facendo memoria in questi giorni della Pacem in terris, la storica enciclica di Giovanni XXIII, pubblicata l’11 aprile 1963, giovedì santo. 
Tra le varie iniziative sul tema spicca sicuramente quella di Roma del 6 aprile scorso, un convegno promosso dalle numerose associazioni e riviste ecclesiali riunite sotto la sigla “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” (materiali e informazioni sul sito www.chiesadituttichiesadeipoveri.it).
Particolarmente interessante mi è sembrata la relazione del prof. Daniele Menozzi, professore ordinario di Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, che ha esaminato l’enciclica nelle sue coordinate storiche di riferimento fornendo anche un prezioso chiarimento circa la famosa espressione con la quale Giovanni XXIII spazzava via d’un sol colpo la dottrina della cosiddetta “guerra giusta”, da sempre sostenuta dalla Chiesa istituzionale. Come noto, nel testo latino dell’enciclica si legge che è irragionevole - alienum est a ratione - considerare la guerra come strumento di giustizia; ben diversa è la versione italiana pubblicata dall’Osservatore Romano che recita testualmente “riesce quasi impossibile pensare”. Quale delle due formulazioni è quella giusta? Sinora la storiografia prevalente ha attribuito questa discrepanza a una manovra curiale per divulgare una versione depotenziata del pensiero del pontefice. Il prof. Menozzi sostiene invece che allo stato attuale delle conoscenze storiche si può asserire che le cose andarono diversamente. Oggi sappiamo che l’enciclica fu scritta in italiano e che per la fretta di pubblicarla in concomitanza con il giovedì santo fu consegnata all’Osservatore Romano nella versione di cui si è detto; al momento della successiva stesura in lingua latina - che è quella ufficiale firmata da Giovanni XXIII - sarebbe avvenuta la correzione nel senso più restrittivo; a quest’ultimo testo, quindi, occorre far riferimento per conoscere l’esatto pensiero giovanneo. Le fonti storiche attualmente disponibili non ci dicono nulla su chi abbia voluto la correzione; nulla esclude che sia stato Giovanni XXIII in persona. Non vi fu dunque, sostiene il prof. Menozzi, la deliberata volontà da parte della curia e della direzione dell’Osservatore Romano di ammorbidire il pensiero di Giovanni XXIII, come invece sarebbe successo in altre occasioni. In ogni caso, questa ambiguità linguistica ha spalancato le porte per la revisione al ribasso della Pacem in terris effettuata negli anni successivi: la Gaudium et spes, sotto la spinta dell’episcopato americano, legittimava, sia pur a condizioni assai restrittive, la guerra di difesa (GS 79-80) e il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1991 ritornava alla classica nozione di “guerra giusta” (CCC 2309) annullando, di fatto, la coraggiosa intuizione di Giovanni XXIII.

Emerge a questo punto un singolare parallelismo con una vicenda riguardante Francesco di Assisi.
Di ritorno dal viaggio in terra d’Oriente mentre era in corso la quinta crociata (approssimativamente avvenuto tra il giugno 1219 e la primavera del 1220) Francesco fu indotto dai frati più colti e influenti a dotare l’ordine, ormai sempre più numeroso, di una vera e propria regola. Francesco accettò a malincuore ma il testo non fu mai sottoposto al visto papale perché ritenuto troppo lungo e disorganico, passando così alla storia col nome di Regola non bollata del 1221.
La Regola non bollata dedicava alla questione missionaria il cap. XVI titolato Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli che recitava così:

Dice il Signore: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Perciò qualsiasi frate che vorrà andare tra i Saraceni e altri infedeli, vada con il permesso del suo ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza discrezione.
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio a e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio.

Dal testo traspare evidente l’intenzione di Francesco: i frati devono avere a un atteggiamento benevolo verso i saraceni, non devono fare liti o dispute bensì confessare di essere cristiani in primo luogo con la propria condotta di vita; inoltre devono annunziare la parola di Dio solo quando «vedranno che piace al Signore». Risuonano alcuni principi basilari della Pacem in terris: la distinzione tra errore ed errante, il rispetto assoluto della dignità dell’uomo, la pace come bene superiore da salvaguardare e perseguire ad ogni costo.
Fallito il primo tentativo Francesco si rimise all’opera e scrisse una nuova regola, molto più breve e dal taglio più normativo, coadiuvato - e controllato - dal cardinale Ugolino dei Segni (il futuro Gregorio IX); è la cosiddetta Regola bollata del 1223, approvata da Onorio III.
La Regola bollata trattava l’argomento all’ultimo capitolo, il cap. XII; il titolo è il medesimo ma il contenuto è ben diverso:

Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati.

È evidente un deciso cambio di prospettiva riguardante sia le modalità di svolgimento della missione sia la possibilità di accedervi. Dell’atteggiamento rispettoso e accogliente nei confronti dei musulmani non c’è più traccia; e non poteva essere diversamente, trattandosi della regola canonica di un ordine chiamato a sostenere la Chiesa nella lotta agli infedeli e agli eretici.  Per quanto riguarda poi l’accesso alla missione si osserva che nella Regola non bollata il centro dell’azione è il frate o, per meglio dire, «qualsiasi frate» che avesse ricevuto l’ispirazione del Signore. Il ministro, di norma, dà la sua autorizzazione e Francesco si premura finanche di ammonirlo a non porre ostacoli arbitrari dei quali dovrà «rendere conto al Signore». Nella Regola bollata il centro dell’azione è invece il ministro che, di norma, non concede «se non a quelli che riterrà idonei ad essere mandati»; e non c’è più traccia del monito al ministro.
La ciliegina sulla torta la mette Bonaventura da Bagnoregio che nella sua Legenda maior del 1262 sostiene che Francesco avrebbe lanciato un’ordalia al sultano Malik-el-Kamil: un passaggio attraverso il fuoco al quale avrebbero dovuto assoggettarsi Francesco stesso e i dignitari del sultano per dimostrare quale delle due religioni fosse quella vera. Un episodio sicuramente inventato, del tutto estraneo alla mentalità di Francesco che non ebbe mai, neanche verso il sultano, un atteggiamento di competizione o di sfida; non per niente Tommaso da Celano - autore della prima biografia di Francesco di Assisi, la Vita Prima del 1229 - non ne fa cenno alcuno. Normativa e letteratura francescana dimostrano quindi come il genuino pacifismo di Francesco sia stato ben presto offuscato dalle successive elaborazioni e interpretazioni.

Insomma, due storie parallele a otto secoli di distanza; la radicalità nel perseguire la pace, evidentemente, non paga.


Pietro Urciuoli
11 aprile 2013
ecclesiaspiritualis.blogspot.it

martedì 2 aprile 2013

Papa Francesco. Le speranze di un confratello

di Felice Scalia, in Adista Segni nuovi, n. 13 2 aprile 3013

Da troppo tempo si aveva l’impressione che il Padre eterno avesse dimenticato la sua Chiesa. È lecito anche a noi, comuni mortali, avere in cuore a volte quella impressione di abbandono che colse Giovanni Paolo II quando ad un esterrefatto uditorio disse che «Dio tace, Dio ci abbandona». Con le sorprese tipiche dello Spirito, pare che dopo il grigiore di tanta pastorale a ramengo, e di tanti scandali che hanno reso “sporca” la Chiesa, una luce si intraveda in fondo al tunnel: Francesco, vescovo di Roma, chiamato a «presiedere la carità di tutte le Chiese».
Mi ha telefonato un’anziana amica: «Sono contenta per voi gesuiti, spero che il nuovo papa gesuita farà qualcosa per voi!». L’affetto e la buona intenzione della signora mi ha evitato un eccesso di tristezza. Dunque siamo giunti a tanto nella Chiesa che un papa deve essere di parte, deve favorire i gesuiti se è gesuita, i salesiani se è salesiano, come il rappresentante di una lobby vincente? È giunto a questi livelli il clientelismo nella Chiesa? E allora diciamo subito una cosa: Francesco non è un papa gesuita; è un cardinale di santa romana Chiesa che è stato gesuita ed ora è chiamato a diventare papa cattolico. Non italiano, non latino-americano, non gesuita, non dei chierici, non della Curia romana, ma di tutti i figli di Dio, credenti e no, cristiani e no. Se non c’è tale amore nel suo cuore, tale libertà interiore, è meglio che imiti il papa di Nanni Moretti e si dimetta anche lui. Perché non capirà la gente, non sarà capace di avvertire gli aneliti di un mondo disastrato, e neppure la voce di quel Cristo che lo vuole testimone della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione: «Se mi ami, pasci i miei agnelli e le mie pecore!».
Sì, lo sanno anche i bambini, Francesco è il primo papa che viene dalla Compagnia di Gesù. A me non interessa sapere come mai questo sia avvenuto, se per questa esclusione abbia giocato o meno il voto dei gesuiti di non «ambire e di non accettare cariche onorifiche nella Chiesa, a meno che non venga imposto da colui che lo può imporre». Interessa anche poco se un gesuita ordinato vescovo e perfino cardinale, si possa ancora dire gesuita. Certo non partecipa più né con voto attivo, né con voto passivo alla vita dell’Ordine. Non è questo il punto. E siccome di papi che solo col tempo sono diventati papi “cattolici”, iniziando da malcelate preferenze per interessi, gusti, teologie, appartenenze personali è piena la storia della Chiesa, io mi chiedo che cosa potrà dare alla Chiesa e al mondo questo vescovo di Roma che viene dalle file di Ignazio di Loyola ed è nato in America Latina.
L’America Latina! Croce e delizia della Compagnia di Gesù.
Tra i motivi che spinsero papa Clemente XIV a sciogliere l’Ordine nel 1773 c’era proprio quel Continente. Quell’Ordine che si era opposto alla politica omicida e liberticida dei re cristianissimi di Spagna e Portogallo, doveva essere eliminato. E così avvenne.
Tra i motivi che spinsero Giovanni Paolo II nel 1981 a commissariare la Compagnia di Gesù per oltre 24 anni (per noi gesuiti fu una “seconda soppressione”), c’è sempre l’America Latina. L’adesione dei gesuiti al Vaticano II ed alla sua scelta dei poveri, l’accoglienza di quanto i vescovi latino-americani deliberarono a Medellín nel 1968 (una Chiesa tra i poveri, povera, capace di giudicare la sua storia di oppressione e la sua voglia di liberazione), il Decreto IV della 32.ma Congregazione Generale dei gesuiti che metteva in intimo inscindibile rapporto l’annuncio della fede e la promozione della giustizia: queste, e cose come queste, determinarono una tale diffidenza negli ambienti romani – decisamente schierati dalla parte dei governi sedicenti cattolici sebbene assassini – che, quando fu eletto, papa Wojtyla vide nei gesuiti un covo di comunisti atei che non pregavano più, che erano lontani sideralmente dal Vangelo e ideologicamente promotori di quella Teologia della Liberazione osteggiata con violenza dagli Usa e mal interpretata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. I martiri tra preti, vescovi, suore, catechisti, semplici fedeli, che in nome del Vangelo e della dignità dei figli di Dio si davano da fare per una storia che fosse “salvezza concreta nella storia”, le lacrime delle “Madres de Plaza de Mayo” – madri, sorelle di desaparecidos assassinati dalle dittature “cattoliche” – i chiarimenti dei teologi e l’intensa vita cristiana delle Comunità di Base non fecero cambiare opinione a nessuno. L’opera di demolizione di quella corrente teologica e pastorale è continuata fino ad oggi con parole ed opere. Si pensi alla sostituzione di vescovi vicini al popolo con vescovi preoccupati di ben altro.
Non ci resta che benedire lo Spirito. Da quella regione lo sfacelo e da quella regione oggi la risurrezione?
Per noi occidentali, significativi sono solo i proclami, i bei documenti. Nel linguaggio biblico, nella storia della salvezza, contano i “segni”. Ciò che resta, a mio parere, dei due precedenti papati sono soprattutto i “segni”, molto meno le encicliche. Segno profetico è la preghiera di Assisi di Giovanni Paolo II, la sua sosta orante al Muro del pianto, la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa; segno profetico è l’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI con l’implicita ammissione che la sua linea di governo era stata fallimentare. Il vescovo di Roma Francesco, con segni accessibili a tutti, da buon argentino che ha imparato dal popolo come parlare e come farsi capire, sta dicendo ritorno al Vaticano II, alla Chiesa davvero primariamente “popolo di Dio”, alla fine dell’ecclesiocentrismo, al ripudio dello sfarzo. Sta parlando di collegialità effettiva, di libertà da tradizioni antiche e poco evangeliche, di pace nella giustizia, di rispetto del creato. Sta dicendo a chiare lettere che è «un uomo come noi» (At 14,8-18) e che il ruolo lo rende «servo» di tutti, segno della misericordia del Padre, per nulla un Dominus noster, alter Deus – come si esprimeva il Concilio lateranense V nel 1512 a proposito di papa Giulio II. Sta soprattutto parlando di una Chiesa fondata da un Cristo povero per tutti i “poveri della terra”. Poveri economicamente, malati, emarginati, disprezzati, nullatenenti, oppressi, moralmente non adempienti, «gente di cattiva reputazione» (Mc 2,16). In altri termini, di una Chiesa schierata con Abbà e non con Mammona.
Ma non era anche questa la Chiesa sognata dal card. Martini le cui opere in qualche diocesi era stato proibito leggere ai seminaristi?
Mi si permetta di dire che per noi gesuiti papa Francesco è il ritorno al Decreto IV della nostra 32.ma Congregazione generale. Ci siamo per i poveri, per dare “voce a chi non ha voce”, per liberare gli oppressi. «Annunziare la fede e promuovere la giustizia» sono elementi inscindibili dell’unica missione per cui esiste la Compagnia di Gesù: annunziare e costruire il Regno di Dio «aiutando per puro amore le anime», come dice Ignazio.
Due cose mi è caro pensare. La prima: ora sarà possibile rivedere la storia di p. Pedro Arrupe, grande vittima delle incomprensioni tra la Santa sede di papa Wojtyla e la Compagnia di Gesù, e delle voci interessate di quei gesuiti che non avevano accettato mai il Vaticano II, il Decreto IV, Medellín e le scelte dei provinciali dell’America Latina. In cielo padre Pedro esulterà di gioia con noi. La seconda: spero che questo papa che viene dalla Compagnia di Gesù aiuti indirettamente i gesuiti d’Italia e d’Europa a rivedere la loro “politica” pastorale e la loro collocazione in un mondo lacerato da ingiustizie e sofferenze immani. La riorganizzazione dei quadri, questa ossessione per le “opere” che finisce per dimenticare la “cura delle persone”, da sola, non serve a niente. Dicano che vogliono farne della loro cultura, della loro tradizione, della loro generosa dedizione al Regno di Dio.
Non per spirito di corpo, ma per coerenza al Vangelo, spero che i gesuiti siano di sostegno a questo papa che di difficoltà ne avrà a iosa. Se in America Latina è potuto succedere che aiutare la povera gente e stare dalla sua parte venisse percepita come azione compiuta “contro o nonostante la Chiesa”, ora deve essere chiaro che la svolta teologica e pastorale è compiuta nella Chiesa, accanto ad un Francesco che alla gente sta facendo sognare i sogni di Dio.

*Gesuita, teologo dell'istituto Ignatianum (Me), impegnato nell'ass. “Nuovi orizzonti”

lunedì 1 aprile 2013

Istigazione a riflettere n. 5


da una omelia di P. Aldo Bergamaschi del 6 aprile 1980 

Il vero dramma del cristiano non è quello di non riuscire a vincere degli avversari o a contrastare loro il passo nel dominio delle istituzioni ma nel non riuscire ad essere discepolo di Cristo. Non è la debolezza il suo dramma ma la mancanza di fede; non è la impotenza di fronte al mondo ma la incapacità propria ad attuare ciò in cui egli crede; non è la impossibilità di rendere migliori le istituzioni ma la incapacità di costruire una Chiesa. Qualcuno mi domanda: ma in fondo, di che cosa è fatta la Pasqua? Rispondo: di nulla, se non di orme! Una pietra rovesciata, un sepolcro vuoto, una sindone inutile, un corpo senza carta di identità. Ecco che cos'è la Pasqua. Nulla fuorché questo. La Pasqua è il regno della libertà che  si instaura accanto al regno della schiavitù.

Le donne cercano Gesù e hanno scelto la strada della Pasqua. Ma mentre credevano di essere sulla strada giusta si sentono ripetere: No egli non è qui. Questo è soltanto il luogo dove lo hanno messo gli uomini, illudendosi di liberarsi dal messaggio della sua salvezza, ma non è questo il suo posto, andate a dire ai discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Da questo momento Gesù si identifica con la condizione umana in assoluto. Gesù di Nazaret fisicamente inteso non esiste più e i discepoli lo riconosceranno nell'uomo lo riconosceranno nel viandante di Emmaus, oppure lo riconosceranno nell'ortolano del sepolcro, oppure nel pescatore del lago di Tiberiade. I discepoli lo riconosceranno la dove è perché in se stesso non è più visibile. Gesù di Nazaret non c'è più, e solo a questa condizione è diventato il Gesù di tutti. Si è come sciolto nell'universo per riapparire quando due o tre saranno uniti in suo nome. Andate a dire ai discepoli che egli vi precede in Galilea. Non andate a dire ai crocefissori che io li ho vinti, non utilizzate la resurrezione per convincere chi non crede, ma mostrate a chi non crede che cosa significa credere nella resurrezione.

E termino con questo pensiero. Non è necessario convincere gli uomini o mostrare agli uomini che Gesù è risorto, impresa sciocca di futile apostolato. Ripeto, non è necessario andare in giro per convincere gli uomini o per dimostrare agli uomini che Gesù è risorto, è sufficiente che chi crede nel risorto, dimostri che l'attuazione del suo messaggio non è una utopia.