Pagine

giovedì 14 agosto 2014

Francesco d'Assisi secondo Ernesto Buonaiuti

Nell’imponente produzione di Ernesto Buonaiuti (1881-1946) un posto di primaria importanza occupano le opere dedicate alla storia del cristianesimo tardo medievale, un filone di ricerca avviato nel 1925 in coincidenza di un corso accademico sui rapporti tra spiritualità gioachimita e movimento francescano[1].
Si trattava di anni molto travagliati per Buonaiuti, anni nei quali si erano andati sempre più inasprendo quei contrasti con il Vaticano che sarebbero culminati con la sospensione a divinis e la scomunica expresse vitandus del 25 gennaio 1926.
Il suo Francesco d’Assisi venne pubblicato nel 1925 per le edizioni Formiggini nella collana “Profili” e come molti altri suoi lavori venne posto all’Indice dal Sant’Uffizio. Trattasi di un testo molto breve, senza pretese di rigore storico ma non per questo meramente divulgativo, il cui scopo è offrire al lettore - in linea con l’obiettivo della collana nella quale è inserito - un profilo cursorio ma essenziale del frate di Assisi[2].
L’opera di Ernesto Buonaiuti risente certamente, così come altre pubblicate in quel medesimo periodo in concomitanza del settimo centenario della morte di san Francesco, della lezione di Paul Sabatier[3]. Tuttavia ciò non sminuisce affatto il contributo del Buonaiuti che si distingue per l’originalità e la lucidità con cui vengono tratteggiati i passaggi fondamentali della vita di Francesco di Assisi.
La sua conversione, ad esempio. Per Buonaiuti «La conversione di Francesco non poteva essere l’adesione intellettuale riflessa ad una fede religiosa per lo innanzi disconosciuta. Egli non aveva mai rinnegato il simbolo del suo battesimo e non si era mai pubblicamente allontanato dalle pratiche devozionali dei suoi conterranei. Le sue esuberanze giovanili non erano nulla di più grave e di più indecoroso di tutto quello che ogni chiesa ufficialmente costituita perdona generosamente alla sua gioventù. […] Francesco si è convertito piuttosto il giorno in cui, di contro a tutto il ciarpame vuoto e pesante delle convenzioni umane, delle menzogne sociali, delle ipocrisie sanzionate, dei gretti interessi materiali che avvelenano le anime, offuscano i rapporti fraterni, stravolgono e contraffanno le leggi spontanee e primitive della vita associata, ha riguadagnato, di questa vita associata, l’economia spontanea e il tessuto elementare, nel precetto dell’amore e nel dovere del pronto, sorridente sacrificio. Quel giorno, annullando quell’artefatta inversione di valori che è alle scaturigini e alla base della associazione pubblica ed economica degli uomini, ed invertendola a propria volta, ha ritrovato la genuina gerarchia di valori che la vita cosmica impone a una creatura ragionevole che sogni attuare, nella pienezza delle sue energie specifiche, il proprio spirituale destino»[4].
Francesco realizza così, con i primi frati che si riuniscono intorno a lui, un modello di vita religiosa completamente nuovo, in grado di intercettare la diffusa domanda di genuinità evangelica del laicato del suo tempo senza per questo entrare in aperto contrasto con la Chiesa istituzionale: «Altri, prima di Francesco, avevano tentato di dare espressione concreta al disagio gravoso in cui la ibrida costituzione politico-religiosa della Chiesa, tratta dalla mole stessa dei suoi interessi e dal groviglio delle sue interferenze terrene a tutti gli adattamenti e a tutte le complicità, gettava gli spiriti più sensibili e le anime più timorate. Ma il superamento delle barriere concettuali e disciplinari, in cui la tradizione e l’istinto di conservazione cercano di tenere mortificato e frenato lo spirito fermentante della libertà cristiana, non era stato in essi deciso e trionfale. Non aveva cioè raggiunto quella stupenda condizione di assoluta e olimpica tranquillità nella quale non appare più necessario insorgere positivamente contro le forme consuetudinarie della mediocrità spirituale per abbatterle, appare invece sufficiente svuotarle di contenuto nell’atto stesso in cui le si accettano o le si tollerano»[5].
Tuttavia, nonostante i buoni propositi di Francesco e compagni, i contrasti con la gerarchia ecclesiastica non si fanno attendere. A tal proposito Buonaiuti osserva che la Chiesa istituzionale se, per un verso, ha bisogno che periodicamente nascano nuclei spontanei in grado di mostrare alla cristianità che quello evangelico non è un astratto e irrealizzabile ideale, per altro verso tende a controllarne l’espansione e l’incidenza affinché tali nuclei «non escano dalle proporzioni di minoranze infinitesimali, viventi ai margini della grande collettività esteriormente credente o non si atteggino a mentori troppo petulanti e a giudici troppo intransigenti degli accomodamenti, delle acquiescenze e delle transazioni ufficiali»[6]. E ancora: «Le insigni innovazioni della libera spiritualità cristiana nel mondo delle tradizioni e delle discipline costituite non possono acclimatarsi senza provocare l’ostilità rabbiosa e cieca del misoneismo farisaico, di cui vive la massa di tutte le istituzioni sociali. Molti, in curia, dovevano avere terribilmente a fastidio questa fraternità costituitasi intorno a Francesco, che non aveva sedi fisse e ordinamenti ben chiari; che girovagava liberamente per i comuni e le campagne d’Italia, praticando e bandendo il Vangelo in una maniera che lasciava praticamente in non cale la gerarchia, i suoi poteri e le sue consuetudini»[7].
Un contrasto che diviene insanabile negli anni della elaborazione normativa dell’Ordine dei Minori, tra il 1221 e il 1223: «Quale valore pertanto egli avrebbe potuto assegnare ai tentativi, da qualunque parte venissero, di codificare e di stilizzare in aride formule prescrittive quella che ai suoi occhi doveva restare una pura attitudine di spiriti votati all’ideale dell’universale fraternità nella pace e nella gioia? Il codice della perfezione, quale egli lo aveva vagheggiato e quale voleva fosse con pari fervore bramato dai suoi amici era, tutto, nei pochi incisi neotestamentari ch’egli aveva sottoposto all’esame sbigottito di Innocenzo III. Ogni loro ampliamento esegetico importava una depauperazione; ogni clausola di commento e di specificazione significava un abbassamento»[8]. Un cambiamento di paradigma – da fraternitas a ordo – i cui risvolti psicologici in Francesco di Assisi non sfuggono al Buonaiuti: «Attraverso le angosciose ore della sua ineffabile tragedia Francesco dovette convincersi suo malgrado che il compito di salvare senza un’ombra di concessione l’idealità che aveva alimentato il sogno della “conversione” era superiore alle sue forze; o meglio, che era al di là delle capacità ricettive della vita associata, che il suo fascino e la sua parola avevano cementato. E allora, affinché qualcosa potesse pur sopravvivere del suo iniziale programma volle riservare ad ogni costo a sé medesimo l’onere di compilare ed allestire le regole che le pressioni della curia ormai impietosamente esigevano»[9].
Il cammino della istituzionalizzazione è ormai inevitabilmente aperto e viene percorso con sempre maggiore decisione già all’indomani della morte di Francesco: «La mattina dopo la venerata salma era trasportata senza indugio, per volontà di frate Elia, ad Assisi. Cominciava la triste odissea dell’ideale francescano. Ché gli uomini san trovare un magnifico diversivo alla loro congeniale neghittosità e al loro funzionale fariseismo avvolgendo negli incensi della loro devozione le figure d’eccezione che avrebbero voluto invece unicamente trasformare e innalzare il tenore della loro vita. L’ordine, già sfuggito alla direzione effettiva di Francesco, si accingeva a battere, con ritmo accelerato, la via della consacrazione ufficiale nella chiesa e nel mondo. Francesco aveva sognato i fratelli messaggeri umili e poveri di pace e di perdono: l’ordine avrebbe innalzato dovunque le sedi stabili del suo magistero. Francesco aveva maledetto il fratello che a Bologna aveva per primo sanzionato la contaminazione della scienza con l’idealità minoritica: l’ordine sarebbe entrato a vele spiegate nell’insegnamento accademico. Francesco aveva deprecato ogni privilegio curiale: l’ordine avrebbe questuato a Roma le bolle del suo ambiguo e clandestino arricchimento. Francesco aveva prescritto la povertà dell’arredamento e della suppellettile sacra: Elia avrebbe dedicato alla sua memoria un monumento senza pari»[10].
Tutto è perduto, quindi, dell’originario messaggio di Francesco? Niente affatto. «Francesco d’Assisi aveva praticato la superiore economia dello spirito, risollevando in pieno la sublime semplicità della vita evangelica. Ma non appena la sua idealità si era concretata in una forma di vita associata la sua purezza sembrava essersi offuscata e il suo ardore impedito. I risultati dell’esperienza da Lui incarnata non sono stati per questo meno imponenti. […] I grandi maestri dell’umanità vivono immortali proprio in virtù del lento, macerante martirio a cui debbono essere sottoposti le loro aspirazioni e il loro programma, per fiorire e fruttificare sul solco arido, ingrato e tardo della vita associata»[11].
In definitiva, Buonaiuti legge nelle vicende del francescanesimo delle origini il contrasto tra Chiesa gerarchica e Chiesa spirituale, istituzione e carisma, sacerdozio e profezia, clericalismo e laicità, un contrasto che si ripropone drammaticamente uguale, nelle sue linee essenziali, a sette secoli di distanza. E proprio alle risposte che Francesco diede a questo contrasto il movimento modernista deve guardare se vuole perseguire l’obiettivo di costruire, come diremmo oggi, non tanto un’altra Chiesa quanto una Chiesa altra.
In tutto questo non sfugga, infine, una forte componente autobiografica; un modello di santità laica vissuta fuori dal tempio non poteva non esercitare un potentissimo richiamo su chi, come Buonaiuti, sentiva di appartenere alla generazione dell’esodo, una generazione protesa nello sforzo di scrollarsi di dosso il peso delle superfetazioni extra-evangeliche ereditate da un ingombrate passato: «In fondo al mio spirito c’era costantemente il presentimento istintivo che ci son trapassi storici i quali impongono alla generazione dell’esodo lunghe, penose, errabonde peregrinazioni. Ed io sentivo di appartenere ad un nucleo di precursori. Altri, dopo di me, avrebbe salutato all’orizzonte il profilo evanescente della terra promessa»[12].

Pietro Urciuoli
agosto 2014



[1] Ernesto Buonaiuti era dal 1919 professore ordinario di Storia del cristianesimo presso l’Università di Roma e sino ad allora si era dedicato alla storia del cristianesimo delle origini. Il corso tenuto nel 1925 sarebbe stato dato alle stampe molti anni più tardi, nel 1958, sulla rivista “Religio” da lui stesso fondata nel 1919 con il titolo Il messaggio gioachimita e la “religio” francescana.
[2] Con l’editore Angelo Fortunato Formiggini, suicida per protesta contro il regime fascista, Buonaiuti ebbe una fruttuosa collaborazione concretizzatasi in altre opere pubblicate nella medesima collana tra cui Gesù, Sant’Agostino, San Paolo, Tommaso d’Aquino e, per la collana “Medaglie”, Alfred Loisy. Sempre nel 1925 Ernesto Buonaiuti pubblicò altri lavori su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo: tra questi Il settimo centenario francescano in “Rivista d’Italia” e Origini cristiane e movimento francescano in “Ricerche Religiose”. La biografia di Francesco di Assisi del Buonaiuti è stata ristampata nel 1997 dalle Edizioni Biblioteca Francescana, con introduzione di Sandra Migliore.
[3] La Vie de Saint François d’Assise pubblicata a Parigi nel 1894 da Paul Sabatier rappresenta sicuramente una pietra miliare nella storia della storiografia francescana. Il Sabatier ha inoltre il merito di aver avviato quell’analisi storico-filologica delle fonti biografiche disponibili su Francesco d’Assisi che va sotto il nome di “questione francescana”.
[4] E. Buonaiuti, Francesco d’Assisi, Ed. Formiggini, Roma 1925, p. 26.
[5] Ivi, p. 30.
[6] Ivi, p. 33.
[7] Ivi, p. 60.
[8] Ivi, p. 63.
[9] Ivi, p. 66.
[10] Ivi, p. 75.
[11] Ivi, p. 77.
[12]E. Buonaiuti, Il pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Ed. Darsena, Roma 1945, p. 111.

lunedì 21 luglio 2014

A proposito di scomuniche

di Franco Barbero, da Adista Segni Nuovi, n. 28/2014

La storia ha ben documentato una sorprendente molteplicità di usi e di abusi dell’istituzione ecclesiastica cattolica. Come cristiano, parto dal fatto che il “Dio benedicente” e la “Chiesa maledicente” spesso sono realtà compresenti. Tra Dio e Chiesa non mi aspetto né continuità né coincidenza territoriale. Questa constatazione è stata sempre per me estremamente liberante. L’alterità di Dio rispetto alla Chiesa mi ha preservato da lacerazioni insanabili quando ho constatato dissonanze, estraneità, tradimenti del Vangelo nella e della istituzione ecclesiastica. Per me “credere” nel Dio di Gesù è gustare la “benedizione creaturale”. Questa è la prima e l'ultima parola della mia fede. Come creature, stiamo tutti nella benedizione: possiamo non riconoscerla, ma essa ci avvolge e ci “assedia”.
Guardo il mondo e la mia piccola vita da questa “finestra”. Senza questa radicale fiducia nella preveniente ed incancellabile realtà del rapporto di benedizione, che circola, anima e percorre tutte le arterie del creato, andrei diritto al suicidio assistito...
Dio non scomunica mai, non si disconnette mai: noi possiamo “chiudere” e fuggire, ma il Suo amore non verrà mai meno. Per questo, molti cristiani e cattolici hanno assaporato la benedizione anche nei giorni in cui arrivava loro la “maledizione-scomunica” ecclesiastica. I miei più saggi maestri li ho sempre trovati non tra i prudenti progressisti, ma tra i censurati e gli estromessi, gli scomunicati, le “streghe”, gli “eretici”, le cattive compagnie.
Mi sono rallegrato delle chiare parole di papa Francesco rispetto ai mafiosi e ritengo che in certi casi estremi la scomunica possa essere una dolorosa necessità (contro i commercianti di carne umana, contro l'impero delle armi...), ma finché resta prerogativa di una autorità sganciata da un confronto comunitario, essa rimane, a mio avviso, esposta all'arbitrio di un vescovo (come nel caso della fondatrice di Noi Siamo Chiesa). Ma c'è di peggio. Oggi la scomunica non manda più al rogo, ma ha assunto un volto aggiornato. Tramite la scomunica o la defenestrazione si mantiene in mani gerarchiche la definizione del “territorio ecclesiale”.
La mia vicenda personale, per quanto irrilevante, mi ha condotto ad alcune riflessioni. La gerarchia scatta, fa pressione, lusinga, minaccia, mette sotto processo e poi scomunica quando vengono messi in crisi il sistema sacral-gerarchico, l'apparato strutturale e la codificazione dogmatica o morale. Nei processi ecclesiastici subiti non mi venne mai chiesto altro che allinearmi ed obbedire. Gli “inviati speciali” da parte della gerarchia usarono tutti i toni possibili. Al mio “persistere nell’errore” conclusero: «Come osi tu, che non conti niente, ergerti contro il monumento cristologico e trinitario della intera tradizione cristiana?». Oppure: «Come puoi incoraggiare il vizio omosessuale?».
Se non sei funzionale alla compattezza istituzionale e se non ti accontenti di criticare qualche aspetto negativo marginale, lì finiscono le tue fortune nell’istituzione ecclesiastica. Credere in Dio e appartenere ad una Chiesa, senza rassegnarti all’obbedienza, costituisce un percorso pericoloso, che porta alla marginalizzazione, all'oblio, alla scomparsa dai “video ecclesiali”. A questo punto o porti nel tuo cuore e nelle tue viscere il calore della “benedizione” di Dio o rischi di imprigionarti nella rabbia, nello sconforto, nell'abbandono di un ministero che dà ossigeno ai tuoi giorni.
Papa Francesco non ha per ora rotto questa catena. La sua tragica ambiguità, a mio avviso, sta in questa doppiezza: scomunica i mafiosi, ma scomunica anche i teologi, le teologhe, i credenti che cercano vie nuove di fedeltà al Vangelo nel mondo di oggi. A mio avviso, se non si rompe questa pratica inquisitoriale, non si va al nodo del problema. Senza la libertà di ricerca, senza la “disobbedienza”, senza nuovi linguaggi la nostra Chiesa esaurirà presto il “vento di speranza e di empatia” che sta soffiando. Qui si tocca l'impianto strutturale e, senza questa “conversione”, nella nostra Chiesa – che noi scomunicati continuiamo ad amare – si ripeteranno per secoli formule venerande confondendo il rispetto e l’amore della tradizione con il tradizionalismo.
Non siamo chiamati/e a ripetere, ma a riscoprire, a dire oggi l’indicibile ed affascinante mistero di Dio.


* Per anni animatore della CdB di Pinerolo; nel 2003 dimesso, senza processo, dallo stato clericale per aver impartito, in chiesa, benedizioni a coppie omosessuali

giovedì 19 giugno 2014

Il limbo, conseguenza "pastorale di una credenza problematica: il peccato originale

di Jacques Neyrinck
in “www.baptises.fr” del 19 giugno 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)
Alcuni brani tratti dal libro di Jacques Neyrinck, Le savoir-croire, ed. Salvator, giugno 2014.


Il Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 e venduto in 700 000 copie in Francia,  definisce così il peccato originale: “Con il suo peccato Adamo, in quanto primo uomo, ha perso la  santità e la giustizia originali che aveva ricevuto da Dio non solo per sé, ma per tutti gli umani. Alla  loro discendenza, Adamo ed Eva hanno trasmesso la natura umana ferita dal loro primo peccato,  quindi privata della santità e giustizia originali. Tale privazione è chiamata “peccato originale”.”
In realtà, nella Bibbia il termine peccato originale non viene menzionato neanche una volta. Non si  tratta quindi di un articolo di fede, ma di una credenza, basata inizialmente su un errore di  traduzione, che si è trasformata in certezza per due millenni. (…)
La formalizzazione del concetto deriva da un'interpretazione dell'epistola ai Romani, di Paolo di  Tarso, da parte di Agostino d'Ippona. Lavorava sulla Vulgata, cioè sulla traduzione in latino del  Nuovo Testamento, originariamente redatto in greco. Secondo quella versione, “tramite Adamo, nel  quale tutti hanno peccato, il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte  si è propagata in tutti gli uomini”, mentre la traduzione corretta sarebbe stata: “tramite Adamo, il  peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte si è propagata in tutti gli  uomini, per il fatto che tutti hanno peccato”. Su questo errore di traduzione si è propagata una  credenza ad un peccato ereditario. (…)
Si scopre l'incoerenza del peccato originale soffermandosi su una prima credenza che ne è derivata,  quella del limbo. Per Agostino, non esiste alcun piano intermedio tra il paradiso e l'inferno: le anime dei bambini non battezzati sono destinate all'inferno. Secondo questa dottrina radicale, bisognava  procedere al battesimo immediato di tutti i bambini, e questa abitudine si è mantenuta fino ad un  passato recentissimo. Invece di una cerimonia che segna l'entrata nella Chiesa di un nuovo cristiano, il battesimo è stato per molto tempo un rito magico per salvare dall'inferno all'ultimo minuto. In  caso di parti difficile, si battezzava immediatamente il neonato che stava morendo. Il senso reale del sacramento fu pervertito a causa di quella credenza.
Per una reazione molto comprensibile a quella dottrina feroce, i teologi del basso Medio Evo  inventarono il limbo dei bambini non battezzati: le loro anime non sarebbero incorse nei tormenti  dell'inferno ma sarebbero state private della felicità del paradiso. Secondo quei teorici del  cristianesimo, benché quei neonati fossero innocenti di qualsiasi peccato personale, la loro natura  fondamentalmente viziata li rendeva impropri alla visione beatifica del paradiso. Il limbo dei  neonati costituì la risposta teologica al problema del destino di quegli innocenti che, senza aver  meritato l'inferno, erano tuttavia esclusi dal paradiso. Bisognava pur metterli da qualche parte. Ma  quella privazione li faceva comunque soffrire? Tommaso d'Aquino (1225-1274) concluse di no,  spiegando faticosamente che l'uomo non soffre per il fatto di non poter volare. Contorsione 
intellettuale che svela l'aberrazione dell'ipotesi iniziale.
Si poneva lo stesso problema insolubile con i giusti nati prima di Cristo. Abramo, Mosè, Davide,  Elia, tutti i patriarchi e i profeti, infettati dal peccato originale, non possono entrare in paradiso  nonostante i loro meriti evidenti. È stato quindi necessario creare un limbo supplementare per loro.  Da qui il plurale “limbi” [ndr.: in francese si usa il termine al plurale]. Se si considera anche il purgatorio, altra invenzione di teologi creativi nel XII secolo, più il paradiso e l'inferno, ne risulta  un aldilà di cinque piani. Se consideriamo il Simbolo apostolico, Gesù visitò tre giorni prima di  Pasqua “gli inferi”, altro concetto proprio dell'Antichità in cui erano raccolti tutti i defunti prima  dell'organizzazione dell'aldilà cristiano, ossia un sesto piano che accoglieva tutti fino a che Pasqua  non costituì l'evento fondativo dell'edificio di cinque piani. Tutto questo armamentario 
concentrazionario non ha alcun senso, perché presuppone che l'eternità sia costituita da un tempo  illimitato con una cesura nell'anno 30 per la liquidazione degli “inferi”.
Alla fine, il 20 aprile 2007, la commissione teologica internazionale della Chiesa cattolica romana  ha dichiarato che il limbo riflette una visione troppo restrittiva della Salvezza e non può essere  considerato come una verità di fede. E la credenza si è spenta da sola nella società civile  contemporanea. Infatti per un contemporaneo, nessuno può essere sanzionato se non per una  violazione alla legge civile da lui stesso commessa. Un contemporaneo non può più aderire ad una fede screditata da una credenza assurda, odiosa e incoerente.
Sarebbe stato logico che quella commissione risalisse dalla credenza derivata a quella del peccato originale. Ma era troppo chiederle di rinunciare a quella credenza cardine del cristianesimo. Il Catechismo “spera che ci sia una via di salvezza per i bambini morti senza battesimo”. Non va oltre, perché significherebbe rinunciare alla credenza al peccato originale. Non è possibile rivedere la  dottrina su un punto che è diventato essenziale, per paura di intaccare la credenza all'infallibilità del  Vaticano. Molti passi del Vangelo mettono in scena un bambino di cui Gesù dice: “Se non  diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. Come avrebbe potuto quel  bambino, non battezzato per definizione, essere presentato come un esempio di innocenza, se fosse  stato realmente infettato dal peccato originale?

giovedì 5 giugno 2014

Una brutta sorpresa: per Bergoglio Calvino è un "boia spirituale"

di Paolo Ricca in “Riforma” - settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e Valdesi – del 6 giugno 2014


Una brutta sorpresa. Davvero brutta. E un’inattesa delusione. Sorpresa e delusione suscitate da  alcune  pagine dell’attuale pontefice sulla Riforma protestante, che purtroppo riproducono i più  logori e grossolani clichés polemici usati dalla Controriforma in tempi lontani per diffamare il  protestantesimo. Mai ci saremmo aspettati di vederli riproposti dal papa «venuto da lontano». 

Queste pagine – già segnalate su Riforma del 16 maggio scorso da una lettera di Carlo Papini, a p.  11 – riproducono una conferenza tenuta dall’allora arcivescovo Bergoglio in Argentina nel 1985, dal titolo: «Chi sono i gesuiti», pubblicata ora in italiano, insieme ad altri due saggi, in un volumetto  uscito nel maggio di quest’anno e preceduto da una introduzione di Antonio Spadaro, direttore di  Civiltà Cattolica (la nota rivista dei gesuiti), già autore di un’ampia e istruttiva intervista all’attuale  pontefice (1).
Ora secondo p. Spadaro, «i due casi concreti» esaminati da Bergoglio nella conferenza ora citata,  cioè la Riforma protestante e la missione latino-americana, «sono due ricchissimi affreschi» (p. 13), i quali «illuminano il lettore sul modo di procedere di Bergoglio come pontefice» (p. 11) – modo di  procedere che, sempre secondo il direttore di Civiltà Cattolica è «fondato su due pilastri: la realtà e  il discernimento» (p. 14). Ora io non so bene che cosa il p. Spadaro e, con lui, papa Francesco  intendano per «realtà». Sono però certo che la «realtà» della Riforma, per quel poco che la conosco, è completamente diversa da quella «affrescata» da Jorge M. Bergoglio.
È vero che le sue pagine risalgono a quasi 30 anni fa. Ma sono state pubblicate tali e quali 30 anni  dopo, in italiano, nel maggio di quest’anno, senza la minima modifica o nota esplicativa, e anzi  presentate come un «ricchissimo affresco».
Sentite quello che il papa, quand’era ancora arcivescovo, diceva (speriamo che ora non lo dica né lo pensi più) di Calvino, che, secondo lui, è molto peggiore di Lutero. Lutero era eretico, e l’eresia è  «un’idea buona impazzita» (p. 22) (2). Ma Calvino, oltre che eretico, è stato anche scismatico, e lo è stato in tre diverse aree: l’uomo, la società, la chiesa. Nell’uomo, Calvino provoca addirittura due  scismi. Il primo è quello «tra la ragione e il cuore», da cui nasce «lo squallore calvinista» (p. 23). Il  secondo avviene all’interno della stessa ragione, «tra la conoscenza positiva e la conoscenza  speculativa», con danni irreparabili a «tutta la tradizione umanistica» (p. 23). Nella società, Calvino  provoca lo scisma tra le classi borghesi, che egli privilegia «come apportatrici di salvezza» (p. 25),  e le corporazioni dei mestieri che rappresentano «la nobiltà del lavoro». Calvino sarebbe promotore  di «un’internazionale della borghesia» e, come tale, «il vero padre del liberalismo» (p. 26). Nella  chiesa, infine, Calvino provoca lo scisma peggiore: «la comunità ecclesiale viene ridotta a una  classe sociale» – quella borghese – e «Calvino decapita il popolo di Dio dell’unità con il Padre. 
Decapita tutte le confraternite dei mestieri privandole dei santi. E, sopprimendo la messa, priva il  popolo della mediazione in Cristo realmente presente» (p. 32). Insomma: Calvino è un vero boia  spirituale, che decapita tutto quello che può!
Stento a credere che l’attuale pontefice pensi di Calvino e della Riforma queste cose, che non  stanno né in cielo né in terra e che nessuno storico cattolico – almeno tra quelli che conosco e leggo  – dice più da molto tempo. E dato che i gesuiti, quando nacquero, si diedero come compito, oltre  alla missione tra i pagani, anche quello di combattere con ogni mezzo il protestantesimo – come  effettivamente è avvenuto – allora, se il protestantesimo che hanno combattuto è quello «affrescato» da Bergoglio, devono sapere che hanno combattuto un protestantesimo fantasma, mai esistito, un  puro idolo polemico creato solo dalla loro fantasia, che poco o nulla aveva a che fare con la famosa  «realtà», che pure volevano assumere come «pilastro» del loro «modo di procedere».
Ma non è tutto. Sentite quello che Bergoglio diceva (speriamo che ora non lo dica né lo pensi più)  delle conseguenze della Riforma. Secondo lui «a partire dalla posizione luterana, se siamo coerenti, restano solo due possibilità fra cui scegliere nel corso della storia: o l’uomo si dissolve nella sua  angoscia e non è niente (ed è la conseguenza dell’esistenzialismo ateo), o l’uomo, basandosi su  quella medesima angoscia e corruzione, fa un salto nel vuoto e si auto decreta superuomo (è  l’opzione di Nietzsche) … Un simile potere [quello vagheggiato da Nietzsche], come ultima ratio,  implica la morte di Dio. Si tratta di un paganesimo che, nei casi del nazismo e del marxismo,  acquisterà forme organizzate» (p. 34). Tutto questo «a partire dalla posizione luterana», che  evidentemente – secondo queste pagine di Bergoglio – è la causa prima, anche se remota, delle cose peggiori accadute in Occidente, compresa la secolarizzazione, la «morte di Dio», e i vari  totalitarismi che hanno infestato la storia moderna dell’Europa. Insomma, è la vecchia tesi della Controriforma: la Riforma protestante vista come sorgente di tutti i mali, o meglio di tutti quelli che la chiesa di Roma considera «mali».
Mi chiedo come sia possibile avere oggi ancora (o anche 30 anni fa) una visione così deformata,  distorta, travisata e sostanzialmente falsa della Riforma protestante. È una visione con la quale non  solo non si può iniziare un dialogo, ma neppure una polemica: non ne vale la pena, perché è troppo  lontana e difforme dalla «realtà». Una cosa è certa: a partire da una visione del genere, una  celebrazione ecumenica del 500° anniversario della Riforma, nel 2017, appare letteralmente  impossibile.

Paolo Ricca

(1) Jorge Mario Bergoglio, Chi sono i gesuiti, EMI, Bologna 2014 (la prima edizione, apparsa a  Buenos Aires, è del 1987; una seconda edizione è apparsa in Spagna nel 2013).
(2) Quindi – lo dico in nota – noi valdesi, «eretici» da otto secoli, siamo, insieme a tutti gli altri  protestanti, seguaci di «un’idea buona impazzita», cioè, in qualche misura, tutti pazzi.

mercoledì 4 giugno 2014

Istigazione a riflettere n. 7

La Chiesa mi ha trattato severamente. Mi è stata tolta la cattedra all'Università di Granada dalla sera alla mattina, senza una spiegazione. Non sapevo nemmeno che in Vaticano era in corso un processo contro di me. Più volte ho chiesto il perchè di questa decisione ma non ho mai ricevuto risposta.
Sono caduto in depressione; otto anni senza poter dormire. Poi ho lasciato il mio ordine religioso e ho scelto di non andare alla ricerca di qualche diocesi dove potermi incardinare e di vivere da laico.
Ma nonostante questo io vi dico: se per voi la Chiesa è un impedimento alla vostra fede e alla vostra vocazione sono problemi vostri non della Chiesa.
Perchè dico così?
Ecco. Io oggi sono felice, sono più felice di quando ero un bambino. E lo sono perchè credo in Gesù, che dà un senso alla mia vita. Io non so come sono, se sono giusto o se sono sbagliato. Non so nemmeno se mi sono perso. Mi accetto per quello che sono e sono felice perchè credo in Gesù.
E se io posso credere in Gesù, oggi, lo devo alla Chiesa, a questa Chiesa, che me lo ha trasmesso.

Josè Maria Castillo
CdB San Paolo, 4 giugno 2014

martedì 20 maggio 2014

L'identità cristiana e i diritti della persona

Piero Stefani, in Koinonia-forum n. 389/2014


In vista delle prossime elezioni (in parte anche amministrative) l’Arcivescovo di Ferrara – Comacchio Luigi Negri  ha rivolto ai «carissimi figli e figlie» della sua diocesi un messaggio.  La sua  prima parte, quella fondante, afferma:

”Come Vescovo la mia prima inderogabile missione è l’annuncio del Vangelo quale via della libertà, della responsabilità e della salvezza. Nel Vangelo che vi debbo annunciare è contenuta anche una precisa concezione dell’uomo e di tutta la sua realtà, che costituisce il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato.
Si tratta dei “principi non negoziabili” che sono il patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno, ed in particolare costituiscono il criterio ineludibile per i giudizi e le scelte temporali e sociali del cristiano. Li elenco sinteticamente: la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi irriducibile ad ogni condizionamento sia di carattere personale che sociale; la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: libertà religiosa, della cultura e dell’educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l’accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del Creato.
Ecco l’orizzonte immutabile di ogni giudizio, e del conseguente impegno del cristiano nella società, ma anche la chiave di valutazione delle persone, dei raggruppamenti partitici e dei rispettivi programmi, affinché si favorisca la promulgazione di leggi coerenti con le fondamentali esigenze della dignità umana".

   Che la Chiesa abbia sempre proclamato e testimoniato tutto ciò è un palese falso storico su cui non vale la pena soffermarsi. Più interessante è chiedersi chi sono coloro a cui Negri si rivolge con l’appellativo di «figli e figlie»: sono solo i credenti praticanti?  Se fosse così sarebbe coerente richiamarsi ai diritti  della persona creata a immagine e somiglianza di Dio; se invece quella qualifica si estende a ogni residente nella sua diocesi bisognerebbe far riferimento ai diritti umani che hanno un’altra base fondativa (qualunque essa sia)  e non già a quelli della persona (per questa capitale differenza vedi D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012).
   L’uso dell’ormai anacronistica espressione di «valori non negoziabili» (da cui ha preso apertamente le distanze papa Francesco) lascia presupporre che Negri compia un’indebita sovrapposizione tra i diritti umani e quelli della persona. È evidente che  anche il cattolico  impegnato in politica crede che la persona umana  sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio; ma ciò non intacca il fatto che questo suo convincimento non vada direttamente assunto come un argomento a sostegno di  decisioni pubbliche che riguardano pure individui o gruppi che non condividono la sua fede ma vivono, al pari di lui, in una società pluralista. In un contesto pubblico le argomentazioni devono essere di altra natura e vanno articolate, pur all’interno di una varietà di opzioni, facendo appello a un linguaggio condiviso (per esempio i principi della Costituzione italiana, testo che non nomina mai Dio).
  Sul piano della riflessione interna alla comunità ecclesiale molte perplessità provoca la saldatura (che in  Negri sembra essere addirittura una fusione) tra il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, espressione, quest’ultima, di un magistero storico nato solo a fine Ottocento in larga misura per rispondere a istanze sollevate dai movimenti socialisti (in precedenza la condizione operaia non sollevava, nella maggior parte dei cattolici, più problemi di quanto, nel corso del Medioevo, l’avesse fatto la condizione dei servi della gleba).
  In realtà il cortocircuito in cui cade mons. Negri è evidente là dove egli prospetta il Vangelo  non come una via per morire a se stessi  per  rinascere in Gesù Cristo, ma come fattore che costruisce identità collettive. O, più esattamente, la procedura è portata avanti fino al punto da affermare che proprio la rinascita in Gesù Cristo si presenta come  una via per istituire un’identità collettiva omogenea nella forma ad altre identità, ma distinta da queste ultime in base a valori propri che però sono presentati come se fossero comuni. Solo una posizione del genere può infatti spiegare, dal punto di vista sia logico sia spirituale, come l’Arcivescovo (ma non sarebbe ora di abolire questo “Arci” nobiliar-feudale?), nella sua recente lettera pastorale “Collaboratori della  vostra gioia” possa chiamare in causa un brano di Paolo radicalmente anti-identitario (di passaggio, è l’unica citazione biblica dell’intero documento) proprio come fondamento di una supposta identità storico-collettiva del popolo cristiano: «Il primo valore che richiamo in questa mia lettera (…) è il recupero dell’identità cristiana come identità di popolo. Il popolo a cui faccio riferimento  non è quello che ha la sua radice nella natura, nella storia, nella tradizione, nella cultura, nelle condizioni economiche, politiche e sociali, elementi tutti importanti ma non determinanti. Penso piuttosto alla frase di San Paolo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Gesù Cristo” (Gal 3,28)».


Piero Stefani

giovedì 8 maggio 2014

Se la Chiesa è dei poveri


Raniero La Valle, l'Unità 27 aprile 2014

C’è un arco che con un salto di 50 anni unisce Giovanni XXIII e Papa Francesco, e quest’arco poggia su due pilastri. Il primo è quello dell’11 settembre 1962 quando papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio da lui convocato, ne definiva la ragione ed il fine, dicendo che «in faccia ai Paesi sottosviluppati» la Chiesa si presentava «come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Il secondo è quello del 13 marzo 2013 quando al Papa Bergoglio appena eletto  l’amico brasiliano cardinale Hummes disse nella Sistina di «ricordarsi dei poveri», e lui scelse il nome di Francesco.

Dunque Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II. È una Chiesa che soprattutto ha cercato di rafforzare le sue schiere, di debellare i suoi nemici, di celebrare i suoi trionfi, una Chiesa che Papa Wojtyla ha guidato verso una restaurazione delle glorie antiche di una cristianità signora dell’Europa e anima dell’Occidente: restaurazione che non è riuscita.

Ciò è avvenuto per molte ragioni. La prima è che il Papa polacco ha creduto che per restaurare la Chiesa bastasse restaurare il papato, portandolo al massimo della visibilità consentita dai tempi; la seconda è che da quel deserto, senza la fede ripensata e rinnovata dal Concilio, non c’era come uscire; la terza è che Papa Wojtyla ha creduto che la crisi della religione in Occidente fosse il frutto avvelenato dell’ateismo comunista, e che sconfitto quello il mondo non sarebbe caduto nell’edonismo della società dominata dal denaro, ma sarebbe stato «sollecito delle cose sociali»; e la quarta è stata che quando egli ha voluto fare il Papa non come piaceva alle grandi masse guidate dai «media», ma come contro ogni convenienza gli imponeva il Vangelo, e ha rotto la solidarietà con l’America opponendosi risolutamente alla guerra contro l’Iraq, l’Occidente lo ha oscurato e lo ha depennato come leader, confinandolo nel mito devozionale della sua santità privata.

È con questa storia alle spalle che le due canonizzazioni, di papa Giovanni e papa Wojtyla arrivano per una casuale coincidenza alla contemporanea proclamazione di oggi. Esse sembrano compensarsi, eppure sono assai diverse tra loro. Nel caso di Giovanni Paolo II quando la folla dei fedeli, emozionata per la sua morte, diceva «Santo subito», pensava alla sua santità personale, al modo in cui aveva reagito all’attentato, alla popolarità che si era guadagnata, alla sofferenza della sua malattia. Nel caso di Giovanni XXIII quando fu presentata la proposta che fosse il Concilio a proclamare la sua santità, senza processo canonico e il corredo di appositi miracoli, l’idea era che venisse esaltata proprio la santità del modo in cui Roncalli aveva esercitato il ministero petrino, aveva interpretato il suo ruolo di Papa.

La santità di papa Giovanni veniva da lontano. Si era costruita lungo tutta la vita all’insegna dell’oboedientia et pax, obbedienza e pace, suo motto episcopale, ma poi si era trasfusa nella imprevedibile decisione di convocare il Concilio per riportare a un mondo incredulo la fede, nella convinzione che da duemila anni il Cristo non aspettasse altro «con le braccia aperte sulla croce», come Roncalli confidò al suo segretario Capovilla il 24 gennaio1959,la sera prima di darne l’annuncio ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura.

Erano stati Giuseppe Dossetti e il cardinale Lercaro, sostenuti dalla «scuola di Bologna», ad avere l’idea che il Concilio Vaticano II non potesse concludersi senza un grande gesto riepilogativo del suo significato e della sua visione del futuro, e che questo gesto potesse e dovesse essere la canonizzazione conciliare di papa Giovanni. Ma Paolo VI non aveva voluto, timoroso di rompere le procedure rituali e sapendo che la ricezione nella Chiesa del Vaticano II avrebbe incontrato difficoltà e conflitti di interpretazione che avrebbero potuto ripercuotersi sull’istituzione pontificia sovraesposta da un Papa santificato dal Concilio. E così la proposta fu presentata in aula dal vescovo Bettazzi, ausiliare di Bologna, perché restasse agli atti anche se destinata a non essere accolta. Oggi quella profezia si avvera. Papa Francesco, ricordandosi di San Paolo che lasciava ai Giudei di «chiedere miracoli» per predicare invece «Cristo crocefisso», non ha chiesto i miracoli di Papa Giovanni per farlo santo, perché il suo miracolo è il Concilio. Così, dopo cinquant’anni, il cerchio si chiude; ma come sarebbe stato se fosse stata proclamata dal Concilio, il significato della santità di  Papa Giovanni è rimasto immutato: è la santità di un modo straordinario di fare il Papa, è la santità  di «un cristiano sul trono di Pietro».


Raniero La Valle

sabato 5 aprile 2014

Istigazione a riflettere n. 6

Da un articolo pubblicato su "Il Regno" n. 4/2014 da Gianfranco Brunelli, Il progetto pastorale. Papa Francesco e la CEI, leggo e apprendo quanto segue (pag. 80):
"Tra il 1983 e il 1984, in vista del nuovo statuto della CEI, la maggioranza dei vescovi italiani aveva auspicato l'elezione diretta dei vertici della Conferenza, come per tutte le altre conferenze episcopali. L'elezione diretta del presidente ottenne, nella consultazione generale che fu effettuata, la maggioranza assoluta, ma per sei voti non quella qualificata richiesta dallo Statuto. Obiettivo che fu invece raggiunto per l'elezione del segretario. Portata al papa la richiesta non fu accolta. Il nuovo statuto, approvato nel 1985, riconfermò al papa la prerogativa delle nomine. Giovanni Paolo II intendeva seguire da vicino le vicende dei vescovi italiani. Per il papa polacco l'Italia e la Chiesa italiana erano un punto di tenuta dell'insieme del suo disegno ecclesiale".
Alla pagina seguente, Brunelli osserva che a trent'anni di distanza le parti si sono curiosamente invertite; papa Francesco ha chiesto ai vescovi italiani di eleggersi da sé segretario e presidente ed essi hanno declinato l'invito, preferendo lasciare al lui questa prerogativa.
Brunelli si limita a osservare questa situazione, senza sbilanciarsi in ipotesi interpretative.
Per quel niente che vale, provo a dire la mia.
Domanda: cosa ha caratterizzato questi ultimi trent'anni? Risposta: il pontificato di Giovanni Paolo II e, per l'Italia, il mandato di Ruini.
Nel 1983 la maggioranza dei vescovi apparteneva alla generazione che aveva partecipato al Concilio. Oggi, invece, la maggioranza dei vescovi è stata nominata dal papa polacco. Nel corso del suo lungo pontificato Giovanni Paolo II ha avuto cura di nominare nel mondo vescovi tradizionalisti e in Italia personalità assolutamente insignificanti, bravi funzionari ecclesiastici ma nulla di più, gente che doveva solo obbedire alle disposizioni sue e di Ruini. Ecco i risultati: un'intera generazione di vescovi azzerata, un azzeramento del quale risentiremo per almeno un'altra generazione.
Se a questo aggiungiamo che il papa regnante nomina i cardinali che eleggeranno il papa successivo, la conclusione è mortificante nella sua drammaticità: un papa che campa a lungo comanda pure da morto.

Pietro Urciuoli
6 aprile 2014
ecclesiaspiritualis.blogspot.it

martedì 1 aprile 2014

Grazie, Jacques

Grazie, mille volte grazie. Mi hai raccontato una storia che tanti, troppi, in buona o in cattiva fede, hanno cercato di tenermi nascosta. Tu e Sabatier mi avete aperto gli occhi su quel Francesco che, grazie a voi, continuerò a cercare per tutta la vita.
Grazie, mille volte grazie.



«La lacerazione di Francesco d’Assisi, preso tra il proprio ideale snaturato e l’attaccamento appassionato alla Chiesa ed all’ortodossia, è drammatica. Egli accetta, ma si ritira. Nella solitudine della Verna, le stimmate, poco prima della sua morte sono la conclusione, il riscatto e la ricompensa della sua angoscia».

J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Ed. Einaudi, Torino 1981, p. 102.



venerdì 28 marzo 2014

Pretacci

La partecipazione di papa Francesco alla manifestazione contro le mafie promossa da Libera nei giorni scorsi è un altro degli eventi che caratterizzano questo inizio di pontificato. Così come il viaggio a Lampedusa o la visita al centro Astalli questo gesto è il suo modo per dare in prima persona l’esempio di quella Chiesa che ha in mente: “Chiesa ospedale da campo”, “Chiesa in uscita”, “Chiesa povera e per i poveri”, “Chiesa verso le periferie esistenziali”, come ripete ormai quotidianamente.
È una rivoluzione vera, questa, non di facciata. E uno dei tanti aspetti di questa rivoluzione è il riconoscimento dell’impegno di tante persone, chierici e laici, che in una Chiesa così hanno sempre creduto ricevendo, invece, dalle istituzioni ecclesiastiche, più diffidenza che sostegno. Don Ciotti è uno di questi. Le sue parole - «Quanti silenzi in passato dalla Chiesa!» - non sono meno dolorose dell’elenco interminabile delle vittime innocenti della mafia. Ma adesso queste parole trovano finalmente qualcuno disposto ad ascoltarle e a farsene carico per riprendere la strada giusta.
Qualche giornale ha scritto che incontrando don Ciotti papa Francesco ha riabilitato i “pretacci”. Sicuramente, ma credo che forse occorra essere po’ più cauti, c’è ancora tanta strada da fare in proposito: già, perché i problemi della Chiesa sono di vario tipo e vi sono anche vari tipi di “pretacci”.
Quello della giustizia sociale è un tema da sempre centrale nella vita della Chiesa, fin dalle sue origini, fin dalle prime comunità cristiane; da sempre la Chiesa sa che il suo posto è a fianco degli oppressi e non degli oppressori. Il “pretaccio” di turno denuncia l’ipocrisia di una Chiesa che alle belle parole non fa seguire fatti concreti, che non va oltre retoriche dichiarazioni di principio, assumendo invece atteggiamenti omissivi se non addirittura conniventi con la criminalità. Quello che denuncia il “pretaccio” è un problema di prassi più che di dottrina.
Ma quello della giustizia sociale non è certo l’unico problema della Chiesa. Ad esempio, ci sono problemi di natura teologica e pastorale e le risposte fornite al Questionario sulla famiglia lo dimostrano: il popolo di Dio ormai vede la Chiesa istituzionale come una struttura arroccata in se stessa e che pretende di entrare nelle coscienze delle persone in virtù di incomprensibili alchimie teologiche. Il “pretaccio” di turno fa opera di educazione, divulgazione e coscientizzazione su argomenti come il potere del papa, il coinvolgimento dei laici e delle donne nel governo della Chiesa, la libertà di ricerca teologica, la libertà di coscienza dell’individuo, le questioni etiche e politiche, la pastorale familiare, la morale sessuale e via di seguito. Quello che denuncia il “pretaccio”, in questo caso, è un problema di dottrina più che di prassi; questi temi, difatti, veicolano questioni ecclesiologiche di importanza capitale che mettono in discussione la stessa ragion d’essere della Chiesa istituzionale.
Pertanto, se i “pretacci” del primo tipo sono figure scomode per l’istituzione, quelli del secondo tipo forse lo sono ancora di più.
In conclusione e per dirla tutta: abbiamo visto papa Francesco abbracciare don Ciotti, lo vedremo fare altrettanto con Giovanni Franzoni? L’abbraccio con il primo ha riabilitato quanti lottano per una Chiesa più coerente e coraggiosa nella denuncia dell’ingiustizia e dell’oppressione. Un abbraccio con il secondo riabiliterebbe quanti desiderano una Chiesa più di periferia che di centro, più di base che di vertice, più di spirito che di legge, più di servizio che di potere; non un’altra Chiesa ma una Chiesa “altra”, come si usa dire. Vedremo questo abbraccio, quindi? Chissà. Diamo tempo al tempo e speriamo in bene.



Pietro Urciuoli, 28 marzo 2014, ecclesiaspiritualis.blogspot.it

mercoledì 26 marzo 2014

Cristianesimo e religioni

Omelia di Aldo Bergamaschi pronunciata il 23 ottobre 1983

Con dispiacere dobbiamo rinunciare alla spiegazione del vangelo relativo al fariseo e al pubblicano, perché oggi è la giornata missionaria mondiale. Ma anche qui non è che le cose siano così semplici. Potrei impostare il discorso in maniera, o in forma apologetica, bussare con un poco di insistenza alle vostre borse e sono sicuro che farei cadere qualche danaro, ma il problema non è questo. Nei depliant che forse sono stati distribuiti mi pare che nella propaganda missionaria ci sia una specie di svolta, non vorrei sbagliare, vedo che si mette la foto del papa, trasformandolo in un leader e lo assimilate agli altri leaders. Sicché ecco sottinteso, propaganda contro propaganda di segno diverso, e così siamo caduti nella trappola storicistica. Quando, proprio in questo giorno, l'apparato gerarchico della Chiesa dovrebbe ritirarsi verso il nulla. Perché la sciagura di un cristianesimo che è diventato un “medium quod cognoscimus” mi rifugio nel latino, un cristianesimo che diventa un mezzo che noi conosciamo, anziché essere un mezzo mediante cui, o mediante il quale, noi conosciamo, un cristianesimo di questa specie francamente si allinea con tutti gli altri movimenti storici. E allora è finita la sua funzione salvifica.


Nessuno ricerca più la verità o mostra la incarnazione della propria visione del mondo, si parte dal presupposto che sia la giusta così come è strutturata nelle categorie storiche, e poi si opera con la volontà di imporla agli altri, come si impone un prodotto commerciale. Anziché dirvi che il cristiano ha connaturato in sé lo spirito di divulgazione del vangelo, secondo le categorie storiche, per cui si vanno reclutando dei galoppini, voglio tentare di portare un momento di luce all'interno di questo problema.

Nella conferenza missionaria mondiale svoltasi a Edimburgo nel 1910, che ha fatto epoca nella storia della Chiesa moderna, si disse che tutte le religioni non cristiane, rivelano bisogni elementari dell'anima umana, che solo il cristianesimo può soddisfare e che nelle forme più evolute esse manifestano l'opera dello spirito di Dio. Ma nel discorso conclusivo, qualcuno toccò il punto dolente. Nessuno di noi crede di possedere la pienezza di questa verità? Perché se qualcuno di noi crede di possedere la verità nella sua pienezza, allora dobbiamo rinunciare alla nostra convinzione che il cristianesimo è la religione conclusiva e assoluta. Chi credesse questo avrebbe identificato se stesso con la verità. Si veniva a dire che, quando la commissione di quella conferenza parlava di cristianesimo, non intendeva l'intero corpo di credenze e di pratiche, che è stato proprio dei cristiani della storia, ma piuttosto parlava dell'essenza della rivelazione, che nessuno di noi ha pienamente compreso e a cui nessuno di noi ha pienamente, dato soddisfazione.

C'è di più, esiste una distinzione fra cristianesimo e Vangelo, e noi, proprio in queste giornate, tentiamo di volerci convincere che no, non c'è distinzione fra quello che facciamo noi e quello che avrebbe fatto Gesù. Non c'è distinzione fra noi e la rivelazione cristiana stessa, non c'è distinzione fra il nostro modo di muoverci e la rivelazione cristiana stessa. Noi portiamo una verità con la quale ci identifichiamo. Questo è il discorso sottinteso, e invece no. Conclusioni a cui si arriva in questa conferenza di Edimburgo nel 1910: il cristianesimo nel senso indicato, è assoluto. Cristo completa e supera tutte le altre religioni, tutte le religioni rivelano bisogni dell'anima umana che solo Gesù Cristo può soddisfare pienamente; le forme più alte delle religioni non cristiane manifestano l'opera dello spirito santo. Vedete nel 1910 eravamo già vicini alle forme attuali.

Però sorgono problemi: in quale senso Gesù Cristo completa le altre religioni? Vedete, facciamo presto a fare delle affermazioni, ma poi dobbiamo spiegarle. Si tratta del fatto che Egli soddisfa bisogni che altri religioni manifestano, ma che non possono soddisfare? oppure Egli completa ciò che esse hanno solo in parte? Ma, dissero alcuni intelletti, non esiste il caso dei farisei, i quali rappresentavano certamente l'elemento più alto del giudaismo del tempo di Gesù, eppure lo fecero andare in croce. Poi qualcuno disse che la religione dell'India ruota intorno a un asse del tutto differente da quello della religione della Bibbia, per cui no, non possono essere messe in rapporto di preparazione-compimento. Si tratta di due discorsi radicalmente diversi. Oserei dire che il concetto di Dio che le due religioni hanno è intraducibile. Tutti quei discorsi relativi al rapporto di continuità sono vani.

Eccoci alla conferenza missionaria mondiale di Gerusalemme del 1928. Il fatto dominante di quella conferenza è la nascita del cosiddetto secolarismo. Ci fu una certa tendenza a considerare le grandi religioni come alleati nella battaglia contro il secolarismo. Ma tale posizione non fu assunta alla fine della conferenza, la conferenza invece guardò con benevolenza i valori dei sistemi non cristiani. Attenzione, ci sono i valori non cristiani che si identificano con quelli delle religioni non cristiane, e i valori non cristiani, del movimento secolare, dove ci si può mettere il laicismo, l'illuminismo e il marxismo e così via. Quindi dobbiamo tenere bene distinto il discorso. Noi riconosciamo, diceva questa conferenza, come parte dell'unica verità il senso della maestà divina dell'islamismo. Poi riconosciamo la compartecipazione al dolore del mondo del buddismo; riconosciamo il desiderio dell'unione con la realtà ultima dell'induismo; riconosciamo la credenza in un ordine morale dell'universo del confucianesimo, e infine la ricerca disinteressata della verità e del benessere umano in coloro che sono dalla parte della civiltà secolare, ma non accettano Cristo come loro Signore e come loro salvatore. Restava sempre senza risposta il problema teologico di fondo: quale è il significato dei valori religiosi delle religioni non cristiane?

Si delinearono tre tendenze, al di fuori si capisce di questa conferenza. Primo, si riconosce l'esistenza di valori spirituali nelle religioni non cristiane, ma il nostro compito, dicevano i protestanti e i cattolici, è quello di annunziare il vangelo e di convertire a Cristo. Seconda tendenza, come si può passare dalla affermazione della unicità di Cristo alla sua dimostrazione, senza stabilire un paragone tra il vangelo e gli aspetti migliori delle altre religioni. Finalmente la terza posizione, nella quale mi identifico almeno al 95%. I punti in comune con le altre religioni sono proprio quelli che non costituiscono la specificità del cristianesimo. Il cristianesimo non è semplicemente una religione, anzi non è affatto una religione; le religioni sono condannate a scomparire con il sorgere di un modo di pensare scientifico. Questa è l'affermazione più forte su cui ritengo la mia riserva. Ma vi confesso che inclino fortemente a pensarla così, e non vi dico tutto il fondo del mio cervello per non entrare in idee che sono del tutto personali mie e non vagliate sufficientemente dalla ragione critica.

Se dovessi seguire la mia istintività, sarei del parere che se l'idea marxista occupasse tutta l'area della religione, perché credo che quella ideologia, se operasse questa decantazione, avrebbe già fatto un grande servizio all'umanità, e sono convinto personalmente, che sarebbe più facile convertire un marxista, che non un adepto ad una qualsiasi delle religioni storiche che noi conosciamo. Perché se è vero che il “Logos” dico Cristo, è razionalità, sarà sempre possibile discutere con un ateo, ma non sarà mai possibile discutere con un uomo religiosamente devastato dalla sua fede. Vi prego di tenerla come opinione personale su cui dovrò fare delle riflessioni per vedere se questa è una giusta impostazione o se è semplicemente un mio modo di pensare.

Nel 1938 un personaggio, domina la conferenza di Tambaran, con una affermazione molto secca C'è una distinzione radicale fra cristianesimo e rivelazione di Dio in Cristo. Il primo appartiene al mondo delle religioni, non può pretendere nessuna assolutezza o definitività. Vedete che ritorna la distinzione anche all'interno del cristianesimo. Quindi c'è netta distinzione fra l'atto di rivelazione di Dio e l'esperienza religiosa, sia essa cristiana o non cristiana. Ma resta la domanda: esiste una vera comunione fra Dio e il credente nell'esperienza religiosa non cristiana? Esiste una relazione dubbia, come dubbia quella del fariseo o del cristiano storico. Se andiamo al Passo di oggi: esiste una relazione fra Dio e il fariseo che prega in quel modo? Gesù dice no, la relazione più giusta è quella del pubblicano o col pubblicano. Resta tuttavia il nodo: come mai coloro presso i quali la autorivelazione di Dio, e quindi più vicino a Dio, hanno mandato a morte Gesù Cristo? Questo è il rompicapo che non riusciamo a sciogliere se non ci orientiamo fra queste strade più radicali.

Poi per venticinque anni, rottura del dialogo con i non cristiani, siamo nel 1938. Alla nostra epoca, accade che ritornano quelle posizioni del 1910. Si dà per scontato che la religione sia la sfera della salvezza, ma se noi guardiamo le cose alla luce della Bibbia, non possiamo escludere la possibilità che proprio la religione sia la sfera della dannazione, il luogo in cui l'uomo è più lontano dal Dio vivente.

Ecco il caso del fariseo, proprio lui è il più lontano dal Dio vivente, lui che dice di credere, lui che prega, lui che ha l'anima imbottita di Dio, lui che ha l'anima carica di fronzoli religiosi, lui è il più lontano. Paolo VI aveva tentato con la immagine dei cerchi concentrici: al centro la Chiesa cattolica, poi via via quelle che credono in Cristo, poi quelli che credono in Dio e nei valori spirituali, e poi i più lontani quelli che dicono di essere atei. Ma alla luce della parabola chi sono i più lontani e chi sono i più vicini? La mia posizione: ci sono coloro che credono in Gesù salvatore, ecco costoro dimostrino che cosa è la salvezza del mondo.


Nel secolo passato in Italia si discuteva il problema della lingua. Tra questi c'era anche Manzoni. Come dovrà essere il vero italiano il fiorentino?  Ci voleva la lingua unica per questo bel popolo italiano, non ci capiamo se andate in giro ci sono infinità di dialetti. Discussioni teoriche e non finire. Manzoni ha messo fine a posizioni teoriche, scrive un romanzo in cui viene fuori la lingua. Ecco la lingua senza discussioni teoriche, Manzoni ne ha presentato il modello.