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sabato 30 marzo 2013

Una fede notturna


di Piero Stefani, in “Il pensiero della Settimana” n. 426 del 31 marzo 2013 (http://pierostefani.myblog.it/)

Tutti i vangeli descrivono in modo diretto la morte di Gesù, nessuno di loro la sua risurrezione. Nessuno mostra quanto l’iconografia ha illustrato a volte in modo anche altissimo (per es. Piero della Francesca a Borgo San Sepolcro), ma sempre comunque ostentato e quindi infedele allo spirito evangelico. Quanto è detto dai vangeli è solo l’esito: la tomba vuota, l’annuncio, le apparizioni non a tutti ma solo ad alcuni testimoni (At 10,39-41). La veglia che celebra l’evento fondativo della fede dovrebbe conformarsi alla logica che esige la testimonianza ma nega il trionfalismo. Essa dovrebbe ricordare, celebrare, attendere, non mostrare. Mai come a Pasqua il battesimo è un mistero di morte e risurrezione (cfr. Rm 6,1-11; passo da cui deriva l’ineguagliata preminenza simbolica del battesimo per immersione).[1]
La fragilità della condizione umana è un’evidenza, la risurrezione una certezza solo di fede. La Pasqua è tutta qui. La morte in croce è avvenuta davanti a testimoni, la risurrezione nel silenzio della notte. Che Gesù Cristo sia risorto è una realtà paragonabile a quella della stella polare: orienta il cammino, ma non consente di vedere. Quella luce non illumina il mondo; anche per chi la guarda basta una nuvola perché scompaia, eppure nulla di quanto posto sotto il nostro controllo è in grado di annientarla. La stella tornerà a farsi vedere, ma resterà lontana.
«Dov’è morte la tua vittoria, dov’è il tuo pungiglione» (1Cor 15,55). Qualcuno ha assunto l’interrogativo retorico, come se fosse reale e perciò si è sentito in obbligo di rispondere con un realistico: «ovunque». Sarebbe così se la certezza della fede fosse paragonabile a quella della luce del sole. Dappertutto vediamo lo spettacolo della morte (cfr. Lc 23, 48) e per di più si tratta di una rappresentazione che alla fine fagociterà in se stessa anche lo spettatore. Solo una fede notturna è nella condizione di credere nella risurrezione. Forse anche per questo la veglia pasquale si celebra nel cuore della notte; là il cero brilla attendendo la luce dell’alba.
La fede non è visione. Siamo salvi in speranza, se la si vedesse non si spererebbe in essa (Rm 8,24). Ciò vale fin dall’origine. È constatazione inoppugnabile che ogni essere umano nasce bisognoso di aiuto. Se non si instaura una relazione nessun vivente sopravvive. Ogni creatura umana necessita fin dalla nascita del rapporto con gli altri. La relazione è indispensabile perché chi è nato cresca. Siamo di fronte a un dato basilare che fa parte integrale dell’esistente.
Ciascuno di noi è stato aiutato a sopravvivere, a vivere, a crescere. Ognuno è stato in qualche modo  educato. Tutto ciò ha a che fare con la fede? È evidente che ogni essere umano è cresciuto solo grazie ad altri; non è invece evidente che all’origine della nostra vita ci sia la relazione con un Altro (con la maiuscola); non è palese che Dio si occupi di noi, mentre è chiaro che di noi si sono curati i genitori (eventualmente anche non biologici). Se non ci fossero stati loro, nessuno di noi ci sarebbe.
Il fatto che Dio si occupi di noi, tuttavia, è una certezza solo nell’ambito della fede. La fede presuppone l’esistenza di un rapporto interumano senza però identificarsi con essa. Anche la risurrezione, al fine di differenziarsene nel modo più radicale, presuppone l’inoppugnabile certezza della morte. Tornano alla mente le grandi parole di Dietrich Bonhoeffer: «Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra da pensare che con loro tutto è perduto, si può credere alla risurrezione dei morti». Il morire è un’evidenza, la certezza che Dio serbi la sua fedeltà a chi dorme nella polvere è certezza di fede.

Piero Stefani


[1] Questi passi sono tratti dal “Pensiero 198” (30.3.2008) che commentava il battesimo, la cresima e il sacramento dell’eucaristia ricevuti da Magdi Cristiano Allam nel corso della veglia pasquale in S. Pietro. Allam pochi giorni fa ha pubblicamente dichiarato di abbondare la Chiesa cattolica accusandola di essere  troppo cedevole verso l’islam. Non ci voleva molto per capire, anche allora, quanto quella cerimonia fosse impropria. Ora la vicenda va ancor più ascritta al novero degli evitabili fallimenti che hanno costellato il pontificato di Benedetto XVI e che infine hanno indotto Joseph Ratzinger a compiere la storica e  capovolgente decisione di rinunciare al suo ruolo di vescovo di Roma.

mercoledì 27 marzo 2013

Le donne e la celebrazione della frazione del pane

di Claude Dubois in www.comitedelajupe.fr del 24 marzo 2013 (traduzione www.finesettimana.org)


“Erano assidui all'insegnamento degli apostoli e alla comunione fraterna, alla frazione del pane e alle preghiere” (At 2,42). La frazione del pane è il memoriale della nuova Alleanza in Gesù Cristo, conclusa all'inizio della Passione di Gesù, la notte precedente il suo arresto. Paolo ne ricorda il tenore nella lettera ai Corinti. “Il Signore nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». (1 Co 11, 24-25).
La frazione del pane diventa il segno del dono della vita di Dio in Gesù Cristo, il segno della comunione celebrata dalla comunità riunita, una comunità di fratelli e sorelle. È la celebrazione centrale della comunità cristiana, perché memoriale del passaggio dalla morte alla vita, e dell'amore incondizionato di Dio per noi. Fa anche memoria dell'umile servizio compiuto da Cristo prima della Passione, il gesto inaudito della lavanda dei piedi dei discepoli!: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14).
La celebrazione della frazione del pane è il memoriale di un sacrificio in cui il sacerdote e la vittima diventano una sola cosa, in cui il sacrificio è stato fatto una volta per tutte. “Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7), quella di “riunire nell'unità tutti i figli di Dio dispersi”. Gesù Cristo è il solo mediatore e il solo sacerdote della Nuova Alleanza. Gesù non si è mai rifugiato in un “sacro” di qualsiasi tipo. Non ha “ordinato” nessuno a prendere la sua successione. Mai viene detto che gli “apostoli”, o Paolo, esercitassero una funzione sacerdotale!
È all'insieme dei suoi discepoli, coloro che lo seguono, vivono del suo insegnamento, che Gesù Cristo ha chiesto di fare fino alla fine dei tempi memoria della sua vita, donata per la salvezza del mondo. “Quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, in ogni luogo in cui i discepoli, uomini e donne, pregano e fanno memoria. La celebrazione è la preghiera che sgorga dal gruppo dei discepoli riuniti. Certo occorre un po' d'ordine che alcuni anziani sono portati a garantire, ma senza l'obbligo di formule diventate “fisse” e e che non hanno riferimento al quotidiano. La celebrazione è la preghiera che si fa festa.
La Cena non ha luogo nel Tempio, ma attorno ad una tavola domestica. Si può pensare, senza grande rischio di sbagliarsi, che le donne che avevano seguito Gesù sulle strade fin dall'inizio della sua vita pubblica, quindi delle “discepole”, abbiano preparato quell'ultimo pasto e vi abbiano partecipato. Anche a loro si rivolgeva la richiesta: “Fate questo in memoria di me!” Allo stesso titolo che agli uomini, tocca anche a loro il compito di annunciare e di attualizzare – è il senso della parola “memoriale” - invocando lo Spirito Santo sul pane e sul vino, quella pienezza di vita e d'amore che Dio ci dà in Gesù Cristo e che dobbiamo tutti trasmettere.
Il memoriale della frazione del pane si inscrive nella memoria della pratica profetica e sovversiva di Gesù Cristo. Gesù è stato solo apertura e accoglienza, senza discriminazione né dominio e guida verso un divenire comunitario fraterno e insieme plurale. È all'insieme di questa comunità riunita in suo nome che Gesù Cristo ha affidato la celebrazione della frazione del pane, destinata a fecondare il mondo.

giovedì 21 marzo 2013

Prova televisiva

È noto a tutti che la televisione ha svolto un ruolo strategico nel corso dei due precedenti pontificati: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono stati proposti all’intero pianeta come divi dello star system internazionale scatenando l’entusiasmo di fedeli pronti a riempire le piazze di tutto il mondo. Papolatria e televisione, quindi: un abbraccio mortale - forse addirittura peggiore di quello tra Stato e Chiesa - che ci sta progressivamente trasformando in Christi-tele-fideles laici più disposti ad applaudire e a osannare che non a leggere, riflettere, approfondire.
Anche l’inizio del nuovo pontificato non è stato diverso; ore e ore di estenuanti dirette televisive, riempite con dibattiti e servizi spesso banali e ripetitivi. Tuttavia ritengo che mai come in questo caso la televisione sia di grande utilità visto che il vescovo Francesco sembra essere un uomo che si rivela prevalentemente nella spontanea naturalezza delle sue parole e dei suoi gesti. Un esempio lo abbiamo già avuto. Nell’omelia di giovedì 14 marzo, parlando a braccio ai cardinali che lo avevano appena eletto, Francesco ha detto chiaro e tondo che una Chiesa che non confessa Gesù Cristo diventa una “ONG pietosa”; sul sito del Vaticano, dove è riportata la trascrizione dell’intera omelia, al posto di “ONG pietosa” si legge invece “ONG assistenziale”. Non credo, sinceramente, che si tratti di un mero refuso anche perché tutto il resto della trascrizione è fedele alle immagini dell’omelia diffuse dalle televisioni. Credo invece che la modifica sia voluta; in italiano il termine “pietoso” viene utilizzato frequentemente anche nel senso di “pessimo”, “brutto”, “sbagliato”, “inadeguato”, “carente” (es., una figura pietosa, un libro pietoso, un aspetto pietoso), niente a che fare con la “pietas” cristiana cui verosimilmente si riferiva il vescovo Francesco che forse ignora l’accezione data al termine nella lingua italiana parlata. In ogni caso, a scanso di equivoci, i responsabili della comunicazione della Santa Sede hanno ritenuto più opportuno sostituirlo con “assistenziale” (meglio ancora sarebbe stato utilizzare “assistenzialista”).
Per imparare a conoscere il nostro nuovo pastore non esitiamo, dunque, ad affidarci alla prova televisiva visto che, a quanto pare, sui documenti ufficiali la curia è già pronta a operare aggiustamenti, revisioni se non censure.

21.3.2013
Pietro Urciuoli

Francesco, quel cerchio che forse si chiude

di Sergio Soave, in La Stampa del 21 marzo 2013


Se tra i primi santi di Papa Francesco ci sarà davvero Carlos de Dios Murias, il trentunenne francescano torturato e ucciso dai militari nel 1976 per le sue simpatie verso la teologia della liberazione, allora si potrà dire che un’epoca si è chiusa e un’altra inizia. Non nel senso superficiale che qualcuno sarà tentato di dare e cioè come segno di un ripensamento ufficiale della Chiesa, ma almeno come primo superamento di un tabù che le ha impedito finora di riconoscere i propri martiri sudamericani, solo perché vittime di sedicenti cristianissimi regimi dittatoriali. E sarà possibile allora che molte altre vicende vengano alla luce, prima fra tutte quella, paradigmatica e tuttora aperta, di mons. Enrique Angelelli di cui Murias era il prediletto discepolo.
Figlio di immigrati italiani, Angelelli, aveva iniziato alla fine degli Anni 50 il suo apostolato tra i poverissimi della baraccopoli di Cordoba. Nominato vescovo ausiliare da Papa Giovanni e rimosso dal suo incarico per le resistenze degli ambienti ecclesiastici più conservatori, era stato nuovamente scelto da Paolo VI come vescovo de La Rioja, la diocesi più povera dell’Argentina. Da appena un anno era uscita l’enciclica Populorum progressio che, quasi in contrasto con il consueto tormentato incedere del Papa, aveva posto con una chiarezza mai più raggiunta il dovere cristiano di affrontare in termini radicali il tema della povertà dei popoli del terzo mondo. Angelelli aveva cercato di interpretarne il senso nell’azione pastorale quotidiana, suscitando nuovamente sorde reazioni, questa volta rintuzzate con l’aiuto del capo dei gesuiti Pedro Arrupe. Ma, nel marzo del 1976, il golpe militare del generale Videla segnò la sua fine. Di fronte alle brutalità del regime, il candido e fragile vescovo, rifiutò di celebrare la messa nelle caserme dove si torturavano i dissidenti e soprattutto non volle salire sul palco su cui sarebbe apparso «il Generale Presidente», in visita nella sua regione, perché - aveva obiettato con un timido sorriso ai funzionari esterrefatti che predisponevano la cerimonia «il vescovo non può stringere la mano di colui che opprime il suo popolo». Poco dopo sarebbe stato ucciso nella maniera più infame, in un simulato incidente stradale, sì che gli venisse negato anche il riconoscimento del martirio. Era il 4 agosto 1976. Una Chiesa sbigottita e incerta, accettò la versione ufficiale.
E di lì a poco, a Puebla, Karol Wojtyla, avrebbe sancito un variare di linea: prioritaria era lotta al marxismo di cui la teologia della liberazione sembrava subire le suggestioni. Il tema della povertà andava affrontato all’interno della consolidata dottrina sociale della Chiesa e a un giovane cardinale tedesco, Joseph Ratzinger, nominato Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, era affidato il compito di smontare sul piano teologico le deviazioni latinoamericane.
Così l’azione potente e decisiva del Papa volta alla liberazione dell’Europa dal comunismo, si sarebbe tradotta in America Latina nel suo contrario: la liberazione di quei popoli dalle dittature sarebbe avvenuta con una chiesa costretta a inseguire gli avvenimenti più che a determinarli. Ciò che avrebbe costituito il rovello permanente di quei tanti sacerdoti perseguitati che, come Arturo Paoli ( autore del celebre Dialogo della liberazione e oggi felicemente centenario), pensavano al vangelo come strumento di liberazione integrale dell’uomo.
Ora, tutta questa storia passata riemerge con e nella figura di Papa Francesco. Nel 2006, Nestor Kirchner, ha proclamato il 4 agosto giornata di lutto nazionale, proprio in memoria di mons. Angelelli. E un anno fa l’ancora vescovo Jorge Mario Bergoglio, pur raccomandando discrezione, ha deciso di sfidare le reazioni prevedibili, dando inizio alla causa di beatificazione del suo discepolo.
Ora è Papa di una chiesa che vuole povera e per i poveri. E anche nel monito francescano a «custodire la terra», c’è un’eco, certo inconsapevole, di un concetto cardine della teologia della liberazione. Proprio quella che ha contrastato tanti anni fa quel giovane cardinale tedesco che gli ha lasciato il posto, proponendolo, si dice, come suo successore. Tutto è naturalmente avvenuto nel segno della continuità ed è presto per decifrare il corso degli eventi. Ma se anche solo qualcuna delle premesse di questi giorni dovesse realizzarsi, allora davvero si chiuderebbe un cerchio e si confermerebbe la convinzione di Arturo Paoli, tante volte ripetuta nei momenti in cui non capiva la propria Chiesa, che «lo Spirito Santo agisce per la contraddizione». Che è il modo degli uomini di fede di dare un senso ai non infrequenti paradossi della storia.

mercoledì 20 marzo 2013

I cattolici sono gentili, molto gentili, troppo gentili


di Philippe Clanché, in “http://cathoreve.over-blog.com” del 18 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)


Dal 1978, i cattolici hanno visto apparire al balcone di San Pietro in Roma un papa giovane e sportivo, poi due settuagenari, uno cerebrale e l'altro vicino al popolo. Ogni volta hanno acclamato il pontefice con la medesima forza e hanno espresso esultanza per l'azione dei cardinali e dello Spirito Santo.
Si sono estasiati davanti a un pontefice che mette in scena la sua agonia in diretta, poi davanti ad un altro che ha spiegato che, mancandogli le forze per reggere il pesante timore della Chiesa cattolica, preferiva ritirarsi. Alcuni giorni dopo, gli stessi si sono entusiasmati all'arrivo di un uomo di 76 anni, certo in forma, anche se privo di un polmone.
Erano pronti ad acclamare un favorito di cui conoscevano il Curriculum Vitae e hanno gridato di gioia per uno sconosciuto. Adorano le spedizioni papali ovunque nel mondo e approvano plebiscitariamente i  ettuagenari.
Con un po' di esagerazione e di malafede, si potrebbe affermare che qualunque persona vestita di bianco fosse apparsa al balcone avrebbe immediatamente ottenuto l'assenso generale dei fedeli.
A Parigi, un centro giovanile tenuto da religiosi ha invitato a seguire su uno schermo gigante la messa di inaugurazione del “Papa buono Francesco”. Il termine, che io sappia, è stato utilizzato recentemente solo per Giovanni XXIII, dopo che ha convocato un Concilio, parlato agli “uomini di  buona volontà”, contribuito ad evitare una guerra (la crisi di Cuba) e scritto testi di portata storica sulla pace e la giustizia. Come è possibile, nel giro di due o tre giorni, dire che papa Francesco è, o sarà, “buono”?
Bisogna ammettere che i nostri cattolici francesi, banderuole compiacenti, in questo loro atteggiamento sono sostenuti dalla stampa, altrettanto estasiata.
I media profani vanno matti per i riti e lo scenario di questa monarchia fuori tempo. Il fumo bianco, il segreto, le guardie svizzere, è tutto talmente desueto e carino! Soprattutto poi se l'eletto viene da un paese esotico!
Le nostre televisioni sognano l'avvento dei nuovi papi, come si dilettano dei matrimoni dei principi.
Viviamo il trionfo postumo di Léon Zitrone (1).
State tranquilli, questi stessi media non tarderanno a trattare il fenomeno cattolico con sarcasmo e  incompetenza, appena gli esperti saranno rientrati a casa loro. E appena il papa dovrà pronunciarsi su  argomenti che incontreranno un consenso meno unanime del suo amore per i poveri.
Quanto alla stampa cattolica, è di una deferenza che meriterebbe a volte che si ritirasse la tessera di giornalista professionista ad alcuni. Le immagini proposte dell'“incontro con la stampa” del nuovo papa sabato 16 marzo sfioravano la caricatura. Ahimè, questa è ordinariamente la copertura mediatica in Vaticano. Conoscete molti luoghi in cui dei giornalisti professionisti applaudono al suo arrivo la persona che li ha convocati, alzano per bene i loro i-phone per scattare delle foto (come ragazzini ad un concerto) e tornano a battere le mani all'uscita della star? Il tutto senza avere il diritto di porre alcuna domanda. Benvenuti nel mondo magico della stampa cattolica accreditata presso la Santa Sede.
Invitato ad una radio a commentare in diretta l'arrivo del nuovo pontefice, mi sono sentito a disagio davanti allo stupore permanente dei miei confratelli. Domani, fratelli e sorelle, farà bello, perché abbiamo un papa ornato di tutte le virtù!
Una certa presa di distanza, uno sguardo un po' più critico, insomma un po' più professionale, sarebbe desiderabile. E un atteggiamento così sarebbe anche un utile servizio alla Chiesa cattolica, che è purtroppo priva di specchio, eccetto quello della regina di Bianca Neve.

(1) presentatore storico ed eccentrico della Radio Televisione Francese (1914-1995)

Il pontefice del sogno conciliare

di Raniero La Valle, in il manifesto del 20 marzo 2013

Non ha fatto il "discorso dell'incoronazione" come si diceva una volta del Papa che salendo sul trono enunciava il programma del suo pontificato; e non lo ha fatto semplicemente perché non c'è corona e non c'è trono, di cui sono ormai caduti anche gli ultimi orpelli. Non che il successore di Pietro, ha detto Francesco nell'omelia, non riceva anche un potere; ma è il potere di pascere, cioè soprattutto di nutrire, e custodire, il gregge di Dio, fino a dare la vita per lui; e questo potere non si può declinare che come servizio.
Messe così le cose, papa Francesco non ha voluto fare del suo discorso in piazza San Pietro, dinanzi a una comunità diocesana sempre più pronta all'ascolto, dinanzi a fedeli giunti da tutto il mondo, dinanzi al Patriarca di Costantinopoli, ai vescovi ed esponenti di molte Chiese e ai potenti della terra, il pezzo forte di questi primi giorni del suo pontificato. Ha fatto semplicemente l'omelia della Messa. Ha spiegato il Vangelo, raccogliendo idealmente la consegna del suo predecessore, Giovanni XXIII, che nel «Giornale dell'anima» aveva lasciato scritto: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio... Al di sopra di tutte le opinioni e i partiti, che agitano e travagliano la società e l'umanità intera, è il Vangelo che si leva. Il Papa lo legge, e coi vescovi lo commenta...».
Tra le cose che cominciamo a comprendere meglio, ce ne sono due profondissime che Francesco ha voluto dirci. La prima è che dobbiamo custodire la terra, con tutte le sue creature. E questo lo aveva capito anche San Francesco. Ma questa custodia precede l'essere credenti di qualsivoglia religione, è un compito dell'umanità come tale, il che, nella cultura di un papa vuol dire che Dio ha messo l'opera delle sue mani nelle mani degli uomini e delle donne come tali, e non solo di quanti credono in lui. Il mondo precede la Chiesa.
E la seconda cosa è che bisogna non avere paura dell'amore e della tenerezza che lo esprime. Come mai, per prima cosa, il nuovo papa ha fatto questa esortazione che sembra così bizzarra? Noi abbiamo paura della cattiveria, dell'odio, delle divisioni, delle minacce, dell'inimicizia da cui cerchiamo di difenderci in tutti i modi, ma chi ha mai pensato che si potesse avere paura della bontà, dell'amore? Invece è proprio così. Moltissimi ne hanno paura. Perché l'amore è un lavoro, un cimento, l'amore va osato. Esso non è un dono innocuo. Ti mette in questione, ti impegna, ti cattura, ti cambia. E siamo in molti che non vogliamo essere cambiati. Cambiare è una fatica. Cambiare abitudini forse è facile. Cambiare vita è ancora possibile. Ma cambiare mente - che è poi una conversione - è la cosa più difficile. Così queste parole di papa Francesco ci rassicurano, perché vuol dire che conosce l'animo umano.
In tal modo si sta completando il disegno di quello che potrà essere questo pontificato. Il sogno di una Chiesa povera e per i poveri lo ricollega al sogno di una «Chiesa di tutti e specialmente Chiesa dei poveri», che papa Giovanni proclamò nel suo radiomessaggio un mese prima del Concilio. Si tratta di un sogno, non di un progetto che il papa può eseguire, perché non basta un papa a fare la Chiesa. La vera povertà, non nel senso pauperistico o dei rigorismi petulanti degli zelanti, ma nel senso della spoliazione dalla "mondanità spirituale", non è un papa da solo che la può dare alla Chiesa, è tutta la Chiesa, ognuno per la sua parte, che la deve abbracciare.
Certo il Papato deve metterci del suo, perché nella riforma della Chiesa è necessaria anche un'autoriforma del Papato, che in tutto il secondo millennio aveva tentato di costruirsi come il supremo potere terreno, dalla rivendicazione di Gregorio VII del potere di deporre imperatori e vescovi, alla lotta antimodernista di Pio X; ed è a causa di questo che la Chiesa ha mancato il suo appuntamento con la modernità, e si è trovata in una situazione critica di autismo e di incomunicabilità con gli uomini del nostro tempo. Per questo si fece il Concilio del Novecento; da allora sono passati cinquanta anni nei quali quel Concilio ha subito una sorta di quarantena e ha conosciuto i conflitti, le mormorazioni, le infedeltà, le frustrazioni di una traversata nel deserto.
Però questo tempo che ci separa dal Concilio non è stato vissuto nello stesso modo nelle stanche Chiese europee e nella Chiesa dell'America Latina, che è la Chiesa di mons. Romero, della teologia della liberazione, di padre Ellacuria e degli altri 47 gesuiti caduti sotto la violenza per la loro testimonianza alla fede, la Chiesa dei contadini poveri che si "coscientizzavano" leggendo il vangelo sotto gli alberi, senza neanche un prete, la Chiesa che talvolta è stata debole nella fede e nella resistenza ai tiranni, ma che ha prodotto quella straordinaria preghiera di pentimento e di denuncia della «violenza contro le libertà, nella tortura e nelle delazioni», che il vescovo Bergoglio ha fatto pronunciare il 10 settembre del 2000 a tutti i vescovi argentini.
Ma ora un tempo finisce, e un altro comincia. Ed ecco vediamo che l'arco di tempo che ora si chiude, poggia su due pilastri identici, che si richiamano e si confermano l'un l'altro, e sono i pilastri del privilegio dei poveri: la Chiesa dei poveri invocata da Giovanni XXIII, la Chiesa povera e per i poveri sognata da papa Francesco.  Si tratta del sogno di un nuovo destino per i poveri di tutta la terra che non solo un papa, non solo una Chiesa, non solo i grandi presenti a quella messa, ma tutti i custodi, non impauriti dall'amore, sono chiamati a realizzare.

martedì 19 marzo 2013

Sostiene Guglielmo n. 6

Sostiene Guglielmo che il potere del papa è di tipo ministrativus e non dominativus. Se ne è accorto anche il nuovo vescovo di Roma Francesco. Meglio tardi che mai.

Octo quaestiones de potestate papae

Quell'adulazione un po' mielosa...

di Roberto Beretta in Vino nuovo del 18 marzo 2013


Ha girato l'altare verso il popolo, dunque è un progressista. No, ha citato il diavolo già due volte: perciò è un tradizionalista. Ha detto che vorrebbe una Chiesa più povera: è di sinistra. Però ha anche messo in guardia dal farla diventare un ente assistenziale: è certamente di destra! In quanti - anche qui, su queste pagine - stanno già cercando di tirare Papa Francesco per la mozzetta (che per fortuna ha rifiutato di indossare, fin dai primi minuti dopo la sua elezione).
Ed è spettacolare osservare quanto il gattopardismo clericale sia furbo e lesto nel trasformarsi a seconda del potere che vuol lusingare. Il nuovo Papa è talmente osannato che viene da chiedersi come mai non l'abbiano eletto già otto anni fa, al posto di Benedetto XVI - del quale risulta essere stato uno dei principali concorrenti: se davvero è (ed era) il più umile, il più alla mano, il più adatto al governo della Chiesa, così come tutti oggi sono pronti a giurare, perché lo Spirito Santo e i cardinali hanno atteso tanto tempo a collocarlo sul soglio di Pietro?
D'altra parte, il povero Ratzinger viene messo inverecondamente da parte. Tutto quanto aveva fatto secondo suo gusto e prospettiva, e che all'epoca era esaltato quale innovazione eccellente e originale, oggi è implicitamente rigettato nel momento stesso in cui si sorride compiaciuti alle trovate con cui il successore ne rovescia il contenuto. Sarebbe quanto mai divertente andare a notare come gli stessi fogli e magari le stesse firme che, per esempio, si diffondevano anni fa a spiegare come Benedetto XVI facesse benissimo a riesumare il camauro e le scarpette rosse, oggi senza fare una piega verghino commenti compiaciuti sul simbolismo forte della croce di ferro e il rifiuto dei paramenti del nuovo Pontefice.
Non intendo con questo fare il solito bastian contrario guastafeste: Papa Francesco mi piace molto molto molto, il suo stile al momento mi sembra assai più vicino ai miei desiderata di quello del predecessore. Sono solo nauseato dall'ipocrisia e dall'adulazione che gli monta intorno: fino a ieri, se avessimo scritto (anche qui) che volevamo una Chiesa più povera, ci saremmo tirati addosso chissà quante accuse di cattocomunismo, buonismo, pauperismo, demagogismo... Oggi lo dice il Papa ed è la cosa migliore che si poteva dire. Fino a ieri chi criticava la corruzione e le sporcherie della Curia era un anticlericale, oggi tutti sostengono che abbiamo trovato l'uomo giusto per cambiare finalmente la situazione (ma come? Non era tutto perfetto anche prima in Vaticano?!?).
Dico solo due cose. Papa Francesco avrà bisogno di un'estrema durezza per non cedere alle lusinghe di quest'adulazione mielosa, che tenderà certamente ad invischiarne l'azione in modo che "tutto cambi perché nulla cambi"; dovrà mantenere nel tempo l'anticonformismo evangelico che lo ha spinto - ieri - ad andare in metropolitana come un cittadino qualunque e - oggi - a rifiutare la lussuosa auto targata Scv1. Non sarà facile. E poi avrà bisogno anche di noi, perché nessuno può cambiare il mondo (la Chiesa) da solo; certo, il suo modello - quello della guida più indiscussa e autorevole al mondo - sarà fondamentale per indicare una nuova direzione, però poi occorre che il popolo (quello che lui ha invocato fin dal primo apparire alla finestra di piazza San Pietro) lo segua con la sua rivoluzione dal basso. Nessuno l'ha notato ancora: questo è il primo Papa che non ha partecipato al Concilio. Ma ce l'ha già fatto ricordare in molti modi.

giovedì 14 marzo 2013

Nel nome una missione

di Vito Mancuso, in la Repubblica del 14.3.2013

Forse è la volta buona. Forse oggi, a distanza di mezzo secolo, il rinnovamento all’insegna del Vangelo che papa Giovanni XXIII e il Vaticano II avevano voluto e intrapreso, può finalmente diventare realtà. Forse i cardinali elettori hanno veramente ascoltato lo Spirito Santo, operazione che non contiene nulla di magico, ma è solo la pura disposizione della mente e del cuore a volere sempre e solo il bene, perché quando un uomo dispone la sua mente e il suo cuore nella ricerca del
bene lo Spirito della santità agisce in lui, sia egli credente o non credente. E questo io sento che i cardinali elettori hanno fatto, allontanando ogni calcolo politico o diplomatico, ogni ragionamento all’insegna del potere, e scegliendo un uomo di Dio.
Si è trattato di una scelta assolutamente inaspettata, il nome di Jorge Mario Bergoglio non figurava quasi mai tra le liste dei principali papabili. Ma si è trattato soprattutto di una scelta completamente innovativa: da ieri abbiamo il primo papa non europeo, il primo papa latino-americano, il primo papa che ha scelto di presentarsi al mondo come “vescovo di Roma” e soprattutto il primo papa che  ha scelto di chiamarsi Francesco.
Nell’unione di queste quattro assolute novità, unite alla preghiera che ha da subito caratterizzato la sua prima apparizione da papa, io intravedo quella speranza di rinnovamento all’insegna del Vaticano II che Francesco I può realizzare e di cui la Chiesa ha un immenso bisogno. Né si può tacere il fatto che Bergoglio nel Conclave del 2005 fu il principale antagonista di Ratzinger: i cardinali elettori quindi non solo non hanno scelto un ratzingeriano di ferro come Scola o come Schönborn, ma hanno scelto colui che a Ratzinger contese la maggioranza dei voti in Conclave.
Questa scelta contiene un giudizio non del tutto positivo sugli otto anni di pontificato dell’attuale papa emerito? Ma ciò che maggiormente colpisce è il nome che il nuovo pontefice ha scelto per sé. Che cosa significa aver deciso di chiamarsi Francesco? Bergoglio non è un francescano, è un gesuita e se avesse seguito il suo cuore avrebbe dovuto chiamarsi Ignazio, visto che è sant’Ignazio di Loyola il fondatore dei gesuiti. Ma egli ha scelto di chiamarsi Francesco, sottolineando con questo non la sua storia personale (anche se chi lo conosce racconta che vive da sempre in assoluta semplicità, lontano dal lusso che la qualifica di arcivescovo di Buenos Aires gli permetterebbe) ma l’intento animatore del suo programma di governo all’insegna della testimonianza profetica e della radicalità evangelica. Francesco è il santo che più di ogni altro nel secondo millennio cristiano ha rappresentato l’ideale della purezza evangelica, l’ideale di vivere le beatitudini, lontano dalle seduzioni del potere e della gloria.
Penso che tutti abbiano in mente l’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi che rappresenta il sogno di Innocenzo III: egli vede un uomo vestito con un semplice saio che sorregge una chiesa che sta per cadere, e ovviamente quell’uomo è Francesco il poverello di Dio, di cui a Innocenzo III in sogno viene anticipata la venuta. Ora a nessuno è dato sapere che cosa abbia sognato in queste notti Jorge Mario Bergoglio quando sentiva approssimarsi la scelta dei cardinali elettori su di lui, ma certamente il fatto che egli abbia scelto di chiamarsi Francesco indica nel modo più esplicito la sua chiara percezione della gravità della situazione che la Chiesa cattolica sta vivendo e soprattutto la sua convinzione riguardo alla via per uscirne: la radicalità evangelica, la povertà, la mitezza, la lontananza dal potere, l’amore per ogni uomo e per gli animali, la cura per tutto il creato.
Il primo, indispensabile passo che la Chiesa deve compiere è tornare a credere al Vangelo anzitutto nelle sue strutture di comando: l’evangelizzazione, prima di riguardare il mondo, riguarda la gerarchia della Chiesa, in primo luogo la Curia, e dalla scelta effettuata sembra che i cardinali abbiano capito alla perfezione tutto ciò e abbiano individuato chi, tra di loro, era l’uomo giusto per questa svolta all’insegna della mitezza e insieme del rigore.
Ieri, sentendo parlare per la prima volta il nuovo papa, mi ha molto colpito il suo rivolgersi ai fedeli e al mondo chiamandosi più di una volta “vescovo di Roma”. Anzi si può dire che ieri sera Bergoglio non si è presentato al mondo, infatti non ha detto una sola parola in spagnolo per la sua terra, non ha detto una sola parola in inglese rivolgendosi alla mondovisione. Si è presentato solo alla sua diocesi, alla città di Roma, e non a caso ha fatto il nome del suo vicario per la città, il cardinal Vallini, volendolo accanto a sé sul balcone. Questo è molto importante. Mostra infatti che le indicazioni del Vaticano II e soprattutto del Nuovo Testamento sono quanto mai chiare a papa Francesco I. Da papa egli vuole anzitutto essere un vescovo, il vescovo di una città, e anzi sa che può essere veramente papa in fedeltà al Vangelo e al Vaticano II solo nella misura in cui non cesserà mai di essere vescovo, cioè una guida concreta a contatto con i problemi reali della gente reale.
Bergoglio è un gesuita, è mite e insieme austero, amante della semplicità, della povertà, di una vita all’insegna dell’essenziale, privo di decorazioni barocche e dal linguaggio semplice e asciutto. Assomiglia molto a Carlo Maria Martini, di cui certamente era amico. E forse quei 200 anni con cui Martini nella sua ultima profetica intervista dell’8 agosto scorso segnò la distanza tra la Chiesa e il mondo («la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni») con Francesco I sono destinati a essere colmati

E' la migliore scelta possibile, ora non accetti compromessi


intervista ad Hans Kung, la Repubblica, 14 marzo 2013


«Sono felice, è la migliore scelta possibile, conosce e ama la vita semplice, umile, reale, è esterno al sistema romano della Curia. Spero che vari le riforme necessarie, e in un radicale rimpasto ai vertici come primo segnale». Il professor Hans Küng, massimo teologo cattolico critico oggi, esulta, sembra parlare di una possibile perestrojka vaticana.

Professor Küng, che ne dice?
«Sono felice. La scelta di quest’uomo, proprio lui, a sorpresa, è una vera scelta di qualità».

Cioè anche meglio dei previsti papabili riformatori?
«Sì, insisto, è la scelta migliore. Primo, è un latinoamericano, e di questo sono molto felice. Non solo: è anche un latinoamericano dalle vedute aperte. È un gesuita, che sicuramente dispone di una formazione e preparazione teologica molto solida. È un uomo che ha sempre condotto una vita semplice, non in grandi e sontuosi palazzi di potere. Un uomo abituato ad andare tra i fedeli anche a piedi scalzi, col bastone di pastore. Già con i primi gesti ha dato consigli e segnali: non ha chiesto né cercato applausi trionfali né parole pompose, bensì preghiera in silenzio».

Cioè anche un buon esordio?
«Sì, appunto, un esordio ben riuscito con segnali giusti. E infine, ma non ultimo, trovo significativa la scelta del nome: Francesco ».

Ecco, lei come la interpreta?
«Un cardinale che nel mondo d’oggi e sullo sfondo della grave crisi della Chiesa sceglie non nomi che richiamino suoi predecessori recenti, bensì proprio questo nome, sa esattamente di richiamarsi e riferirsi a San Francesco d’Assisi. Francesco d’Assisi fu l’alternativa al programma della Chiesa vista e vissuta come potere. Fu l’antitesi del più grande e importante Papa di potere del Medioevo, Innocenzo III, il quale incarnava la Chiesa del potere: Francesco visse e testimoniò la Chiesa degli uomini semplici, dei poveri, dei modesti. Spero solo che Francesco possa veramente realizzare nella Chiesa e nel rapporto tra la Chiesa e il mondo tutto quanto sicuramente si propone di fare».

Dunque non è il candidato della Curia?
«Sicuramente no, bensì candidato delle voci progressiste nella Chiesa, inclusi i progressisti tra i cardinali tedeschi».

Che significa per la Chiesa nella sua profonda crisi?
«È la domanda decisiva. La risposta dipende da se e come potrà riuscire a lanciare le riforme. Se e come le riforme necessarie e mancate, accumulatesi nella Chiesa d’oggi, verranno realizzate e s’imporranno, o se invece tutto continuerà come fino ad ora. Se il nuovo Papa le realizzerà, troverà un grande appoggio, ben oltre l’ambito della Chiesa cattolica e dei fedeli. Altrimenti, il grido “indignatevi!” si diffonderà anche all’interno della Chiesa e imporrà riforme dal basso. Io sono per riforme guidate dall’alto, ma ora la scelta è davvero nelle sue mani. La comunità della Chiesa non si accontenterà più di belle parole, la pazienza di molti cattolici è alla fine».

Che cosa lascia prevedere la sua biografia?
«Lascia spazi di speranza. Non nascondo che ha vissuto ai tempi della dittatura militare argentina. Certo non fu facile, come non lo fu vivere degnamente da fedeli in Germania sotto il nazismo. È stato a volte criticato, ma certo si spiegherà. Il punto non è questo, la domanda-chiave è cosa farà per la Chiesa e per il mondo. Se ha davvero lo spirito ecumenico e coinvolgerà le altre Chiese. Se riaprirà le finestre che il suo predecessore ha chiuso, se tornerà alla linea di Giovanni XXIII, allora sarà davvero Francesco I».

Quali potrebbero essere i suoi migliori primi segnali?
«Come segretario di Stato, quale primo segnale, potrebbe scegliere non un rappresentante del sistema romano, bensì una persona pronta alle riforme e dallo spirito ecumenico: non deve per forza essere un cardinale, ma deve essere pronta a realizzare la riforma della Curia. Spero che non vengano fatti compromessi col partito della Curia del tipo “tu sei il Papa ma la Curia resta in mano nostra”».

Vista anche la velocità dell’elezione, quanto è grande questo pericolo?
«Non faccio speculazioni. Indico cinque punti. Primo, il segretario di Stato appunto. Secondo, il nuovo Papa dovrebbe sostituire e non confermare i responsabili dei dicasteri vaticani. E scegliere personalità competenti, anche esterne al Collegio dei cardinali. Terzo, dovrebbe introdurre la collegialità nella Curia, costituire un Gabinetto responsabile di scelte collettive. Quarto, dovrebbe introdurre la collegialità con i vescovi, riattivare il Consiglio dei vescovi come organo decisionale e non solo consultivo. Quinto, dovrebbe vigilare che diocesi, comunità, singoli fedeli, abbiano riconosciuto un diritto di resistenza e critica. È conforme con il Vangelo. E i cattolici in tutto il mondo sono insoddisfatti di questo ritardo delle riforme».

È il punto più difficile?
«Vedremo se avrà la forza necessaria. Le riforme necessarie sono note: ruolo della donna, l’enciclica Humanae Vitae quindi la contraccezione, l’ordinazione di donne, l’ecumenismo con le altre Chiese, l’apertura della Chiesa ai drammi del mondo, dalla morale sessuale in Africa al resto».

Il primo Papa non europeo rafforzerà o indebolirà la Chiesa europea in crisi?
«Può solo aiutarla. I problemi della Chiesa, dal celibato alla crisi delle vocazioni, sono problemi mondiali. Cerchiamo di essere felici che un Papa extraeuropeo apra nuove prospettive».

Cercherà dialogo e incontro con lui?
«Non è la cosa più importante, deve occuparsi della Chiesa».

Epoché

I facili entusiasmi sono del tutto inopportuni per chi, come me, è giunto alla soglia dei cinquant’anni. Anche io, sia chiaro, mi sono commosso davanti al teleschermo; ma a qualche ora di distanza la riflessione si fa più cauta e non condizionata dall’emotività.
Anche Wojtyla iniziò in maniera splendida il suo pontificato con quel “Se mi sbaglio mi corigerete”; peccato, però, che poi non diede ad alcuno questa possibilità, men che meno ai teologi più progressisti, espulsi uno a uno. E anche il pontificato di Ratzinger iniziò sotto i migliori auspici se si rammenta che nel settembre 2005 il papa teologo volle incontrare Hans Kung, cacciato da Wojtyla nel 1979 e mai più ricevuto in Vaticano; peccato, però, che poi siano seguiti i lefebvriani, la messa in latino, i valori non negoziabili.
Occorre, perciò, sospendere il giudizio: quello che vale questo pontefice lo vedremo nei prossimi mesi. E non attraverso i discorsi ufficiali pronunciati nel corso di eventi trasmessi in mondovisione ma attraverso quegli atti che non assurgono agli onori della cronaca, riportati solo dalla stampa specializzata; lo vedremo attraverso le prime nomine episcopali, attraverso la piega che prenderà il dialogo con i lefebvriani, attraverso l’atteggiamento della Santa Sede nei confronti dei parroci austriaci e delle suore americane.
Per il momento, mi è sembrato un sogno vedere un pontefice che alla sua prima apparizione pubblica invece di sollecitare l’applauso della piazza invita il popolo alla preghiera, si qualifica come vescovo di Roma e non come papa, chiede a capo chino la benedizione dei fedeli, attribuisce alla Chiesa di Roma il primato della carità, si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà. E mi è sembrato un sogno anche sentirgli dire “E adesso incominciamo questo cammino, vescovo e popolo, vescovo e popolo”; mi ha ricordato Giovanni XXIII quando diceva “La mia persona conta niente; è un fratello che vi parla, un fratello diventato padre per volontà di Nostro Signore. Ma tutto insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Tutto, tutto.”  Un sogno bellissimo, dal quale non vorrei essere costretto a svegliarmi.
Preghiamo, dunque, affinché che lo Spirito Santo assista lui e noi nel mettere mano a quella riforma della Chiesa auspicata dal Concilio Vaticano II e ancora tutta da compiere.

14.3.2013

Pietro Urciuoli

lunedì 11 marzo 2013

Istigazione a riflettere n. 4

Se la sorpresa è stata generale, il passa-parola che ha attraversato la cattolicità dopo l’uscita di scena di Benedetto XVI è stato “per il bene della chiesa”: è il motivo ricorrente dalla dichiarazione iniziale dell’11 febbraio fino agli ultimi interventi del Pontefice. E così, un evento storico imprevisto e decisivo  tende a dissolversi in bolla emotiva o in solidarietà spirituale: una opportunità di ripensamento del papato si trasforma in occasione di abituale trionfalismo e di “papolatria”, come direbbe non Lutero ma un mio grande confratello domenicano, P.Y Congar. Come dire “il re è nudo” viva il re! La spettacolarità e il sensazionalismo di questi giorni inducono a relegare sullo sfondo i problemi reali che questa rinuncia fa emergere, e che richiedono invece un discernimento meno  distratto e più  partecipe.

Alberto Bruno Simoni

da Koinonia-forum n. 337 del 11.3.2013

giovedì 7 marzo 2013

Conclave, non solo un nome

di Aldo Maria Valli in Vino nuovo, 7 marzo 2013

Forse per la prima volta nella storia della Chiesa, si va verso un conclave discutendo della forma stessa del pontificato e del governo centrale della Chiesa In Vaticano (ovvero al cardinale camerlengo Tarcisio Bertone) non è piaciuta la conferenza stampa
tenuta dai cardinali statunitensi al Collegio Nordamericano di Roma il 5 marzo. E così il successivo appuntamento con i giornalisti, previsto ieri, è stato frettolosamente annullato.
È un sintomo del nervosismo e delle divisioni fra i cardinali. Quelli a stelle e strisce non hanno mai accettato il calendario accelerato voluto dal camerlengo e da molti fra gli uomini di curia. È necessario, hanno fatto sapere, prendersi tutto il tempo necessario per discutere con calma, specie alla luce dello scandalo Vatileaks e delle vicende riguardanti lo Ior. Su questa linea molti fra gli stranieri, soprattutto fra coloro che vivono molto lontano da Roma. A questi cardinali sono arrivate solo voci di seconda o terza mano sugli avvenimenti degli ultimi mesi, e ora vogliono vederci chiaro, anche parlando a tu per tu con i tre cardinali che hanno fatto parte della commissione d'inchiesta, ovvero Herranz, Tomko e De Giorgi. Inoltre i non curiali sono convinti che sia arrivato il momento di impostare una riflessione seria sul governo centrale della Chiesa in relazione con gli
episcopati locali. Non si tratta soltanto di scegliere il nuovo papa, ma di chiarire che cosa deve
essere il papato. E il momento per farlo è proprio questo.
A questo proposito è interessante il commento pubblicato sul suo blog Teología sin censura dal teologo spagnolo José María Castillo: «Chiaramente, nessuno mette in dubbio che sia importante analizzare, giudicare e valorizzare i punti deboli e quelli di forza del pontificato di Ratzinger. E ovviamente nessuno mette in dubbio che è ancora più importante proporre e saper scegliere l'uomo più competente che, in questo momento, dovrebbe occupare l'incarico di sommo pontefice. Tutto ciò, nessuno lo contesta, è di enorme interesse. Però, per fondamentale che sia giudicare le persone, tanto del passato come del possibile futuro immediato, nessuno può mettere in dubbio, credo, che è molto più importante soffermarsi a pensare cosa rappresenta, e cosa dovrebbe rappresentare, non questo o quell'altro papa, ma quello che realmente è e fa l'istituzione che, di fatto, è il papato, così come è organizzata, come funziona, come è gestita, sia quale sia il papa che l'ha presieduta o che la può presiedere».
Forse per la prima volta nella storia della Chiesa, si va verso un conclave discutendo della forma stessa del pontificato e del governo centrale della Chiesa. Come si chiede Castillo, siamo proprio sicuri che «la cosa migliore per la Chiesa sia che tutto il potere di governo di un'istituzione, alla quale fanno riferimento più di mille e duecento milioni di esseri umani, sia concentrato in un solo uomo, senza altre limitazione di quelle impostegli dalle proprie idee? Secondo quanto disposto dal vigente Codice di diritto canonico, è così che è pensato e regolato, e così funziona, il papato (can. 331, 333, 1404, 1372). Perché, tra le altre cose, il papa sceglie chi deve rivestire tutti gli incarichi della Curia. Rimuove e sceglie cardinali, vescovi e cariche ecclesiastiche di altro tipo. E fa tutto questo senza dover dare spiegazioni a nessuno e senza che nessuno gliene possa chiedere conto. E tutto questo a prescindere da chi sia il papa regnante, dalla sua età, dal suo stato di salute, dalla sua mentalità, dalle sue preferenze e persino dalle sue possibili manie». Ora, è pensabile che questo modello possa ancora reggere nel confronto con la società contemporanea?
«I cardinali in congregazione parlino con sincerità, senza strategie e tattiche: non nascondano i problemi che ci sono nella Chiesa e le persone che eventualmente hanno tenuto comportamenti non idonei», ha raccomandato il priore della comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi, avvicinato dai giornalisti davanti all'ingresso dell'Aula del sinodo, dove si tengono le congregazioni generali.
Bianchi ha chiesto ai porporati di «cercare davvero un uomo di Dio, che vuole servire il Signore e parlare agli uomini con grande misericordia», perché questa «è l'ora della misericordia ma anche quella di risolvere tanti problemi all'interno della Chiesa, affinché ci sia una maggiore unità e pace».
Di questa esigenza, tra i curiali, si è fatto interprete il cardinale Kasper, che è uscito allo scoperto con coraggio. «Questo è il tempo di una lunga riflessione. Le cose andranno diversamente rispetto a quando venne eletto Joseph Ratzinger nel 2005. Questo Conclave va preparato con calma. Fra noi cardinali quasi non ci conosciamo. Non c'è fretta, l'extra omnes può attendere per ora», ha detto alla Repubblica. Per Kasper la riforma della curia «è una priorità, ma insieme è una grande problema, perché oggi alla curia romana manca il dialogo interno. I dicasteri non si parlano, non c'è comunicazione. E questo stato di cose va cambiato». La curia, «al di là di quanto emerge con Vatileaks, va rivoluzionata. E ritengo che oltre alla parola riforma occorra usarne una seconda: trasparenza. La curia deve iniziare ad aprirsi».
I cardinali vogliono anche sapere dai vertici della Santa Sede se la vicenda del brusco allontanamento di Ettore Gotti Tedeschi dallo Ior
Davvero non è un pre-conclave come gli altri.

martedì 5 marzo 2013

Se il Conclave aprisse le porte alla primavera della Chiesa

di Hans Kung, 4 marzo 2013


La primavera araba ha scosso dalle fondamenta una serie di regimi autocratici. Le dimissioni di papa Benedetto XVI apriranno la strada a qualcosa di simile nella Chiesa cattolica: una Primavera Vaticana? Ovviamente il sistema della Chiesa cattolica più che alla Tunisia o all’Egitto assomiglia a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita. In tutt’e due i casi non è stata fatta nessuna riforma autentica, solo concessioni minori. In tutt’e due i casi l’assenza di riforme viene giustificata con il rispetto della tradizione: in Arabia Saudita la tradizione risale solo a due secoli fa, per il papato è vecchia di duemila anni. Ma è autentica, questa tradizione? In realtà per un millennio la Chiesa andò avanti senza un papato assolutista come quello che conosciamo oggi.

Fu solo nell’XI secolo che una «rivoluzione dall’alto», la Riforma gregoriana avviata da papa Gregorio VII, introdusse i tre aspetti perduranti del sistema cattolico: un papato centralista e assolutista, un clericalismo forzato e l’obbligo del celibato per i preti e altri membri laici del clero. Gli sforzi dei concili riformatori del XV secolo, la Riforma protestante del XVI secolo, l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese nel XVII e XVIII secolo e il liberalismo del XIX secolo ebbero un successo solo parziale. Perfino il Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965, fu frenato dal potere della Curia.Ancora oggi la Curia, che nella sua forma attuale sembra un prodotto dell’XI secolo, è l’ostacolo principale a qualsiasi tentativo di riforma generale della Chiesa cattolica, a qualsiasi intesa ecumenica sincera con le altre Chiese cristiane e le altre religioni mondiali, e a qualsiasi atteggiamento critico costruttivo nei confronti del mondo moderno.

Nel 2005, in una delle sue poche iniziative audaci, papa Benedetto ebbe per quattro ore un’amichevole conversazione con il sottoscritto, nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo. Ero stato suo collega all’Università di Tubinga, e anche il suo critico più severo. Per 22 anni, a causa della revoca della mia autorizzazione all’insegnamento ecclesiastico per aver criticato l’infallibilità papale, non avevamo avuto il minimo contatto. Prima dell’incontro, avevamo deciso di mettere da parte le nostre divergenze e di discutere di argomenti su cui potevamo trovare un’intesa: il rapporto positivo fra la fede cristiana e la scienza, il dialogo fra religioni e civiltà e il consenso etico fra fedi e ideologie diverse.

Per me, e per l’intero mondo cattolico, quell’incontro fu un segnale di speranza. Purtroppo, però, il pontificato di Benedetto XVI è stato caratterizzato da disastri e decisioni sbagliate. Papa Ratzinger ha fatto irritare le Chiese protestanti, gli ebrei, i musulmani, gli indios latinoamericani, le donne, i teologi riformisti e tutti i cattolici progressisti. I grandi scandali intervenuti durante il suo pontificato sono ben noti: il riconoscimento della Società di San Pio X, l’organizzazione dell’arcivescovo ultraconservatore Marcel Lefebvre, ferocemente contrario al Concilio Vaticano II, e del vescovo negazionista Richard Williamson. Poi ci sono stati i tanti abusi sessuali a danni di bambini e ragazzi perpetrati da membri del clero, di cui il Papa porta gravi responsabilità per averli insabbiati quando era cardinale. E poi c’è stato l’affaire Vatileaks che sembra sia una delle ragioni che hanno maggiormente contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni.

Il primo caso di dimissioni papali in quasi settecento anni mette a nudo la crisi di fondo che incombe da tempo su una Chiesa fossilizzata. E ora il mondo intero si chiede: il prossimo Papa potrebbe riuscire, nonostante tutto, a inaugurare una nuova primavera per la Chiesa cattolica? Le disperate necessità della Chiesa non possono essere ignorate. C’è una catastrofica carenza di preti, in Europa, in America Latina e in Africa. Tantissime persone hanno lasciato la Chiesa o hanno effettuato un’«emigrazione interna», specialmente nei Paesi industrializzati. Dietro la facciata, il palazzo si sta sgretolando.
In questa drammatica situazione la Chiesa ha bisogno di un Papa che non viva intellettualmente nel Medioevo, che non si faccia portabandiera di teologie, liturgie o costituzioni della Chiesa che risalgono a quell’epoca. Ha bisogno di un Papa aperto alle problematiche poste dalla Riforma, dalla modernità. Un Papa che sostenga la libertà della Chiesa nel mondo non solo impartendo sermoni, ma combattendo con le parole e con i fatti per la libertà e i diritti umani all’interno della Chiesa, per i teologi, per le donne, per tutti i cattolici che vogliono esprimere la verità apertamente. Un Papa che non costringa più i vescovi a sottomettersi a una linea reazionaria, che metta in pratica una democrazia vera nella Chiesa, modellata su quella del cristianesimo degli albori. Un Papa che non si lasci influenzare da un «Papa-ombra» stanziato in Vaticano, quale sarà Benedetto XVI con i suoi fedeli seguaci.

Il Paese di origine del nuovo Papa non ha molta importanza. Sfortunatamente, dai tempi di Giovanni Paolo II è in uso un questionario per costringere tutti i vescovi a seguire la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica sulle questioni controverse, una procedura suggellata da un voto di obbedienza incondizionata al Papa. Per questo finora non c’è stato nessun dissenso pubblico fra i vescovi. Eppure la gerarchia cattolica è a conoscenza della distanza che la separa dalla gente comune su questioni importanti. In un recente sondaggio, in Germania, è venuto fuori che l’85 per cento dei cattolici è favorevole a eliminare il celibato dei preti, il 79 per cento è favorevole a consentire che le persone divorziate possano risposarsi in Chiesa e il 75 per cento è favorevole al sacerdozio femminile. In molti altri Paesi probabilmente le percentuali sono simili.

Queste problematiche devono essere discusse pubblicamente, prima e durante il conclave, senza imbavagliare i cardinali come successe nel 2005, per tenerli in riga. Io, che sono l’ultimo teologo ancora in attività (oltre a Benedetto XVI) ad aver preso parte al Concilio Vaticano II, mi chiedo se non ci sarà all’inizio del conclave, come ci fu all’inizio del Concilio, un gruppo di cardinali coraggiosi disposto ad affrontare a viso aperto la fazione intransigente della Chiesa, e pretendere un candidato che sia disposto ad avventurarsi lungo strade nuove, magari con un nuovo Concilio riformatore o, meglio ancora, con un’assemblea rappresentativa di vescovi, preti e gente comune? Se il prossimo conclave dovesse eleggere un Papa che andrà avanti per la stessa vecchia strada, la Chiesa non conoscerà mai una nuova primavera: al contrario, precipiterà in una nuova era glaciale e correrà il pericolo di ridursi a una setta sempre più irrilevante.
Hans Kung