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martedì 20 maggio 2014

L'identità cristiana e i diritti della persona

Piero Stefani, in Koinonia-forum n. 389/2014


In vista delle prossime elezioni (in parte anche amministrative) l’Arcivescovo di Ferrara – Comacchio Luigi Negri  ha rivolto ai «carissimi figli e figlie» della sua diocesi un messaggio.  La sua  prima parte, quella fondante, afferma:

”Come Vescovo la mia prima inderogabile missione è l’annuncio del Vangelo quale via della libertà, della responsabilità e della salvezza. Nel Vangelo che vi debbo annunciare è contenuta anche una precisa concezione dell’uomo e di tutta la sua realtà, che costituisce il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato.
Si tratta dei “principi non negoziabili” che sono il patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno, ed in particolare costituiscono il criterio ineludibile per i giudizi e le scelte temporali e sociali del cristiano. Li elenco sinteticamente: la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi irriducibile ad ogni condizionamento sia di carattere personale che sociale; la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: libertà religiosa, della cultura e dell’educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l’accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del Creato.
Ecco l’orizzonte immutabile di ogni giudizio, e del conseguente impegno del cristiano nella società, ma anche la chiave di valutazione delle persone, dei raggruppamenti partitici e dei rispettivi programmi, affinché si favorisca la promulgazione di leggi coerenti con le fondamentali esigenze della dignità umana".

   Che la Chiesa abbia sempre proclamato e testimoniato tutto ciò è un palese falso storico su cui non vale la pena soffermarsi. Più interessante è chiedersi chi sono coloro a cui Negri si rivolge con l’appellativo di «figli e figlie»: sono solo i credenti praticanti?  Se fosse così sarebbe coerente richiamarsi ai diritti  della persona creata a immagine e somiglianza di Dio; se invece quella qualifica si estende a ogni residente nella sua diocesi bisognerebbe far riferimento ai diritti umani che hanno un’altra base fondativa (qualunque essa sia)  e non già a quelli della persona (per questa capitale differenza vedi D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012).
   L’uso dell’ormai anacronistica espressione di «valori non negoziabili» (da cui ha preso apertamente le distanze papa Francesco) lascia presupporre che Negri compia un’indebita sovrapposizione tra i diritti umani e quelli della persona. È evidente che  anche il cattolico  impegnato in politica crede che la persona umana  sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio; ma ciò non intacca il fatto che questo suo convincimento non vada direttamente assunto come un argomento a sostegno di  decisioni pubbliche che riguardano pure individui o gruppi che non condividono la sua fede ma vivono, al pari di lui, in una società pluralista. In un contesto pubblico le argomentazioni devono essere di altra natura e vanno articolate, pur all’interno di una varietà di opzioni, facendo appello a un linguaggio condiviso (per esempio i principi della Costituzione italiana, testo che non nomina mai Dio).
  Sul piano della riflessione interna alla comunità ecclesiale molte perplessità provoca la saldatura (che in  Negri sembra essere addirittura una fusione) tra il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, espressione, quest’ultima, di un magistero storico nato solo a fine Ottocento in larga misura per rispondere a istanze sollevate dai movimenti socialisti (in precedenza la condizione operaia non sollevava, nella maggior parte dei cattolici, più problemi di quanto, nel corso del Medioevo, l’avesse fatto la condizione dei servi della gleba).
  In realtà il cortocircuito in cui cade mons. Negri è evidente là dove egli prospetta il Vangelo  non come una via per morire a se stessi  per  rinascere in Gesù Cristo, ma come fattore che costruisce identità collettive. O, più esattamente, la procedura è portata avanti fino al punto da affermare che proprio la rinascita in Gesù Cristo si presenta come  una via per istituire un’identità collettiva omogenea nella forma ad altre identità, ma distinta da queste ultime in base a valori propri che però sono presentati come se fossero comuni. Solo una posizione del genere può infatti spiegare, dal punto di vista sia logico sia spirituale, come l’Arcivescovo (ma non sarebbe ora di abolire questo “Arci” nobiliar-feudale?), nella sua recente lettera pastorale “Collaboratori della  vostra gioia” possa chiamare in causa un brano di Paolo radicalmente anti-identitario (di passaggio, è l’unica citazione biblica dell’intero documento) proprio come fondamento di una supposta identità storico-collettiva del popolo cristiano: «Il primo valore che richiamo in questa mia lettera (…) è il recupero dell’identità cristiana come identità di popolo. Il popolo a cui faccio riferimento  non è quello che ha la sua radice nella natura, nella storia, nella tradizione, nella cultura, nelle condizioni economiche, politiche e sociali, elementi tutti importanti ma non determinanti. Penso piuttosto alla frase di San Paolo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Gesù Cristo” (Gal 3,28)».


Piero Stefani

giovedì 8 maggio 2014

Se la Chiesa è dei poveri


Raniero La Valle, l'Unità 27 aprile 2014

C’è un arco che con un salto di 50 anni unisce Giovanni XXIII e Papa Francesco, e quest’arco poggia su due pilastri. Il primo è quello dell’11 settembre 1962 quando papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio da lui convocato, ne definiva la ragione ed il fine, dicendo che «in faccia ai Paesi sottosviluppati» la Chiesa si presentava «come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Il secondo è quello del 13 marzo 2013 quando al Papa Bergoglio appena eletto  l’amico brasiliano cardinale Hummes disse nella Sistina di «ricordarsi dei poveri», e lui scelse il nome di Francesco.

Dunque Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II. È una Chiesa che soprattutto ha cercato di rafforzare le sue schiere, di debellare i suoi nemici, di celebrare i suoi trionfi, una Chiesa che Papa Wojtyla ha guidato verso una restaurazione delle glorie antiche di una cristianità signora dell’Europa e anima dell’Occidente: restaurazione che non è riuscita.

Ciò è avvenuto per molte ragioni. La prima è che il Papa polacco ha creduto che per restaurare la Chiesa bastasse restaurare il papato, portandolo al massimo della visibilità consentita dai tempi; la seconda è che da quel deserto, senza la fede ripensata e rinnovata dal Concilio, non c’era come uscire; la terza è che Papa Wojtyla ha creduto che la crisi della religione in Occidente fosse il frutto avvelenato dell’ateismo comunista, e che sconfitto quello il mondo non sarebbe caduto nell’edonismo della società dominata dal denaro, ma sarebbe stato «sollecito delle cose sociali»; e la quarta è stata che quando egli ha voluto fare il Papa non come piaceva alle grandi masse guidate dai «media», ma come contro ogni convenienza gli imponeva il Vangelo, e ha rotto la solidarietà con l’America opponendosi risolutamente alla guerra contro l’Iraq, l’Occidente lo ha oscurato e lo ha depennato come leader, confinandolo nel mito devozionale della sua santità privata.

È con questa storia alle spalle che le due canonizzazioni, di papa Giovanni e papa Wojtyla arrivano per una casuale coincidenza alla contemporanea proclamazione di oggi. Esse sembrano compensarsi, eppure sono assai diverse tra loro. Nel caso di Giovanni Paolo II quando la folla dei fedeli, emozionata per la sua morte, diceva «Santo subito», pensava alla sua santità personale, al modo in cui aveva reagito all’attentato, alla popolarità che si era guadagnata, alla sofferenza della sua malattia. Nel caso di Giovanni XXIII quando fu presentata la proposta che fosse il Concilio a proclamare la sua santità, senza processo canonico e il corredo di appositi miracoli, l’idea era che venisse esaltata proprio la santità del modo in cui Roncalli aveva esercitato il ministero petrino, aveva interpretato il suo ruolo di Papa.

La santità di papa Giovanni veniva da lontano. Si era costruita lungo tutta la vita all’insegna dell’oboedientia et pax, obbedienza e pace, suo motto episcopale, ma poi si era trasfusa nella imprevedibile decisione di convocare il Concilio per riportare a un mondo incredulo la fede, nella convinzione che da duemila anni il Cristo non aspettasse altro «con le braccia aperte sulla croce», come Roncalli confidò al suo segretario Capovilla il 24 gennaio1959,la sera prima di darne l’annuncio ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura.

Erano stati Giuseppe Dossetti e il cardinale Lercaro, sostenuti dalla «scuola di Bologna», ad avere l’idea che il Concilio Vaticano II non potesse concludersi senza un grande gesto riepilogativo del suo significato e della sua visione del futuro, e che questo gesto potesse e dovesse essere la canonizzazione conciliare di papa Giovanni. Ma Paolo VI non aveva voluto, timoroso di rompere le procedure rituali e sapendo che la ricezione nella Chiesa del Vaticano II avrebbe incontrato difficoltà e conflitti di interpretazione che avrebbero potuto ripercuotersi sull’istituzione pontificia sovraesposta da un Papa santificato dal Concilio. E così la proposta fu presentata in aula dal vescovo Bettazzi, ausiliare di Bologna, perché restasse agli atti anche se destinata a non essere accolta. Oggi quella profezia si avvera. Papa Francesco, ricordandosi di San Paolo che lasciava ai Giudei di «chiedere miracoli» per predicare invece «Cristo crocefisso», non ha chiesto i miracoli di Papa Giovanni per farlo santo, perché il suo miracolo è il Concilio. Così, dopo cinquant’anni, il cerchio si chiude; ma come sarebbe stato se fosse stata proclamata dal Concilio, il significato della santità di  Papa Giovanni è rimasto immutato: è la santità di un modo straordinario di fare il Papa, è la santità  di «un cristiano sul trono di Pietro».


Raniero La Valle