Pagine

martedì 16 ottobre 2012

Fratello padre, sorella madre

Sarà che oggi ho grosso modo la stessa età che avrà avuto Pietro di Bernardone quando Francesco decise di cambiare vita, sarà che anche io mi chiamo Pietro e che ho pure un figlio che si chiama Francesco … ma quello che è considerato come il momento culminante della conversione di Francesco d’Assisi suscita in me motivi di riflessione nuovi rispetto al passato: mi riferisco al famoso episodio della spoliazione di Francesco dinanzi al vescovo di Assisi, quando restituendo le vesti a suo padre pronuncia le famose parole: “D’ora in poi non dirò più padre mio Pietro di Bernardone ma Padre nostro che sei nei cieli”.
È uno dei momenti decisivi nella vita di Francesco, carico di un profondo significato simbolico: lo sposalizio solenne, definitivo e pubblico di Francesco con Madonna Povertà. Tuttavia, oggi – scherzi dell’età –  immaginando la scena il mio pensiero va istintivamente non a Francesco ma a suo padre che nel dramma che si andava rappresentando in quella piazza aveva solo un ruolo da comprimario; il ruolo del cattivo, per la precisione.
Io oggi mi chiedo se c’era bisogno di tutta quella teatralità; a Francesco non sarebbe bastato semplicemente andarsene di casa, in silenzio, magari nel cuore della notte, come aveva fatto chissà quante altre volte per scopi meno nobili, risparmiando a suo padre un dileggio pubblico forse eccessivo per le sue pur numerose colpe? E mi chiedo anche se Pietro di Bernardone fosse veramente così avido e insensibile come viene descritto dagli agiografi o se piuttosto si tratti del solito artificio letterario per esaltare la generosità d’animo di Francesco. E soprattutto mi chiedo se l’atteggiamento di Francesco fosse del tutto immune da una certa ostentazione, da un certo autocompiacimento; le sue parole hanno una grande carica spirituale ma sanno anche di sfida, di provocazione, un atteggiamento che non avrà mai più nel corso della sua vita, neanche davanti al Sultano.
Forse una possibile risposta a queste domande va ricercata nel fatto che allora Francesco era un baldanzoso giovane di vent’anni, si sentiva ancora un cavaliere destinato a gesta eroiche e un cavaliere ha bisogno di una consacrazione adeguata per essere veramente tale. Le sue parole – sante ma anche terribili come tutte le parole di ripudio – sembrano quelle del giuramento di un cavaliere nell’atto dell’investitura. Quel giorno, forse, doveva necessariamente andare così.
Ma allora mi chiedo perché questo strappo non si sia più ricucito giacché, almeno per quanto ne sappiamo, Francesco non cercò mai una riconciliazione, neanche negli ultimi anni della sua esistenza. Eppure il tempo trascorso e le sofferenze che neanche a lui la vita aveva risparmiato avrebbero dovuto indurlo a ripensare con maggior comprensione alla figura del padre e al dolore che inevitabilmente la sua scelta di vita gli aveva procurato.
Tante domande alle quali, come spesso succede, non c’è risposta. Domande forse addirittura oziose, alle quali non è estranea un’istintiva compassione per un pari età. Un fatto però è certo: Francesco, l’uomo della fratellanza universale, ha chiamato “fratello” finanche un animale feroce ma non suo padre, “sorella” finanche la morte ma non sua madre; “fratello padre, sorella madre” sono le uniche parole d’amore che non ha mai pronunciato.
Tuttavia, in questi giorni di ottobre in cui viene proposto alla devozione dei fedeli come il “più santo degli italiani e il più italiano dei santi”, io trovo in questa sua umanissima incapacità di superare l’eterno conflitto generazionale un ulteriore motivo per amarlo.

Pietro Urciuoli
Ecclesiaspiritualis.blogspot.it

Sostiene Guglielmo n. 3

Sostiene Guglielmo, apertis verbis, che l'origine di tutti i mali della Chiesa è l'esercizio dispotico del potere papale. E con tipico humor inglese muta l'espressione plenitudo potestatis in plenitudo pravitatis.

Guglielmo da Ockham, Breviloquium de principatu tyrannico

lunedì 8 ottobre 2012

In attesa dei frutti del Concilio

da Adista Segni nuovi n. 36 - 13 Ottobre 2012


L'11 ottobre 2012 ricorrono cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Come si sa, il Concilio ecumenico è l’assemblea di tutti i vescovi cattolici del mondo, convocati dal papa per affrontare e risolvere con lui i problemi dottrinali e vitali più importanti. Il primo Concilio si era riunito a Nicea, presso Costantinopoli, nell’anno 325. L’ultimo, il ventesimo, era stato convocato da Pio IX a Roma (e per questo denominato Vaticano I) nel 1869 e sospeso nel luglio del 1870 (in previsione dell’arrivo delle truppe italiane, che entrarono difatti a Porta Pia il 20 settembre), con la definizione del primato e dell’infallibilità del papa, quando parla come papa («ex cathedra»). Papa Giovanni XXIII, sollecitato dai suoi interessi giovanili e dalle conoscenze varie del suo servizio diplomatico (in Bulgaria, a Costantinopoli, a Parigi) decise, all’insaputa di tutti, di convocare un Concilio e di presentarlo non come «dogmatico» (cioè che proclama le verità di fede, scomunicando chi non le accetta), ma «pastorale», che si preoccupasse cioè di presentare quelle verità in modo comprensibile e adeguato all’umanità del nostro tempo. E questo non rende il Concilio pastorale meno autorevole del dogmatico, anzi lo valorizza, perché una verità di fede non raggiunge pienamente il suo scopo se non quando viene accolta e vissuta.
Tale aspetto qualifica il Concilio Vaticano II come un richiamo alla responsabilità specifica dei cristiani e delle comunità; ed è evidente, se consideriamo i quattro documenti conciliari, le Costituzioni.
Così la prima, sulla liturgia (il titolo viene dalle prime parole del testo latino, Sacrosanctum Concilium), ci fa scoprire nella messa non solo l’atto misterioso – a cui “si assisteva” – della transustanziazione, cioè del cambiamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo, bensì la presenza di Cristo nella sua eterna offerta pasquale, a cui «si partecipa», ricevendo lo Spirito Santo che alimenta così la nostra vita cristiana. La Bibbia (Costituzione Dei Verbum) non è tanto un deposito di verità a cui attingere per la nostra teologia, bensì la parola viva che Dio continua a rivolgere alla sua Chiesa e ad ogni cristiano per aprirli al suo amore.
Le altre due Costituzioni sono state indicate come «rivoluzioni copernicane», nel senso che come l’astronomo polacco Copernico dimostrò che non è il Sole a girare intorno alla Terra ma la Terra intorno al Sole, così quanto sembrava primario si rivela funzionale e viceversa. E in realtà la Chiesa nel mondo contemporaneo (Costituzione Gaudium et spes) riconosce che non è l’umanità subordinata alla Chiesa, ma è la Chiesa al servizio dell’umanità; e nella Chiesa in sé (Costituzione Lumen gentium) prima ancora di un laicato subordinato alla gerarchia, vi è un primato del popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio (in latino: ministerium).
Già da qui si evidenzia che, se con Benedetto XVI consentiamo che nella Chiesa v’è una «continuità» dogmatica (non è stato definito alcun nuovo dogma, al massimo ne sono stati richiamati alcuni trascurati, come l’universalità dell’offerta di salvezza o la collegialità, o collaborazione dei vescovi col papa), vi è stata però una forte «discontinuità» pastorale, col richiamo appunto della responsabilità personale, nella formazione cristiana e nell’agire ecclesiale.
Dobbiamo riconoscere che l’entusiasmo e la spinta dei tempi del Concilio e delle speranze immediate si sono affievoliti, un po’ per la maggiore difficoltà di una maturazione comunitaria nei confronti di strutture gestite autoritativamente (a tutti i livelli), un po’ per alcuni eccessi realizzati negli anni ‘68-‘69 che hanno indotto chi era in allarme per i cambiamenti a bloccare tutto (e forse, come dicono i tedeschi, insieme all’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino).
Una lezione comunque che abbiamo ricevuto da questo Concilio è che la tradizione non equivale alla fissazione del passato, bensì, secondo l’etimologia (tradere è trasmettere, tradizione è trasmissione), è «aggiornare», secondo la formulazione di papa Giovanni, è dire le verità di sempre in modo adatto al giorno d’oggi.
Diceva padre Congar – poi diventato cardinale – che un Concilio ottiene i frutti più pieni dopo cinquant’anni. Preghiamo il Signore che sia proprio così!

mons. Luigi Bettazzi