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lunedì 31 dicembre 2012

Il Concilio ha 50 anni. Prima sessione, prime riflessioni


Nato nel febbraio del ’64 non ho vissuto gli anni del Concilio e neanche quelli dell’immediato post-Concilio ma ho avuto familiarità con questo evento fin da ragazzo poiché lo statuto della Gioventù Francescana di cui facevo parte era costruito proprio sui testi conciliari; gli articoli dello statuto rimandavano continuamente alla Gaudium et spes, alla Lumen gentium, all’Apostolicam actuositatem e quindi posso dire che, sebbene in modo indiretto, ho avuto modo di assimilarne i contenuti principali. Oggi, tuttavia, col senno del poi, mi rendo conto che i frati deputati alla formazione di noi giovani francescani si limitavano a commentare i testi conciliari ma non ci aggiornavano su quanto, proprio sull’impulso di quei testi, avveniva all’interno della Chiesa: nessuno, in quegli anni, mi ha parlato dell’esperienza delle Comunità di base dell’Isolotto e di San Paolo Fuori le Mura, di Lercaro e Dossetti, di Congar e Chenu e io ero solo un ragazzo, troppo ingenuo per capire certe cose. Chiuso nel guscio rassicurante della mia fraternità e preso dai mille impegni che essa comportava non mi rendevo conto che vivevo come sotto una campana di vetro. Tante vicende spinose che hanno agitato la Chiesa del post-Concilio le ho scoperte molto tempo dopo, da solo, sui libri; l’Humanae vitae, il catechismo olandese, la Teologia della Liberazione. C’è tutto un pezzo Chiesa che mi sono perso, ricco di stimoli e fermenti, che confrontato con il clima di conformismo e di apatia di oggi sembra appartenere a un’epoca distante anni luce. Per un verso, ovviamente, me ne rammarico; per un altro, invece, mi sento stimolato a un maggiore impegno. Sono consapevole, infatti, di appartenere ad una generazione che ha il compito di riappropriarsi del patrimonio spirituale e culturale di quegli anni per trasmetterlo alle generazioni successive, perché niente vada perduto.

 

Anche io sto cogliendo l’occasione di questo cinquantesimo per chiedermi cosa ha cambiato il Concilio, nella Chiesa e nella società. E devo dire che la disputatio in corso tra i sostenitori di ermeneutiche varie non mi aiuta a fare chiarezza. Sicuramente però posso dire che mi pare del tutto campata per aria la pretesa di affermare a tutti i costi la continuità tra Vaticano I e Vaticano II. Dal punto di vista dogmatico questa continuità c’è stata, ma solo perché il Vaticano II di dogmatico non ha detto nulla di nuovo. Ma come si fa ad affermare che c’è stata continuità riguardo alla liturgia, all’accessibilità del popolo alla Sacra Scrittura, al rapporto con gli ebrei e con le altre confessioni cristiane, alla libertà di coscienza quale fondamento imprescindibile della dignità umana e via discorrendo? In tutti questi campi il Vaticano II ha rappresentato non solo una innovazione ma una svolta epocale, una vera e propria rivoluzione copernicana. La Chiesa, almeno nelle intenzioni, uscì profondamente rinnovata da quell’evento. E’ questo, più che le diverse ermeneutiche, il messaggio centrale da cogliere e da trasmettere alle nuove generazioni: l’importanza per noi cristiani di interrogarci, di rinnovarci, di aprirci fiduciosamente al dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.  E aver messo insieme il Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica nell’unico contenitore dell’Anno della fede forse non ha giovato alla trasmissione di questo messaggio, distogliendo l’attenzione generale dalle rivoluzioni apportate dal Concilio e da quelle di cui oggi la nostra Chiesa ha urgentemente bisogno.

 

Del resto, limitarsi a dire che in questi cinquant’anni molto si è fatto ma che ancora molto c’è da fare non ha molto senso, è una evidente ovvietà. Ha un senso solo se si ha il coraggio di affrontare i problemi alla radice, mettendo a confronto a viso aperto le differenti opinioni. A mio parere uno dei problemi centrali è il modo con cui viene gestito il potere nella Chiesa sotto il duplice profilo del “chi” è chiamato a decidere e del “come” è strutturato il processo decisionale. Non condivido l’opinione di quanti, confidando nell’opera dello Spirito Santo, sostengono che si tratti di un problema marginale. Sicuramente lo Spirito Santo guida sempre e comunque la Chiesa ma ciò non ci esime dal dovere di definire architetture istituzionali che lascino spazio più all’azione dello Spirito e che a quella degli uomini.  Non è un caso se l’attuale disagio manifestato da varie componenti ecclesiali ad ogni latitudine – dai parroci austriaci, alle suore americane, al laicato di tutto il mondo – è legato a filo doppio con  problematiche che cinquant’anni fa furono espunte dal dibattito conciliare e risolte d’imperio dalla Santa Sede a concilio finito; basti pensare celibato obbligatorio, al sacerdozio femminile, alla sessualità coniugale. Si dice, ed è tristemente vero, che i concili vanno e vengono ma la curia vaticana resta. Io penso che il Concilio potrà essere foriero di nuove e profonde riforme soltanto se si avrà il coraggio di affrontare il nodo problematico della gestione del potere. Non certo per fare rivoluzioni; ma un conto è il fondamento divino del primato petrino, altro sono le istituzioni umane deputate a tradurre questo primato in termini di norme e prassi.  

 

Pietro Urciuoli

mercoledì 26 dicembre 2012


Il presepe di Greccio


Del presepio di Greccio ce ne parlano Tommaso da Celano nella Vita Prima e Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda maggiore.

All’approssimarsi del Natale del 1223 Francesco ebbe il desiderio di vedere con i suoi occhi la scena che si presentò ai pastori accorsi alla grotta di Bethlehem. Chiese quindi a un uomo fidato di Greccio, un tale di nome Giovanni, di approntare il necessario: la stalla, il bue e l’asinello, ecc. Giovanni dispose tutto secondo i suoi desideri. Si celebrò la S.Messa tra una folla commossa, Francesco lesse il Vangelo e poi predicò al popolo; un’orazione memorabile, tanta era la dolcezza che usciva dalla sua bocca nel solo pronunciare le parole “bimbo di Bethlehem”. Un uomo ebbe anche una visione: vide Francesco che si accostava al bimbo dormiente e lo svegliava, a significare che Francesco aveva effettivamente risvegliato il Cristo nel cuore di molti uomini.

Non vi sono molte differenze tra i due testi se non la circostanza - riportata da Bonaventura - che Francesco aveva diligentemente chiesto ed ottenuto l’autorizzazione papale prima di mettere in scena quello che sarebbe stato il primo presepio vivente della storia, una situazione del tutto inusuale per quei tempi; Bonaventura, inoltre, identifica l’uomo della visione con lo stesso Giovanni.

Non sappiamo se davvero tutti i dettagli riportati dai due biografi sono degni di fede. Possiamo però affermare che questo episodio conferma un carattere fondamentale della spiritualità di Francesco: il suo cristocentrismo. Un cristocentrismo che non nasce da una riflessione teologica o biblica ma da un profondo e genuino sentimento religioso: mentre i teologi esaltavano l’adorazione dei pastori o il giubilo degli angeli, Francesco rimane invece affascinato dall’umiltà della greppia, dalla nudità del bimbo, dalla povertà di Giuseppe e Maria.

La commozione che prova di fronte all’umanità dell’incarnazione è la stessa che prova di fronte all’umanità della passione. E anche in questo caso, mentre i teologi proponevano la croce come il trono da cui Cristo aveva vinto il mondo, Francesco invece piange dinanzi alle sofferenze di un corpo martoriato e offeso.

Greccio va letta insieme alla Verna, dalla quale è cronologicamente separata da pochi mesi soltanto.

Il presepe, quindi, non è l’idea scenica di un uomo sensibile alla poesia e all’arte: è la manifestazione plastica della sua scelta di stare dalla parte degli ultimi, dei poveri, dei minores, così come ultimo, povero e minores si era fatto lo stesso Cristo nella culla e sulla croce. E a una Chiesa teocratica che al grido di “Dio lo vuole” lanciava il popolo cristiano in sanguinose crociate Francesco mostra che l’unica Terra Santa da riconquistare è l’interiorità dell’uomo. Pertanto il presepe di Greccio non è solo una manifestazione dell’amore del Poverello per il “Verbo umanato”; è anche l’ennesima dimostrazione di come Francesco, pur fuggendo da ogni polemica con la Chiesa ufficiale e gerarchica, sa scegliere sempre e comunque la sua strada personale.

Per questi motivi il suo è un presepe speciale, addirittura rivoluzionario: l’etimo di rivoluzione, infatti, viene da volgere indietro, ritornare, rivolgere. È un tornare indietro, quindi, alle origini, agli inizi, per poi ripartire questa volta col piede giusto, per recuperare quanto si è perso per strada, ricostruendo, se necessario, relazioni e istituzioni. Un concetto evidentemente non molto lontano da quello di conversione.

 

Pietro Urciuoli

Quando un bambino sceglie il patriarca


di David Gabrielli

in “Confronti” n.12 del dicembre 2012

 

Dopo tre giorni di digiuno proposti all’intera comunità copta, nella cattedrale di San Marco, al Cairo, il 4 novembre la mano di un bambino bendato ha estratto a sorte una delle tre  pergamene depositate in un’urna di cristallo, su ciascuna delle quali era scritto un nome. Su quella presa in mano si leggeva: Anba Tawadros, arcivescovo di Beheira; e questi è diventato il 118° papa di Alessandria, patriarca di San Marco e capo della Chiesa copta ortodossa in Egitto. È terminata così la sede vacante iniziata il 17 marzo 2012, con la morte del patriarca Shenouda III. Passato un periodo di lutto, erano state avviate le procedure per la scelta del successore: una speciale commissione composta da nove vescovi e da nove laici, ai primi di ottobre, da una lista di diciassette candidati, dieci monaci e sette vescovi, ne ha scelti cinque. Quindi, il 29 ottobre un collegio elettorale di 2.405 membri – vescovi, preti, monaci, laici uomini e donne – ha ridotto a tre i candidati: Tawadros (diventato II, appunto) e due monaci.

Altre Chiese, d’Oriente (come quella ortodossa serba) e d’Occidente, hanno modi simili, o assai diversi, per scegliere i loro leader, ma tutti comunque con marcati criteri democratici. Fa eccezione, e da secoli, la Chiesa cattolica romana. Nei primi tempi del cristianesimo, in verità, erano i fedeli, clero e popolo, a scegliere il proprio vescovo, a Roma come altrove. Poco alla volta nella «città eterna» il popolo fu estromesso, e il suo diritto fu usurpato da alcune famiglie nobili che, con una parte del clero, decideva sull’elezione del papa. Ne nacquero abusi, violenze, simonia: e così nel  1059 Niccolò II stabilì che l’elezione del vescovo di Roma fosse riservata ai cardinali. Il loro numero variò, nel tempo, da una ventina a settanta, ma nel 1975 Paolo VI portò a 120 il plenum dei cardinali elettori. Da sempre è rimasto diritto esclusivo del papa scegliere i cardinali; e così è stato, ora, nel concistoro del 24 novembre, durante il quale Benedetto XVI ha creato sei nuovi porporati, portando l’insieme dei votanti al plenum stabilito.

Questa situazione – il papa che ferreamente si riserva di nominare la cerchia che dovrà eleggere il suo successore – stride sempre più. Al Vaticano II nessuno osò proferire verbo, in merito. Ma nel post-Concilio il cardinale Leo Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles, propose che, con i cardinali, anche i presidenti delle Conferenze episcopali entrassero in conclave. Proposta caduta. Nel 1973 Paolo VI ipotizzò che nel conclave entrassero anche i membri del Consiglio della Segreteria del Sinodo dei vescovi (dodici eletti dai padri sinodali, tre dal pontefice), ma poi abbandonò l’idea. Un vescovo africano, nel 1994, ha suggerito che il papa creasse donne cardinali; altri hanno proposto che fosse istituito un Senato della Chiesa, composto da due-trecento donne e uomini eletti nelle varie nazioni, con il compito di assistere il papa e con il diritto di entrare, con i cardinali, in conclave. I pontefici recenti hanno respinto tali ipotesi affermando: «La Chiesa non è una democrazia». Curiosissimo pretesto! Infatti, nessuna Chiesa pensa che, attraverso un voto di tipo parlamentare, con maggioranze e minoranze, si possa variare ciò che affermano le Scritture; ma – domanda – come cercare, lungo i sentieri complessi della storia, la volontà di Dio? Ecco, allora, Sinodi e Concili dove, con la preghiera, la riflessione e l’ascolto reciproco si cerca di capire che cosa lo Spirito indichi a chi voglia coerentemente vivere l’Evangelo.

E poi si vota, come accadde al Vaticano II. Quanto poi ai ministri e pastori della Chiesa, come scegliere le persone che dovranno essere consacrate? La normativa attuale – salvo i diritti delle Chiese cattoliche orientali e quelli di alcune pochissime diocesi mitteleuropee – riserva al pontefice, in linea di principio, la nomina dei vescovi nella Chiesa latina. Un potere enorme, che in teoria si sarebbe potuto ridiscutere alla luce delle affermazioni della costituzione Lumen gentium del Vaticano II sul «popolo di Dio», ma che di fatto è rimasto inattuato. Ma nessun cambiamento del «modo di esercizio» del primato petrino, pur fatto balenare dai papi Wojtyla e Ratzinger, sarà reale senza restituire nelle mani delle Chiese locali il diritto-dovere di scegliere il proprio pastore. Come?

Le ipotesi sono diverse; la prudenza nelle procedure è d’obbligo; per le modalità, la fantasia è desiderata; assai utile la conoscenza della storia; determinanti saranno la corresponsabilità e il senso della comunione. E, in attesa del conclave... se sul Tevere non si sa come navigare, si consiglia un viaggio sul Nilo.