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giovedì 31 ottobre 2013

La tradizione di Gesù in confronto con la religione cristiana

Per capire bene il cristianesimo è necessario fare distinzioni, accettate dalla maggior parte degli studiosi. Quindi, è importante distinguere tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Per Gesù storico si intende il predicatore e profeta di Nazareth come effettivamente esistette sotto Cesare Augusto ed Erode. Il Cristo della fede invece è il contenuto delle predicazioni dei discepoli, che lo vedono come il Figlio di Dio e Salvatore.

Un'altra distinzione importante da fare è quella tra il Regno di Dio e la Chiesa. Regno di Dio è il messaggio originale di Gesù. Significa una rivoluzione assoluta nel ridefinire i rapporti degli esseri umani con Dio (figli e figlie), con gli altri (fratelli e sorelle), con la società (centralità dei poveri), e con l'universo (la creazione di un nuovo cielo e una nuova terra). La Chiesa è stata possibile perché Gesù è stato respinto e, quindi, non è venuto il Regno. Si tratta di una costruzione storica, che cerca di portare avanti la causa di Gesù in diverse culture ed epoche. L'incarnazione dominante di questa costruzione storica si trova nella cultura dei paesi occidentali, ma si è anche incarnata nella cultura orientale, in quella copta ed in altre.

E' anche importante distinguere la tradizione di Gesù e la religione cristiana. La tradizione dei Gesù esisteva prima che venissero scritti i Vangeli, ma è contenuta in essi. I Vangeli sono stati scritti tra 30 e 60 anni dopo l'esecuzione di Gesù. Nel frattempo si erano già organizzate le comunità e le chiese, con le loro tensioni, i loro conflitti interni e le diverse forme di organizzazione. I Vangeli riflettono e prendono posizione su questa situazione. Non intendono essere libri storici, ma libri per l' edificazione e la diffusione della vita e il messaggio di Gesù come Salvatore del mondo.

In questo groviglio, che cosa significa la Tradizione di Gesù? E' lo zoccolo duro, il contenuto che sta in un guscio di noce e rappresenta l’intenzione originale e la pratica di Gesù (ipsissima intentio et acta Jesu) prima di qualsiasi interpretazione. Esso può essere riassunto nei seguenti punti: prima viene il sogno di Gesù, il Regno di Dio come una rivoluzione assoluta nella storia e nell'universo, proposta in conflitto rispetto al regno di Cesare. Poi la sua esperienza personale di Dio che ha trasmesso ai suoi discepoli: Dio è Padre (Abbà), pieno di amore e di tenerezza. La sua particolarità è quella di essere misericordioso, ama anche gli ingrati e i malvagi (Luca 6, 35). Poi predica e vive l'amore incondizionato che mette allo stesso livello dell'amore a Dio. Un altro punto è quello di dare centralità ai poveri e agli invisibili. Essi sono i primi destinatari e beneficiari del Regno, non per la loro condizione morale, ma perché sono privati della vita. Nel comportamento che abbiamo con loro si decide se ereditiamo o no la salvezza (Mt 25,46). Un altro punto importante è la comunità. Egli scelse i dodici per vivere con lui, il numero Dodici è simbolico: rappresenta l'incontro delle 12 tribù di Israele e la riconciliazione di tutte le persone, fatte popolo di Dio. Infine, l'uso del potere. È legittimo soltanto l’uso del potere che è di servizio alla comunità e il detentore deli potere deve cercare sempre l'ultimo posto.

Questo insieme di valori e visioni è la Tradizione di Gesù. Come si vede, non è una istituzione, una dottrina né una disciplina. Quello che Gesù voleva era insegnare a vivere e non creare una nuova religione di fedeli devoti a una istituzione. La tradizione di Gesù è un bel sogno, un cammino spirituale che può assumere molte forme e può avere anche seguaci al di fuori della religione e delle chiese.

La Tradizione di Gesù è stata trasformata nel corso della storia nella religione, la religione cristiana: una organizzazione religiosa sotto forma di varie Chiese, in particolare la Chiesa cattolica romana. Queste sono caratterizzate da istituzioni con dottrina, disciplina, determinazioni etiche, celebrazioni rituali e forme legali. La Chiesa Cattolica Romana è stata organizzata specificamente intorno alla categoria del potere sacro (sacra potestas), concentrato nelle mani di una piccola élite che è la gerarchia con il Papa in testa, esclusi i laici e le donne. Detiene il potere delle decisioni e il monopolio della parola. E' gerarchica e crea grandi disuguaglianze. Si è identificata in modo illegittimo con la tradizione di Gesù. Questo tipo di traduzione storica ha coperto di cenere gran parte del fascino originale e la Tradizione di Gesù. Quindi, tutte le Chiese sono in crisi perché non sono più gioia per tutto il popolo (Lc 2, 11) come erano all'inizio. Gesù stesso, prevedendo questo sviluppo, ha avvertito che non ha molto senso osservare le leggi, e non preoccuparsi di “ciò che è più importante della legge: la giustizia, la misericordia e la fede, queste sono le cose che bisogna fare, senza tralasciare le altre” (Mt 23,23).

Venendo ad oggi: in che cosa risiede il fascino della figura e dei discorsi del Papa Francesco? In che si collega direttamente alla tradizione del Gesù. Egli afferma che "l'amore è prima del dogma e il servizio ai poveri viene prima delle dottrine" (Civiltà Cattolica). Senza questo investimento il cristianesimo perde "la freschezza e la fragranza del Vangelo", si trasforma in una ideologia religiosa e diventa un'ossessione dottrinaria. Non c'è modo migliore di ripristinare la credibilità perduta dalla Chiesa, che ritornare alla tradizione di Gesù, come fa saggiamente Papa
Francesco.

Leonardo Boff

27 ottobre 2013

La mancata spoliazione di Francesco

La recente visita di mons. Bergoglio ad Assisi ha toccato uno dei luoghi simbolici del francescanesimo e cioè la sala del palazzo vescovile nella quale, secondo la tradizione, Francesco spogliandosi delle sue vesti manifestò pubblicamente la sua volontà di darsi a una vita religiosa. Può essere il caso di svolgere qualche riflessione su questo episodio circondato, come molti altri, da non poca retorica.
In primo luogo non bisogna pensare che Francesco in quel frangente avesse le idee chiare sul suo futuro. Aveva chiaro solo che voleva farla finita con un certo tipo di vita, che i panni del giovane figlio di papà gli stavano stretti – se ne era liberato già più di una volta – e che voleva vivere per Dio, per ricambiare l’immenso amore col quale Egli lo aveva toccato. Nulla più di questo (si fa per dire, ovviamente). Abbandonato, quindi, il palazzo vescovile Francesco si confeziona un abito da eremita, composto di tunica, cintura e calzari. Occorre osservare che - per quanto clamorosa, data la sua appartenenza a una famiglia molto in vista - si trattava di una scelta pienamente ortodossa in quanto Francesco aveva abbracciato una forma di vita riconosciuta e apprezzata dalla Chiesa, di antichissima tradizione. Difatti, la reazione del vescovo Guido era stata di scetticismo, vista la durezza delle sue intenzioni, non di ostilità.
La definitiva certezza del suo ideale la ebbe però soltanto due anni dopo. Secondo il racconto quasi unanime dei vari biografi, ascoltato il brano evangelico della missione degli apostoli – durante la festa di san Mattia, il 24 febbraio 1208 – Francesco esclama: «Questo chiedo, questo voglio, questo bramo di fare con tutto il cuore!». Sostituisce così la tunica da eremita con un abito da contadino, la cintura con una corda e abbandona i calzari. Ha scelto il suo futuro: non vuole dedicarsi alla vita eremitica ma alla predicazione itinerante della penitenza.
È una nuova spoliazione, ma questa volta è diverso. La nuova strada che Francesco decide di intraprendere è molto pericolosa poiché quella del predicatore itinerante è una figura malvista sia dalle autorità civili sia da quelle religiose; le prime biasimano tutte le forme di vita instabili e girovaghe, le seconde vedono in questi personaggi potenziali diffusori di eresie. Il suo Dio, quello che vuole seguire in spirito e libertà, non lo conosce nessuno; non è il Dio della Chiesa, né quello dei potenti. Quale Dio si può seguire se non quello che ha ordinato il mondo secondo peso e misura, che ha stabilito il potere temporale e il potere spirituale, che ha diviso l’umano consorzio in oratores, bellatores e laboratores? Quale Dio si può servire scegliendo l’abito dei contadini, degli accattoni, dei lebbrosi, di tutti coloro che non hanno alcun tipo di riconoscimento né nella società né nella Chiesa? Francesco rifiuta un qualcosa di esistente per un qualcosa che non c’è, o che almeno, c’è solo nella sua testa.
Ma perché tutto questo? Perché c’è una terza spoliazione che però Francesco non ha mai fatto: Francesco ha indossato l’abito religioso senza spogliarsi del suo habitus di laico. Una spoliazione mancata, per così dire, ma che in effetti è ben più ricca di conseguenze delle prime due. Già, perché la cifra essenziale della sua esperienza consiste proprio nel sottilissimo equilibrio col quale ha saputo portare un pensiero religioso nella società e un pensiero laico nella Chiesa. Un equilibrio che i suoi seguaci perderanno irrimediabilmente nel volgere di pochi decenni per divenire un ordine monastico come altri.
Mi piace affidare la conclusione di queste riflessioni all’analisi di Paul Sabatier: «Certo, in questo tempo Francesco non capiva ancora ciò che sarebbe diventato, ma sono forse le ore più importanti per l’evoluzione del suo pensiero. Sono gli istanti che hanno dato alla sua vita quel piglio di libertà, quel profumo di campo che la rendono così differente dalla pietà delle sacrestie come da quella dei salotti».


Pietro Urciuoli
31.10.2013

giovedì 10 ottobre 2013

Bergoglio è simpatico popolare ma non tocca i nodi della Chiesa

Intervista a Giovanni Franzoni di Luca Kocci, il manifesto, 5 ottobre 2013

Giovanni Franzoni racconta le origini della comunità di base di San Paolo.
 «La domenica celebravo in basilica la messa di mezzogiorno e nelle omelie tentavo di seguire l'insegnamento del teologo protestante Karl Barth: tenere insieme la Bibbia e il giornale. Ovvero attualizzare il Vangelo, incarnarlo nelle contraddizioni della società. Dopo un po', con un gruppo di 30-40 persone, decidemmo di incontrarci il sabato sera per preparare insieme l'omelia. Leggevamo i testi, discutevamo insieme, i laici portavano il loro contributo che per me, monaco, era molto importante. E la domenica la mia predica era il risultato di quel confronto: quindi un'omelia partecipata, non un indottrinamento dall'alto. Fu quello il primo nucleo della comunità».

Cominciò tutto da lì?
Ci coinvolgemmo sempre più anche nel sociale: l'opposizione alla parata del 2 giugno e ai cappellani militari, le lotte con i disoccupati e i senza casa, le denunce della speculazione edilizia ecclesiastica, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Arrivarono le contestazioni dei fascisti e dei cattolici tradizionalisti. E poi le le ispezioni delle gerarchie ecclesiastiche, da cui però passai sempre indenne. Fino al 1973.

Quando nacque la comunità di San Paolo...
Ci riunivamo in alcuni locali sulla via Ostiense dove iniziammo a celebrare la messa, con il cardinal Poletti, vicario del papa per la città di Roma, che «non approvava ma non proibiva».

Siete degli scissionisti?
No, non vogliamo un'altra Chiesa, anche perché mi sembra che ce ne siano già tante, ma una Chiesa altra. Vogliamo che la Chiesa cambi per essere più fedele al Vangelo e al Concilio.

Che ne è del Concilio?
Lo spirito e le istanze del Concilio Vaticano II sono state soffocate da Ratzinger e da Wojtyla: la collegialità, la partecipazione, la sinodalità sono parole vuote. Certo i Sinodi dei vescovi si svolgono, ma hanno un valore solo consultivo, quindi sono totalmente inefficaci. Si continua ad ignorare il ruolo delle donne nella Chiesa, valorizzate solo a parole. C'è stata la sistematica repressione dei teologi che esprimevano un punto di vista diverso, a cominciare dai teologi della liberazione.

Papa Bergoglio sta raccogliendo molti consensi, anche dall'opinione pubblica laica e di sinistra. Qual è il suo giudizio?
È ancora presto per una valutazione complessiva. Ha cominciato il suo pontificato con una grande retorica pauperistica. La retorica è lecita, ci mancherebbe altro. L'immagine crea simpatia e consenso, ma devono arrivare anche decisioni su questioni controverse, altrimenti è solo apparenza.

Per esempio?
Per esempio la collegialità deve essere vera. I Sinodi devono avere potere decisionale, sennò non servono a nulla. Poi la riabilitazione dei teologi, dei vescovi e dei preti repressi da Wojtyla e Ratzinger, non solo quelli vivi ma anche quelli morti da «eretici». Non per un riconoscimento post mortem ma per dire che è possibile parlare liberamente, senza paura di perdere la cattedra o di subire emarginazioni e scomuniche. E poi le donne, esaltate a parole ma escluse da ogni ruolo decisionale nella Chiesa.

Parliamo di sacerdozio femminile?
No, parlo di ruoli decisionali e di responsabilità. Durante il Concilio un vescovo indiano,  inascoltato, fece notare che molte responsabilità nella Chiesa non sono legate allo stato clericale.  Cioè non bisogna essere per forza preti per ricoprirli. Questi ruoli possono essere affidati ai laici e  quindi anche alle donne: i nunzi apostolici, i capo dicasteri, anche i cardinali. Gli otto «saggi»  nominati da Bergoglio per riformare la Curia sono tutti cardinali maschi. Ci sarebbe potuto essere  tranquillamente qualche laico e qualche donna, senza necessità che fosse prete. La questione del sacerdozio femminile è più ampia: il rischio è di clericalizzare anche le donne. E poi siamo sicuri  che Gesù volesse dei preti così come sono oggi?

E sui principi non negoziabili?
Il discorso è analogo. Papa Francesco usa toni concilianti, parla in modo spontaneo. Ma bisogna  affrontare i nodi. Va bene che il papa dica «chi sono io per giudicare un gay», ma se poi quella  persona chiede che la sua unione omosessuale venga benedetta dalla Chiesa cosa gli si risponde?  Che non è possibile. E allora le parole non sono sufficienti. Bisogna invece aprire le porte, discutere  insieme e decidere.

Francesco, un educatore per tutte le ere

Se il tempo è il pulviscolo sperimentale dell’eternità, gli 800 anni che ci separano dalla morte di Francesco di Assisi non sono un segmento apprezzabile della storia umana. Gli schiamazzi dei garibaldini e l’oratoria metallica dei rivoluzionari dell’89 sono ancora udibili dietro l’angolo della storia europea. Poco più in là, è percettibile il plumbeo respiro del contadino dell’Ancien régime e persino il nitrito dei cavalli dei capitani di ventura. Ma è sufficiente raccordare la mano all'orecchio per distinguere, tra le urla religiose dei crociati, il Cantico delle creature del povero cristiano Francesco. Se è vero che l’umanità ha bisogno di una storia monumentale, perché – come afferma Nietzsche – ciò che un giorno fu capace di dilatare la nozione di uomo e di realizzarla con maggior bellezza, deve esistere in eterno, allora Francesco d’Assisi appartiene alla piccola famiglia di quei giganti che si chiamano l’un l’altro a dialogo, attraverso le desolate distanze delle ere. Egli, tuttavia, non resta incorruttibile come un satiro di fronte alle civiltà che passano; ma pur camminando scalzo ripropone agli uomini fratelli un discorso sulla totalità dell’essere, senza mai proclamare l’innocenza del divenire. Francesco, infatti, non divinizza ogni cosa esistente – e primo fra tutti, l’uomo – alla sua perfezione divina. La storia perciò non ha bisogno di lottare contro il tempo per richiamarlo in vita o per schierarlo di nuovo in battaglia. Chi parla dell’essere e lo attesta non ha neanche bisogno, per nobilitare sé stesso, di operare per la comunità; né ha bisogno di intermediario alcuno per diventare illustre e memorabile. Chi parla dell’essere e lo attesta risulta vivo e presente in sé e per sé, ne mai conosce la mestizia del tramonto. Vivere secondo il Vangelo. Il magistero della Chiesa non è dunque sostitutivo di quello di Cristo quando in causa è la nascita e lo sviluppo del cristiano. La Chiesa medioevale, infatti, né comanda né consiglia a Francesco quella scelta radicale. La Chiesa, forse, porta il Messaggio così come la terra porta nel suo seno il petrolio. Porta una potenzialità che verrà utilizzata, nel corso del tempo, dai più ardenti ricercatori di verità. E il profeta, in terra cristiana, si qualifica per la sua capacità di essere fedele alla Chiesa e a Cristo, alla sposa e allo sposo. Ed ecco come si scandisce in Francesco questa duplice fedeltà. Nel Testamento dichiara rispetto assoluto per i sacerdoti che vivono secondo la forma della santa romana Chiesa. Egli, infatti, non predicherà mai nelle loro parrocchie contro la loro volontà, neanche se avesse addosso tutta la sapienza di Salomone. C’è di più: non vuole in esso considerare il peccato. E tuttavia Francesco non si mette a disposizione “giuridica” o “pastorale” dei vescovi. Se essi non gradiscono ciò denota rispetto per la istituzione ma anche denuncia del suo limite. Dopo il rispetto assoluto per i sacerdoti, troviamo l’omaggio ai teologi e ai predicatori. Egli li onora e li riverisce tutti, ma non dice di volerli imitare. Infine viene ai suoi frati – questo dolente “dono di Dio” – per dichiarare che nessuno di loro era in grado di mostrargli ciò che dovesse fare. Ancora una volta il vero Maestro è “lo stesso Altissimo”, il quale gli rivela che deve vivere “secondo la forma del santo Vangelo”. Per quanto si voglia essere morbidi esegeti di questo asserto non si può nascondere la contrapposizione fra “lo stesso Altissimo” e tutti gli altri maestri, Chiesa e gerarchie comprese. Siamo costretti a pensare che da nessuna parte si vive secondo la forma del santo Vangelo anche se da qualche parte si viveva secondo la forma di santa romana Chiesa.

Aldo Bergamaschi

venerdì 20 settembre 2013

Le periferie esistenziali della Chiesa

“Un ateo che obbedisce alla sua coscienza avrà il perdono di Dio”, afferma Bergoglio nella lettera a Scalfari. Molto bene. Ma sorge spontanea la domanda: “E un cattolico che obbedisce alla sua coscienza avrà il perdono del papa?”. Sicuramente la lettera indirizzata al fondatore di Repubblica inaugura, in perfetto stile Bergoglio, una nuova modalità di comunicazione con i cosiddetti “lontani”, una modalità più diretta e personale, priva di formalismi di “cortile”. Ma anche all’interno della nostra Chiesa cattolica ci sono i “lontani”, o per meglio dire, gli “allontanati”. Sono in tanti - singoli e comunità, chierici e laici - che per i motivi più diversi sono guardati con diffidenza dalla Chiesa istituzionale. Soprattutto mi viene da pensare a quelle esperienze di CdB che per tutti questi anni hanno consapevolmente accettato di assumere una posizione di confine, di margine, pur di mantenersi fedeli a una coscienza educata ai valori del Concilio, scegliendo di vivere da pellegrini e forestieri non solo in questo mondo ma anche in questa Chiesa. La stretta di mano con Gutierrez, in forma peraltro molto riservata, sembrerebbe suggerire una risposta affermativa alla domanda iniziale: nella Chiesa cattolica la fedeltà alla propria coscienza, magari dopo qualche decennio, viene apprezzata e perdonata. Tuttavia, a mio parere, non bisogna enfatizzare eccessivamente il senso di questo incontro: dalle condanne degli anni ’80 a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti e molte tensioni si sono buona parte stemperate col mutare stesso delle situazioni politiche, sociali e culturali. Insomma, una riconciliazione molto significativa ma comunque a babbo morto. Ben altra cosa sarebbe invece l’accettazione da parte delle gerarchie vaticane di un confronto aperto e a tutto campo con quelle realtà ecclesiali che tutt’oggi sono impegnate in prima fila a tenere desta l’attenzione su temi rispetto ai quali “la Chiesa ha parlato e ha detto no”. Sarebbe davvero bello se dal Vaticano venisse un segnale di distensione verso queste realtà che sono invece totalmente ignorate dalla Chiesa istituzionale, delle vere e proprie periferie esistenziali all’interno del corpo ecclesiale; pure questi poveri cristi sono carne di Cristo. Suggerirei a Bergoglio di cominciare senza allontanarsi da Roma, con una bella gita fuori porta in Renault 4, dalle parti della Basilica di San Paolo. C’è un quarantesimo da festeggiare.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it
20.9.2013

mercoledì 28 agosto 2013

Poltiglie d'agosto

Domenica 18 agosto, XX del Tempo Ordinario, mi è capitato di partecipare a due celebrazioni eucaristiche. Il Vangelo del giorno era quello in cui Gesù proclama di essere venuto a portare la divisione sulla terra (Lc 12, 49-53); per causa sua si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, ecc. Due celebrazioni, due spiegazioni differenti del Vangelo. Secondo il primo sacerdote la divisione che Gesù è venuto a portare è, in effetti, una divisione interiore; quando ci sforziamo di compiere la volontà di Dio dentro di noi si scatena un conflitto, il bene contro il male. Secondo l’altro sacerdote una condotta cristiana coerente e coraggiosa provoca inevitabilmente una frattura con chi non crede; a noi il compito di perseverare nella fede senza farci intimorire e senza scendere a compromessi. In entrambi i casi, quindi, una spiegazione piuttosto semplicistica e banalizzata del brano evangelico; nessuno dei due sacerdoti ne ha centrato il senso principale e cioè la contrapposizione tra un modo vecchio e un modo nuovo di intendere la fede (simboleggiati dalle coppie padre/madre e figlio/figlia) ossia la contrapposizione tra legge e spirito. Mentre ascoltavo le due omelie mi venivano in mente le parole che mons. Crociata, segretario generale della CEI, pronunciò al XIV Convegno liturgico per seminaristi svoltosi a Roma nel dicembre 2009. “Spesso le nostre parole e la nostra pastorale tutta risultano una poltiglia melensa e insignificante, come una pietanza immangiabile o, comunque, ben poco nutriente. È questione di atteggiamento e di vita, non solo di parole, anche se pure le nostre parole e le nostre stesse omelie dovrebbero prendere a modello questa sorta di criterio regolativo che ci viene dalle parole del vecchio Simeone: nello stesso tempo annunciare la salvezza e mettere di fronte alla decisione. In questo senso sarebbe oltremodo deplorevole far diventare le omelie occasioni per scagliare accuse e contumelie, rimproveri e giudizi di condanna; ma anche il contrario risulta insulso, quando le nostre parole si riducono a poveri raccatti di generiche esortazioni al buonismo universale”. Una analisi impietosa sulla quale occorre riflettere, tanto più che in questi quattro anni non sembra siano intervenuti significativi cambiamenti. Dal mio punto di vista - quello del (malcapitato) fruitore - una delle possibili cause della banalità delle omelie domenicali è la mancanza di fiducia che i sacerdoti hanno in noi laici. Mediamente i sacerdoti non ritengono di doverci incoraggiare ad un approfondimento personale della fede perché una ricerca teologica compiuta autonomamente da persone non convenientemente formate potrebbe avere solo effetti controproducenti: “quando i laici si mettono a pensare da soli prima o poi perdono la fede”, dicono. Inoltre, c’è un problema di carenza di preparazione dei sacerdoti; se alcuni non ritengono necessario stimolare più di tanto i fedeli, altri neanche saprebbero come farlo. Molti sacerdoti, anche quelli giovani appena usciti dai seminari, hanno una preparazione datata, ripetono a memoria concetti che hanno appreso da vecchi manuali di omiletica, non hanno la capacità di attualizzare il Vangelo e di proporlo alla gente in un linguaggio appassionante. Essi per primi non sono stati abituati a pensare con la propria testa bensì formati a essere diligenti esecutori di ordini superiori e scrupolosi somministratori di sacramenti; insomma, funzionari amministrativi più che animatori spirituali. Né va trascurato il fattore istituzionale. La gerarchia ecclesiastica non vuole laici pensanti, con una propria coscienza critica: i laici non devono avere profonde convinzioni ma solo buoni sentimenti, che vanno nutriti con novene, reliquie e processioni. E se restano eterni bambini nella fede, poco male; basta che siano parrocchiani collaborativi e obbedienti. Ecco perché le omelie devono essere rassicuranti, accomodanti, consolatorie; i fedeli devono uscire soddisfatti e appagati dalla celebrazione eucaristica, convinti di essere sulla strada giusta che li porterà dritti dritti in paradiso.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it
22.8.2013

sabato 3 agosto 2013

La mia opinione? Quella della Chiesa!

Le dichiarazioni rilasciate da Bergoglio durante la conferenza stampa sul volo di ritorno da Rio de Janeiro hanno suscitato reazioni contrastanti: c’è chi vi ha letto i segnali di vere e proprie rivoluzioni che il nuovo papa starebbe per introdurre nella Chiesa e chi ha invece osservato che molte di esse sarebbero state sottoscritte anche da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.  

Personalmente ritengo che tra le pieghe dell’intervista vi sia un passaggio che forse può aggiungere qualche utile elemento di riflessione sulla questione delle riforme. A una giornalista brasiliana che gli chiedeva come mai durante la GMG non avesse parlato dell’aborto o dei matrimoni omosessuali Bergoglio ha risposto che non lo aveva ritenuto necessario semplicemente perché la Chiesa su tali argomenti si è già espressa con chiarezza e quindi non c’era bisogno di tornaci su; poi, all’incalzare della giornalista che gli chiedeva quale fosse invece la sua personale opinione Bergoglio ha tagliato corto esclamando d’istinto: “Quella della Chiesa! Sono figlio della Chiesa!”

E in effetti, durante tutta la conferenza stampa Bergoglio non ha fatto altro che ribadire le posizioni del Catechismo della Chiesa Cattolica. Interrogato sui i gay ha detto che certamente non devono essere discriminati ma nulla più di questo. Interrogato sul ruolo della donna ha detto che la Madonna è più importante degli apostoli ma per quanto riguarda le ordinazioni femminili ha ribadito che “quella porta è chiusa perché la Chiesa ha parlato e ha detto no”. Interrogato sull’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati ha detto che è giunto “il kairòs della misericordia” ma ha rimandato al lavoro della commissione degli otto cardinali.  Interrogato sul suo ruolo di pontefice ha invitato a “non andare più avanti di quello che si dice”: “vescovo di Roma” è solo il primo titolo del Papa, il nodo del primato petrino non è oggetto di discussione.

A mio parere Bergoglio interpreta il suo ruolo di vescovo essenzialmente in una dimensione pastorale: si sente e vuole essere un pastore che ama le sue pecore, che ha bisogno delle sue pecore non meno di quanto esse hanno bisogno di lui, che deve discernere quando è il momento di stare davanti, in mezzo o dietro al gregge, che deve condividere tutto con le sue pecore al punto da portarne addosso l’odore, e così via. E’ un pastore e il pastore non è il padrone del gregge; ne è solo il custode, è il sorvegliante di un bene non suo. Per tale motivo, da buon gesuita, cerca di svolgere diligentemente il suo compito senza prendere iniziative che non gli sono state richieste, senza eccedere il suo mandato. Ecco perché si attiene strettamente alla dottrina della Chiesa. La sua opinione personale non può che coincidere con la dottrina della Chiesa ufficiale e qualora fosse diversa egli per primo la riterrebbe irrilevante. Cambiamenti in materia di dottrina o di etica da lui non ne verranno. Ma non è affatto detto che non ce ne saranno. Già, perché Bergoglio appare come una persona aperta al confronto, disponibile ad ascoltare e a valutare proposte e suggerimenti; lo dimostra la nomina di otto cardinali provenienti dai quattro angoli della terra con il compito non solo di consigliarlo ma anche di costituire una sorta di osservatorio permanente su tutto il panorama ecclesiale. Bergoglio non ha in sé l’indole del riformatore ma la sua fedeltà alla Chiesa è così totale e incondizionata che non esiterebbe a sostenere le più radicali riforme qualora fosse la Chiesa intera a chiederglielo.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it
4.8.2013

martedì 30 luglio 2013

La Chiesa dell'empatia

di Vito Mancuso, in la Repubblica del 30 luglio 2013


È molto probabile che i commenti alle dichiarazioni del Papa sulle persone omosessuali si dividano in due correnti tra loro contrapposte.
Da un lato coloro che desiderano una decisa riforma delle posizioni della Chiesa cattolica intenderanno le parole del Papa come rivoluzionarie, diverse, foriere di cambiamenti. Dall’altro lato coloro che intendono conservare lo status quo leggeranno le stesse parole del Papa come del tutto coerenti con le posizioni di sempre, quelle ribadite più volte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
E occorre dire in verità che, in assenza di atti effettivi di governo da parte di papa Francesco volti a modificare la legislazione canonica vigente, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Il Papa infatti non ha detto nulla che anche Benedetto XVI non avrebbe sottoscritto, dicendo che: 1) le persone omosessuali in quanto tali vanno accolte e per nulla discriminate, mentre gli atti sessuali delle stesse non possono trovare accoglienza all’interno dell’etica cattolica; 2) per i divorziati risposati il primato deve essere assegnato alla misericordia; 3) la donna deve avere più spazio nel governo della Chiesa, anche se la Chiesa non potrà giungere a concederle l’ammissione al sacerdozio, alle donne cattoliche definitivamente precluso.
Perché allora da parte di tutti nel mondo si avverte nelle parole del Papa un senso di novità e di speranza, di innovazioni? Perché questo entusiasmo per parole che nei contenuti non modificano in nulla la tradizionale impostazione etica e dogmatica cattolica? Io penso che sia per il clima di empatia che circonda la persona del Pontefice e per il bisogno di cambiamento e di riforma che i cattolici di tutto il mondo avvertono. Ma soprattutto per la frase, questa sì del tutto innovativa per un Papa, “chi sono io per giudicare?”. Una frase che, a mio avviso, né Benedetto XVI né Giovanni Paolo II avrebbero mai potuto o voluto pronunciare.
Queste parole collocano il Papa non più tra i capi di Stato e i potenti di questo mondo che per definizione giudicano, ma tra i discepoli di Gesù attenti a mettere in pratica le parole del maestro: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati” (Luca 6,37). Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo finalmente all’insegna della novità evangelica (così come lo sono i gesti straordinariamente semplici e potentissimi di questo Papa).
Ho parlato prima di empatia e vorrei sottolineare che l’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos,che significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio, amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla Chiesa.
È infatti insostenibile la posizione cattolica tradizionale riguardo sia alle persone omosessuali, sia alle persone divorziate, sia al ruolo attualmente ricoperto dalle donne all’interno del governo della Chiesa. E occorre coerenza: non si può proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la pari loro dignità di figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto ermeneutiche conseguenti sia della legge naturale (da intendersi in senso formale come armonia delle relazioni e non come definizioni di ruoli e di comportamenti) sia delle pagine bibliche che condannano le persone omosessuali relegando tali pagine accanto a quelle che favoriscono la guerra o l’inimicizia verso le altre religioni (e che non meritano di essere più prese in considerazione).
Occorre cioè giungere all’evangelico “non giudicare” e “non condannare”. Allo stesso modo se veramente si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati occorre mettere in atto una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarvisi senza nessuna discriminazione (segnalo al riguardo il recente libro di Oliviero Arzuffi, Caro papa Francesco. Lettera di un divorziato, Oltre edizioni). Allo stesso modo, infine, se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo).
“Chi sono io per giudicare?”, ha detto il Papa e in questo si è fatto discepolo di Gesù. Ma Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone omosessuali e ai divorziati risposati. Di fronte a lui sta il compito di non deludere l’empatia che lo circonda e le speranze di rinnovamento evangelico di molti credenti e “uomini di buona volontà”.

mercoledì 24 luglio 2013

Ombre sugli altari

Ombre sugli altari. Tutte le riserve sulla canonizzazione di Wojtyla
Da Adista Documenti n. 28/2013

Non sarà elevato agli onori degli altari nei tempi record di Sant’Antonio da Padova, canonizzato dopo solo un anno dalla morte, ma di certo Giovanni Paolo II sarà uno dei più veloci della storia ad essere proclamato santo. Santo subito, si era detto. E santo quasi subito sarà fatto. L’ultimo passo è stato compiuto il 5 luglio scorso, con la firma da parte di papa Bergoglio dei decreti per la canonizzazione di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII, che saranno proclamati santi insieme entro la fine dell'anno. Il papa ha dunque approvato il secondo miracolo attribuito all’intercessione di papa Wojtyla, che sarebbe stato compiuto la sera stessa della beatificazione, il 1° maggio del 2011 (miracolo già approvato il 2 luglio nella riunione plenaria della Congregazione delle Cause dei santi, dopo il placet della commissione medica e di quella dei teologi). Resta ora solo da decidere la data della cerimonia (probabilmente l’8 dicembre), che sarà annunciata da Bergoglio in un concistoro ordinario pubblico: termine ultimo di un iter che aveva preso il via ufficialmente il 28 giugno 2005 (dopo l’autorizzazione concessa da Benedetto XVI ad aprire la causa di canonizzazione senza attendere i canonici cinque anni dalla morte).
Ma se l’iter è stato rapidissimo, e accompagnato da un larghissimo consenso ecclesiale attorno alla figura di papa Wojtyla, non sono mancate neppure voci fuori dal coro. Come quelle di Giovanni Franzoni, l’ex abate benedettino di S. Paolo Fuori le Mura, e di Giulio Girardi, il filosofo e teologo della Liberazione scomparso il 26 febbraio 2012, i quali, già il 5 dicembre del 2005, avevano presentato, presso i locali della nostra agenzia, un “Appello alla chiarezza” sulla beatificazione di Giovanni Paolo II, firmato da un gruppo di teologi e storici della Chiesa, in cui venivano indicati diversi elementi del pontificato di Wojtyla – dall’emarginazione di teologi, vescovi e religiosi alle oscure vicende legate allo Ior – che, a giudizio dei firmatari, avrebbero dovuto essere attentamente valutati prima di proclamare santo il papa polacco (v. Adista n. 87/05).
Ora, con la canonizzazione ormai alle porte, torna a farsi nuovamente sentire la voce critica di Giovanni Franzoni, il quale, peraltro, è stato uno dei circa 120 testimoni a rilasciare, il 7 marzo del 2007, una deposizione personale sull’operato di Giovanni Paolo II, esponendo le proprie fondate riserve rispetto alla sua beatificazione. E proprio al testo di quella deposizione si richiama oggi Franzoni nel suo nuovo appello, da lui inviato per posta a papa Bergoglio l’11 luglio, nel giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la memoria di San Benedetto da Norcia. Lo pubblichiamo qui di seguito, insieme al testo della deposizione del 2007. (claudia fanti)


DOVERE DI OBIEZIONE di Giovanni Franzoni
A Papa Francesco, vescovo di Roma, Chiesa cui dalle origini è attribuito il titolo di una principalità nella carità e nella predicazione dell’Evangelo.
Mosso dall’amore per la Chiesa e per la chiarezza della sua immagine nel mondo che non può essere offuscata da interessi umani, politici o di potere,
incoraggiato dalla manifestazione di disponibilità espressa dal papa Francesco nei confronti non solo di voci autorevoli per il loro ruolo gerarchico e istituzionale ma anche di voci provenienti dalla periferia e dalla base,
avendo deposto presso il tribunale del Vicariato il 7 marzo 2007, nella fase processuale prevista per la beatificazione di Karol Wojtyla, romano pontefice col titolo di Giovanni Paolo II, come testimone a sfavore,
sento il dovere di manifestare la mia obiezione alla prevista canonizzazione di Giovanni Paolo II, anche se le procedure canoniche a tal fine previste non prevedono ulteriori acquisizioni di testimonianze.
La mia testimonianza (poi fatta propria anche da teologi, teologhe e altre persone alle quali è cara la causa dell’immagine della Chiesa nel mondo moderno), benché fosse stata accolta con rispetto dal tribunale e annessa alla documentazione della causa, non ha avuto alcuna risposta né alcuna soddisfazione alle obiezioni opposte.
Ritengo, dunque, importante riproporre le stesse obiezioni, che allego, perché ritenute da me ancora del tutto valide. Nel frattempo sono costretto ad aggiungere un’altra obiezione: in questi ultimi anni non solo si è manifestata con crescente peso la piaga dell’abuso di minori da parte del clero, secolare o religioso, ma anche lo scandalo dell’occultamento di questi casi da parte di molti nella gerarchia ecclesiastica.
La pratica dell’occultamento – oggi superata con una sommaria definizione di “tolleranza zero”, ma eccessivamente indulgente verso le responsabilità dello stesso romano pontefice, Giovanni Paolo II, e della Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta in quegli anni dal cardinal Joseph Ratzinger – pesa come responsabilità non solo su alcuni vescovi diocesani ma anche sui vertici della gerarchia stessa.
In modo particolare, nella pratica dell’occultamento delle responsabilità pare coinvolto il papa allora regnante soprattutto nel caso del cardinal Groër, fatto arcivescovo di Vienna nonostante perplessità ed opposizioni dell’episcopato austriaco.
Pur riconoscendo doti di generosità pastorale e di coraggio in Giovanni Paolo II, nel suo esercizio del ministero petrino, penso che non si possa spendere, per lui, l’aureola della santità, ma ci si debba limitare, con rigorosi criteri storici, ad una obiettiva valutazione del lungo percorso del suo pontificato.
La riabilitazione di teologhe e teologi emarginati o puniti per la loro ricerca e la denuncia della corresponsabilità di certi prelati nell’occultamento di casi di pedofilia del clero potrebbero rappresentare un più forte atto di coraggio della Chiesa romana per proporre un volto evangelico al mondo di oggi bisognoso di chiarezza ed onestà.
Devotissimo in Cristo, Giovanni Franzoni
Roma, 11 luglio 2013, in Festo Sancti Benedicti

IL PESO DELLE CONSEGUENZE
Testo della deposizione di Giovanni Franzoni
L’apertura ufficiale, il 28 giugno del 2005, della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II ha sollecitato tutti i cattolici, uomini e donne, che si sentono partecipi e responsabili della vita della loro Chiesa, ad inviare le loro testimonianze sulle opere del romano pontefice scomparso il 2 aprile precedente.
Come era stato correttamente annunziato, potevano essere inviate, all’ufficio competente del Vicariato di Roma, sia testimonianze a favore che testimonianze contrarie alla glorificazione di Karol Wojtyla, purché tutte fondate su dati obiettivi.
Valutando, in tutta scienza e coscienza, il pontificato di Giovanni Paolo II, un gruppo di cattolici (teologi, teologhe, storici), al quale mi sono unito, ritenne che le dichiarazioni pubbliche sul pontefice scomparso, e le iniziative suscitate per favorire la sua causa di beatificazione, fossero spesso caratterizzate da una valutazione superficiale ed acritica del suo operato. E perciò, nel rispetto di altri e differenti pareri, lo stesso gruppo, a dicembre 2005, pubblicò un Appello, confermato e firmato anche da altri esattamente un anno dopo e quindi inviato al Vicariato di Roma, nel quale metteva brevemente in luce quelli che, a parere dei sottoscrittori, erano dei pesanti limiti del pontificato.
È naturale che un pontificato durato quasi 27 anni sia carico di eventi, variamente valutabili. Se, in quell’Appello, erano sottolineati quelli, a giudizio dei firmatari, “negativi”, non si presumeva certo, con questo, di ignorare gli aspetti “positivi” del pontificato e, perciò, si ricordava in particolare l’impegno di Wojtyla contro la guerra, il suo generoso spendersi nell’attività di pastore, il tentativo di ammettere le colpe storiche dei figli e figlie della Chiesa nel passato.
Nello stesso spirito dell’Appello, e lasciandolo sullo sfondo, in questa deposizione, ora, come testimonianza personale, vorrei precisare le ragioni delle mie fondate riserve alla beatificazione di papa Wojtyla.

IL CASO IOR-BANCO AMBROSIANO
Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior) in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che i giudici italiani erano giunti alla conclusione che mons. Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e che, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.
La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti Lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un ambito, e in uno Stato, in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione, nel luglio 1987, diede ragione alle tesi vaticane. Senza entrare in questioni giuridiche, la domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa; il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla diede allora, e offre anche oggi, motivi fondati per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione finanziaria della Santa Sede.
Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti Lateranensi per evitare l’estradizione di mons. Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «Desidero poi ringraziarvi in modo particolare per l’attenzione che avete dato alla questione dell’Istituto per le Opere di Religione. Una riunione di 15 Cardinali, com’è noto, ha previamente studiato la cosa prima che il Collegio Cardinalizio si radunasse qui, in questi giorni. Si tratta di una questione delicata, complessa, che è stata soppesata in tutti i particolari: voi ne avete avuto una esposizione adeguata, e avete potuto rendervene conto per quei suggerimenti che siano necessari. La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore».
Mai parole tanto impegnative sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per accertare la verità. È vero: ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus, ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non è apertamente emersa. Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente grave, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restìa a indagare sullo scandalo con trasparenza e spirito evangelico.

LA BEATIFICAZIONE DI PIO IX
Quando, a fine 1999, fu annunciato che, di lì a pochi mesi (sarebbe effettivamente accaduto il 3 settembre del 2000), il papa avrebbe beatificato insieme Pio IX e Giovanni XXIII, da molte parti emersero fortissime perplessità. Non solo per l’“abbinamento” voluto da Wojtyla – dall’evidente significato di accontentare, da una parte, i “tradizionalisti” e, dall’altra, i “progressisti” – ma per un motivo ben preciso, legato alla vicenda di Edgardo Mortara.
Protetto da Pio IX, l’inquisitore di Bologna nel 1858 aveva fatto rapire alla famiglia Mortara – un’illustre famiglia ebraica – il piccolo Edgardo (Gad), battezzato nascostamente da una domestica. Era inevitabile, secondo Pio IX, che esso fosse sottratto con la forza alla famiglia di origine: «I diritti del Padre celeste vengono prima di quelli del padre terreno», sostenne sempre il pontefice per giustificare la sua decisione e procedere ad una educazione cristiana del fanciullo.
In questione non è la coscienza di Pio IX che fece le sue scelte – in un dato contesto storico e culturale – ritenendo di fare il meglio possibile. In questione è il fatto che un “beato”, molti anni o anche secoli dopo la sua morte, e dunque in un altro contesto storico, culturale ed ecclesiale, viene proposto a tutti i fedeli come esempio da imitare.
Ora, all’alba del Duemila, e quattro decenni dopo il Concilio Vaticano II, all’interno della Chiesa cattolica romana si era enormemente accresciuta la sensibilità (pastorale e teologica) sul tema del rapporto Chiesa/popolo d’Israele. Perciò, elevare agli onori degli altari un papa che aveva fatto rapire un bambino ebreo battezzato era una provocazione. Infatti, la domanda non era, e non è, se Pio IX fosse in buona fede, ma quale significato assumesse nel nostro tempo proclamare beato un papa che agì con sensibilità opposta a quella attuale dei cattolici ed allo spirito del Concilio Vaticano II.
Dopo i gesti coraggiosi (basti citare la sua visita alla grande Sinagoga di Roma, del 1986, e al Muro del pianto di Gerusalemme, nel marzo del 2000) da lui compiuti verso il popolo ebraico, l’annunciata beatificazione di Pio IX appariva contraddittoria ed incomprensibile. Mi domando se, in questo caso, Wojtyla abbia osservato le virtù della prudenza e della temperanza (l’invito ad avere, nell’agire, il senso della misura).

I DIRITTI UMANI VIOLATI
Il pontificato di Giovanni Paolo II è costellato di decisioni sue, o di organi ufficiali della Curia romana (in particolare della Congregazione per la Dottrina della Fede), che in sostanza hanno in vario modo punito la libertà di ricerca teologica: teologi, teologhe, studiosi non “in linea” sono stati allontanati dalle loro cattedre, o impediti di proseguire le loro ricerche. Non voglio qui fare il lungo elenco dei castigati: mi permetto di rinviare alla lista, non esaustiva, compilata dall’agenzia Adista (numero 76 del 2003). Si noterà facilmente che molti dei teologi messi sotto processo o esonerati da importanti incarichi avanzavano delle ipotesi per un’etica sessuale più vicina alla condizione di vita delle persone e particolarmente delle famiglie. Un’etica, vorrei sottolineare, non di svendita del Vangelo, ma aperta ad un confronto positivo con la cultura moderna, e capace di distinguere responsabilmente, per valutare le “normative” sessuali proposte, tra ciò che è perenne volontà di Dio e ciò che è frutto di condizionamenti storici e culturali. In tale direzione, preziosa è stata l’opera di p. Bernhard Häring, un teologo moralista di vasta dottrina, di grande umanità, di cristallina audacia evangelica. Ebbene, sotto il pontificato di Wojtyla, una tale personalità è stata emarginata ed umiliata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Nella maggior parte dei casi le procedure adottate da Roma per punire gli indiziati non soddisfano lo standard che nei Paesi occidentali si esige perché un processo sia considerato giusto, e comunque i provvedimenti punitivi non hanno dato all’imputato il modo di difendersi adeguatamente.
Questa situazione è particolarmente stridente in un papa che è andato pellegrino in tutto il mondo a proclamare le esigenze della giustizia e l’intangibilità dei diritti umani.
Aggiungo che, di norma, Wojtyla non volle mai ricevere pubblicamente in udienza i “dissenzienti” o compiere verso di essi un gesto di amicizia. Un tale atteggiamento era il corollario inevitabile dell’intransigente “difesa della verità”? Non necessariamente; e a smentire Giovanni Paolo II è stato lo stesso suo successore che, pochi mesi dopo la sua elezione, ricevette in udienza Hans Küng.
D’altra parte, la storia della Chiesa e delle Chiese dimostra che condanne affrettate hanno soffocato idee che, con il passare del tempo, si sono invece rivelate più giuste di quelle, un tempo, ufficiali. Anche per questo, mi pare, Wojtyla è stato assai imprudente nel voler troncare molti virgulti. In questo modo è stata repressa la teologia della liberazione, la teologia delle donne e la teologia conciliare.

L’EMERGENZA DELLA QUESTIONE FEMMINILE
Le crescenti e diffuse richieste di piena partecipazione della donna alla vita della Chiesa sono state da Wojtyla soffocate. Senza entrare qui nelle problematiche teologiche dei ministeri femminili o della donna-prete, si deve rilevare che il pontefice ha accuratamente evitato di permettere, in proposito, un ampio dibattito, ad esempio in un Sinodo dei vescovi ad hoc, o ascoltando pubblicamente un’ampia e variegata rappresentanza delle donne.
Pur avendo esaltato più volte il “genio femminile”, ed avendo dedicato alla “dignità della donna” una lettera apostolica (la Mulieris dignitatem), in realtà Wojtyla non ha ascoltato le richieste delle donne; le ha solo interpretate a modo suo per conservare lo status quo dell’istituzione ecclesiastica.
Avendo negato, a livello istituzionale, un reale dibattito sulla “questione donna”, Wojtyla si è assunto la responsabilità di impedire che varie posizioni emergessero, si confrontassero pubblicamente, si arricchissero nel reciproco ascolto e nella comune ricerca della volontà di Dio.

LA VICENDA DI OSCAR ROMERO
È in atto il tentativo – così a me sembra, leggendo i più recenti libri su mons. Oscar Romero scritti da persone “sensibili” ai desiderata della Curia romana – di descrivere come idilliaci i rapporti tra l’arcivescovo di San Salvador e il papa. Credo che tale descrizione non corrisponda alla realtà, e che, al contrario, essa sottenda il forte desiderio di proporre, sulla vicenda, un Wojtyla “comprensivo” che non è esistito.
Varie testimonianze, tutte basate su affermazioni di mons. Romero, concordano nel dire che il papa accolse con freddezza Romero quando (1979) lo ricevette in udienza in Vaticano. In proposito posso portare anche un’esperienza personale.
Nel febbraio 1989 ho incontrato a Managua una ex religiosa – María López Vigil – che lavorava presso il Centro ecumenico Valdivieso. Essa mi confermò di aver incontrato a Madrid mons. Romero di ritorno da Roma (siamo sempre nella primavera del 1979) e di averlo trovato “costernato” per la freddezza con cui il papa, durante l’udienza, aveva valutato l’ampia documentazione, da lui stesso fatta pervenire in Vaticano, circa la violazione dei diritti umani e della vita di quanti si erano opposti, anche fra i suoi diretti collaboratori, all’oppressione esercitata dal governo salvadoregno sulla popolazione. Oscar Romero avrebbe ricevuto dal papa una secca esortazione ad andare “più d’accordo” con il governo. A commento di quell’udienza – mi riferì ancora María López Vigil – Romero disse alla ex religiosa: «Non mi sono mai sentito così solo come a Roma».
Il “clima” di quella famosa udienza non appare nella sua drammaticità dal diario di Romero, che ad essa pure fa cenno. Ma trarre da tale silenzio una prova per smentire la successiva, e ben più realistica, “confessione” dell’arcivescovo mi sembrerebbe un’operazione apologetica per salvare Wojtyla. È evidente, infatti, che nella difficilissima situazione in cui si trovava, Romero “non poteva” condannarsi da solo, dicendo che il papa lo aveva rimproverato di “fare politica”. Tanto meno poteva dirlo dal pulpito della cattedrale del Salvador. E, tuttavia, perché la verità si sapesse, e quasi a futura memoria, agli amici più intimi raccontò quanto anch’io, tra altri, ho appreso poi da fonte diretta.
Al di là della vicenda dell’udienza, è un fatto che Wojtyla non fece gesti pubblici e inequivocabili per mostrare di essere dalla parte di Romero, e di sostenerlo. Ancora: se avesse voluto dire al mondo, con un gesto riconoscibile anche dai più umili, di essere dalla parte dell’arcivescovo, Wojtyla lo avrebbe pur potuto creare cardinale nel suo primo concistoro (giugno 1979).
La verità è che, in oltre 26 anni di pontificato – e, cioè, sia prima che dopo la caduta del muro di Berlino – Wojtyla ha mostrato, mi pare, un’incapacità radicale di cogliere la sensibilità di quei milioni di persone che vedevano in Romero un martire della giustizia, e la fondatezza pastorale ed evangelica di quei cristiani – religiose, preti, vescovi, laici, uomini e donne – che si ispiravano alla Teologia della Liberazione. Una teologia con la quale, agli inizi, lo stesso Romero riteneva di non essere in sintonia, e della quale poi finì per incarnarne in modo esemplare lo spirito.
Nessun vescovo dell’America Latina apertamente schierato con la Teologia della Liberazione è stato creato da Wojtyla cardinale: non che essi cercassero tale onore, ma, nell’attuale sistema ecclesiastico, sarebbe pur stato importante che il papa mostrasse apertamente la sua stima dando all’uno o all’altro la porpora. Non solo: Wojtyla ha portato nella Curia romana prelati latinoamericani apertamente ostili a Romero, accaniti avversari della Teologia della Liberazione e anche, talora, non troppo coperti amici di dittatori.
Se, in tutte queste vicende, Wojtyla si sia segnalato per la virtù della prudenza è tema che ritengo meriti approfondita riflessione. Molti dubbi, comunque, sono leciti. In particolare, non vi sono segni che egli si sia chinato per cercare di capire una “pastorale” e una “teologia” diverse dalle sue.

IL CONCUBINATO DEL CLERO
Non intendo esaminare qui tutta l’ampia problematica del celibato sacerdotale, cioè l’insieme delle ragioni storiche, bibliche, ecclesiali che oggi ne consigliano, o meno, il mantenimento nella Chiesa cattolica di rito latino. Voglio solo affrontare uno spicchio di tale realtà: il concubinato del clero. Con ciò non intendo affatto dire che tutto il clero sia oggi concubinario: assolutamente no! Tutti conosciamo preti lieti e fedeli al loro celibato e carichi di umanità. Ma certo, per una parte, sia pure limitata, del clero, il problema esiste.
Ricordo un episodio: quando, come “padre” conciliare, ero al Vaticano II, avevo come vicino di banco un vescovo dell’America Latina. Questi rimase molto male quando Paolo VI avocò a sé la questione della legge del celibato nella Chiesa latina, impedendo dunque al Concilio di discuterne liberamente. In tale situazione mi disse: «Caro padre abate, e adesso come faccio, dato che nella mia diocesi tutti i preti sono concubinari? Ero venuto in Concilio proprio per favorire l’abolizione della legge del celibato!».
Già incombente ai tempi di Paolo VI, la questione del celibato si è fatta ancor più grave sotto Giovanni Paolo II. A questo papa imputo come scelta assai temeraria quella di avere impedito, in proposito, un reale dibattito ai vari livelli della Chiesa.
Wojtyla ha talmente insistito sulla “saldatura” tra ministero presbiterale e celibato da occultare l’esperienza dei sacerdoti delle Chiese cattoliche orientali, spesso sposati. Ma, soprattutto, la sua esasperata difesa della legge in atto ha dimenticato un particolare decisivo, che un pastore saggio in alcun modo potrebbe ignorare: il problema dei figli dei preti e delle donne dei preti.
Obbligando i preti latini che, in relazioni clandestine, avessero avuto dei figli ad assumersi apertamente le loro responsabilità, e dunque a sposarsi per essere – coram populo – padri amorosi dei loro figli e sposi affettuosi di donne non più tenute nascoste, si compirebbe un gesto di giustizia. Ribadendo invece astrattamente la legge del celibato, di fatto si esimono questi presbiteri dall’assumersi le loro responsabilità e si permette loro di continuare a trattare le madri dei loro figli come persone senza diritti.
Sono migliaia e migliaia, nel mondo – dalla Germania al Brasile al Congo – i figli dei preti che non hanno diritto di avere una normale famiglia, essendo il loro padre “inesistente”. Una tale situazione lede molti diritti umani, e stringe il cuore. È impressionante che Wojtyla non abbia mai voluto affrontare pubblicamente questo “tabù”, preferendo le certezze dell’istituzione alle dolorose conseguenze derivanti dall’addentrarsi con realismo nelle problematiche concrete della vita, spesso assai complicate.
Tema differente, ma sempre legato al clero, è quello delle violenze sessuali di preti contro minori. La sgradevole impressione che si ha, in proposito, è che Wojtyla abbia affrontato questa piaga tremenda solo quando essa esplose negli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni Novanta.

LE DIMISSIONI DAL PONTIFICATO
Una delle conseguenze più corpose, perché più incidenti nella realtà, del Vaticano II è stata la norma, infine stabilita dal nuovo Codice di Diritto Canonico, che sollecita i vescovi che compiono 75 anni a presentare le loro dimissioni al papa, che valuterà caso per caso.
Non so se si sia riflettuto sino in fondo sulla “teologia” che sottostà a tale norma: una volta, infatti, si diceva che il vescovo è lo “sposo” della sua Chiesa, cioè della sua diocesi, e perciò l’ama fino alla fine, cioè – in linea di principio – ne resta titolare fino alla morte. Perché mai, infatti, uno sposo non sarebbe più tale quando è avanti con gli anni?
Ad ogni modo, ammesso il principio non solo della legittimità, ma anche dell’opportunità delle dimissioni dei vescovi diocesani a 75 anni, non si comprende perché a tale normativa si sottragga il vescovo di Roma. Anche se non giuridicamente, ma di sicuro moralmente, egli dovrebbe essere il primo ad applicare una tale legge. Perché è il re il primo servo delle leggi di tutti.
Invece, quando Wojtyla compì i 75 anni, e ancor più quando, più tardi, andò aggravandosi in modo irreversibile la sua malattia, impedendogli un reale controllo della Curia romana, a chi direttamente o indirettamente gli suggeriva di rassegnare le dimissioni, egli rispondeva che «Cristo non si dimise dalla croce».
Vi è una contraddizione teologica grande nel ragionamento di Wojtyla: perché mai sarebbe normale che, a 75 anni, un vescovo (che magari sta ancora bene in salute) si dimetta dalla sua diocesi, e sarebbe inaudito invece che nella stessa situazione si dimettesse il vescovo di Roma?
A me pare che da tale ragionamento emerga un substrato che considera il papa un “super vescovo”, ma questo è del tutto contrario alla Lumen gentium. La mistica della sofferenza connessa con il papa che, in quanto tale, “non può” dimettersi senza tradire il Cristo sofferente confligge con la decisione giuridica e pastorale adombrata dal Vaticano II che chiede al vescovo “normale” di scendere dalla croce e lasciare in altre mani la diocesi.
Se la “resistenza” di Wojtyla fino alla fine è, per alcuni, un segno di particolare fedeltà al proprio dovere, a me suscita invece molte perplessità, e mi induce appunto a domandarmi dove, in tale dolorosa vicenda, lui abbia dimostrato in modo forte le virtù dell’umiltà e della prudenza.

L’UOMO WOJTYLA, PAPA WOJTYLA
Ho limitato le mie riflessioni all’operato di Karol Wojtyla dal 16 ottobre 1978 al 2 aprile 2005, e cioè al suo operato come pontefice. Nulla io so, direttamente, della sua vita precedente in Polonia, e su di essa nessun giudizio posso esprimere.
In rapporto alla beatificazione, credo che non si possa evitare questa domanda: è possibile, in un papa, distinguere la persona dal suo ruolo, le virtù private dalle decisioni pubbliche?
Su questa terra nessuno può giudicare la coscienza dell’altro; solo il Signore può farlo. Tuttavia, in questo processo canonico, è necessario domandarsi se la vita di Giovanni Paolo II – così come valutabile dall’esterno – sia stata una trasparente testimonianza di quello spirito evangelico e di quelle virtù teologali e cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) che debbono rifulgere in grado altissimo in un “candidato” alla gloria del Bernini.
Esaminando i pochi fatti sopra elencati, appare evidente come sia difficile, per non dire impossibile, distinguere tra le scelte dell’uomo Wojtyla e di Wojtyla papa. Ora, è vero che, qualora lo si proclamasse “beato”, si preciserebbe che ciò avverrebbe per aver accertato che egli visse le virtù in modo eroico, ma non si intenderebbe con questo “santificare” tutte le sue scelte come pontefice. In teoria, la distinzione corre; ed infatti – per rispondere in qualche modo alle critiche per la sua incredibile decisione – la propose lo stesso Wojtyla nel discorso in cui spiegò perché beatificava papa Mastai Ferretti. Nei fatti, però, essa è zoppa, come dimostrarono appunto le reazioni alla vicenda di Pio IX.
Perciò ritengo che nella beatificazione di un papa debba essere attentamente considerato il peso delle conseguenze – nella società civile e/o nella Chiesa cattolica romana – delle sue azioni od omissioni, quale che fosse la sua motivazione personale soggettiva per attuarle o per evitarle; e, in particolare, non dovrebbero essere ignorate, quasi non fossero anch’esse parte in causa, le sofferenze causate a molte persone da decisioni imprudenti o autoritarie, sia pure soggettivamente addotte in buona fede.


giovedì 18 luglio 2013

Perchè promuovere i papi due per volta?

di Philippe Clanchè
in “cathoreve.over-blog.com” del 17 luglio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Alla fine dell'anno potremmo vedere canonizzati due pontefici. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno superato venerdì 5 luglio l'ultima tappa ufficiale prima della santità e si parla di una cerimonia di canonizzazione nel dicembre prossimo a Roma. Dovrei rallegrarmi che la Chiesa esprima in maniera definitiva la sua riconoscenza verso Giovanni XXIII, deceduto 50 anni fa. Ma il metodo mi innervosisce.
Poiché quel giorno di festa apparirà, agli occhi del mondo, come la festa della star planetaria Giovanni Paolo II. Avendo visto l'isteria collettiva che ha caratterizzato la beatificazione del papa polacco nel maggio 2011, quelli che dal 2005 gridano “santo subito” avranno occhi solo per il loro campione. A parte i più anziani e i più nostalgici dell'epoca in cui la Chiesa cercava di parlare al mondo, chi altri evocherà la figura di Angelo Roncalli?
Già nel 2000, il padre visionario del Concilio Vaticano II aveva dovuto condividere gli onori della beatificazione con il suo esatto opposto Pio IX. Quest'ultimo, pontefice dal 1846 al 1878, fu l'uomo di tutte le resistenze alle evoluzioni delle società occidentali del XIX secolo. A lui si deve il sinistro Syllabus, catalogo delle idee da proscrivere, tra le quali la separazione della Chiesa e dello Stato, le libertà di stampa, di opinione e di religione, il razionalismo, il progresso, la cultura moderna... E fu anche il padre dell'infallibilità pontificia.
Tredici anni dopo, l'ex nunzio a Parigi deve ancora essere accostato ad un altro pontefice. E non con uno qualsiasi. Pur senza quell'enorme distanza surrealista del duo del 2000, onorare Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II in un'unica cerimonia fa problema.
È vero che i due pontefici furono incontestabilmente i più popolari del secolo scorso, ma i loro ruoli resteranno molto diversi nella storia del cattolicesimo. L'italiano fu l'uomo della grande apertura ecclesiale (alle altre religioni, ai laici, ai non credenti). Mentre il polacco, erede di Paolo VI, si è impegnato a far regredire certe intuizioni pastorali del suo predecessore (pensiamo alle teologie della liberazione, distrutte dalla nomina di vescovi conservatori) o ecclesiali (come l'abbandono della collegialità episcopale).
Si potrà anche opporre il primo papa che si è rivolto “agli uomini di buona volontà” a quello che ha chiuso gli occhi sui crimini pedofili rivelato sotto il suo pontificato, per proteggere l'istituzione. O anche mettere sulla bilancia l'invito fatto alle altre Chiese cristiane durante il Concilio e la scarsa considerazione per le Chiese protestanti, come il magro bilancio ecumenico del pontificato wojtyliano.
Un punto comune avvicina i due uomini: il loro ruolo nella politica internazionale. L'italiano ha contribuito ad evitare che la crisi di Cuba (1962) degenerasse in un terzo conflitto mondiale, mentre il polacco ha partecipato in maniera forte al crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'est. All'elenco dei motivi di vicinanza si potrà aggiungere un gusto pronunciato per il dialogo interreligioso.
Ciò non toglie che certi eterni scontenti penseranno che il Vaticano ha fatto ancora una volta una scelta diplomatica per motivi interni, evitando che Giovanni XXIII e il suo Concilio, ufficialmente difeso ma detestato in privato da molti, vengano posti su un piedistallo. Si può anche vedere in questo una concessione del nuovo pontefice, conciliare convinto, a certi membri della Curia, a cui si possono più facilmente accostare delle fotografie di Pio IX il rigorista o di Pio XII il severo, che del “papa buono” Giovanni XXIII.
Nel momento in cui si riparla di una futura beatificazione di Mons. Oscar Romero, caduto nel 1980 per mano dell'estrema destra salvadoregna da lui accusata, abbiamo motivo di temere il personaggio che il Vaticano gli troverà come compagno d'allori. Se quei signori della Congregazione per la causa dei santi volessero un'idea, io consiglierei Dom Helder Camara! Un binomio coerente per onorare il cristianesimo latinoamericano.

martedì 16 luglio 2013

La riforma della curia romana

LA RIFORMA DELLA CURIA ROMANA. Stimoli dal punto di vista dell’economia aziendale
di André Zund (pubblicato sulla rivista cattolica tedesca Stimmen der Zeit, 16 luglio 2013)
 

La curia romana va considerata, per una volta, da altre prospettive. Voglio tentare di applicare sensatamente alla chiesa cattolico-romana conoscenze provenienti dal bagaglio di sapere e di esperienze  proprio dell’imprenditoria. I funzionari che ruotano attorno al papa hanno copiato spesso, nel corso della storia, le strutture di governi secolari. Imparare da esperienze proprie del mondo non è dunque contrario alla tradizione del Vaticano, anzi è tradizione antica. La chiesa d’oggi può imparare qualcosa anche dagli esperti di management.


Chiesa universale e gruppi societari mondiali
La chiesa non è un’impresa  (sebbene qualcuno abbia già parlato anche di una “impresa di servizi pastorali”); la chiesa universale non è una multinazionale. E tuttavia esistono dei parallelismi tra la chiesa universale e una holding mondiale: si potrebbe, ad esempio, analogamente ad un gruppo societario mondiale, indicare la chiesa cattolica romana come un insieme di chiese locali e particolari che formano una unica comunità ecclesiale sotto una direzione unitaria. Sia per gruppi societari che per la  chiesa vige lo stesso principio: unità nella pluralità.

Tra chiesa universale e gruppi societari mondiali ci sono dunque le seguenti caratteristiche comuni: sono entrambi dei sistemi che operano in ambienti differenti, hanno una direzione unitaria, presentano una struttura gerarchica, devono trovare una via di mezzo tra centralizzazione e decentralizzazione dei processi decisionali e devono lottare contro la burocrazia. Le differenze stanno soprattutto nel fatto che la chiesa non è soltanto una organizzazione sociale;  stando alla sua comprensione, essa è di origine divina e ha un mandato divino.


La curia attuale: un prodotto della storia e non della teoria del management
La curia romana è paragonabile ad un complesso edificio antico, al quale, nel corso del tempo, sono stati aggiunti fabbricati dei più diversi stili architettonici e le cui facciate sono state, di epoca in epoca, nuovamente dipinte, senza che siano state ogni volta sottoposte ad un rinnovamento complessivo.

Gli inizi della curia risalgono agli ultimi secoli del primo millennio, quando un piccolo numero di persone aiutava il vescovo di Roma nella gestione delle attività di amministrazione e di redazione dei documenti. Una prima spinta alla centralizzazione si registrò nella seconda metà del secolo XI e nel secolo XII, quando con la riforma di papa Gregorio VII ebbe luogo un trasferimento del potere al concistoro dei cardinali. Ne seguì un incremento del  personale di curia; alle funzioni centrali, in continua espansione,  in particolare alla funzione finanziaria, si aggiunse infatti anche una istanza giuridica di appello. Il nepotismo dei papi del Rinascimento appoggiò gli sforzi assolutistici per una monarchia papale. La riforma di papa Sisto V, del 1588, divise il concistoro in ambiti specifici sotto la direzione di cardinali, le cosiddette Congregazioni, cosa che fece diventare la curia una struttura burocratica difficilmente gestibile, che si identificò sempre di più con il vertice monarchico, ossia con il papa.

Nel secolo XIX la perdita dello stato della chiesa riportò la chiesa romano-cattolica alle sue dimensioni spirituali, e il concilio Vaticano I dichiarò, quasi a compensare la perdita del potere secolare, il dogma della infallibilità del papa in questioni di fede e di morale. La riforma di papa Pio IX  si limitò a sciogliere congregazioni divenute obsolete e a creare la congregazione dei sacramenti, che si doveva contrapporre alla secolarizzazione del matrimonio che andava imponendosi. La Segreteria di Stato divenne il vero e proprio organo di intervento del papa. Neppure il concilio Vaticano II potè intraprendere una riforma della curia perché il papa la riservò a sé come una questione di sua specifica competenza. Negli anni 1967 e 1968 papa Paolo VI, egli stesso uomo di curia, diede mano ad una riforma della curia. Questa comportò sì una quantità di ridenominazioni, di chiarificazioni di competenze, di fusioni e ripartizioni, ma nessuna riforma strutturale. Nemmeno papa Giovanni Paolo II riuscì a fare una vera e propria riforma della curia. Ebbero più successo i suoi sforzi per le finanze del Vaticano, sforzi che in seguito ai noti scandali, portarono a decisioni su un migliore controllo della gestione finanziaria e ad una maggiore comunicazione dei bilanci.

Oggi la curia romana è formata dalla Segreteria di Stato, nove Congregazioni, undici Consigli, tre Tribunali, nonché di ulteriori Segretariati e uffici. Le mini-riforme finora compiute della curia non introdussero alcun cambiamento di paradigma, ma rimasero attaccate all’immagine della chiesa finora nota, di stampo medioevale, anzi  rafforzarono – per lo più in modo sottile – l’orientamento centralistico della curia quale strumento di potere  di un papato monarchico. Quale forma la curia debba assumere in futuro, dipende essenzialmente dall’idea di governo della chiesa, ossia dal modello di chiesa.


Due modelli di chiesa in contrapposizione
Due modelli di chiesa stanno uno di fronte all’altro: da una parte, quello ancorato nell’autoritarismo romano-cattolico, che comprende la chiesa in modo gerarchico, centralistico e uniforme, e dall’altra parte quello ancorato nel paradigma postmoderno contemporaneo ed ecumenico, che si radica in un’idea collegiale di chiesa. Dopo il concilio, il cardinale Leon-Joseph Suenens ha definito, in un’intervista, i due modelli di chiesa secondo l’angolo visuale di centro e periferia della chiesa. Nella chiesa le tensioni tra il “centro”, Roma, e la “periferia”, il resto della chiesa universale, scaturiscono, secondo lui, dalla tensione tra due diverse modalità di considerare la chiesa: una, che parte dal “centro” e va verso la “periferia”, ad esso subordinata; l’altro, che parte dalle chiese locali autonome, unite alla chiesa di Roma quale centro dell’unità tra tutte.


Montesquieu ante portas
I rappresentanti della chiesa non si stancheranno di ripetere che la chiesa non è una moderna democrazia e che perciò non è tenuta a seguire alcun principio dello stato di diritto, quasi fosse un merito poter rinunciare ancor oggi alle conquiste della Rivoluzione Francese. La questione è soltanto questa: se una istituzione universale del genere, con la sua elevata pretesa morale, all’inizio del terzo millennio sia credibile abbastanza per trovare nel mondo ascolto e rispetto, come essa propriamente meriterebbe. Una fondamentale idea filosofico-politica, che è alla base di ogni costituzione moderna, purtroppo nella chiesa cattolica è ancora poco penetrata: si tratta della dottrina della separazione dei poteri, che risale a Montesquieu, per impedire abusi di potere. Se un prestito dall’ambito secolare ha realmente senso, è proprio l’accettazione di provati principi propri dello stato di diritto, quale la divisione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario.

Secondo questo principio, il potere supremo nella chiesa potrebbe,  a grandi linee, articolarsi nel modo seguente:

Esecutivo: un potere collegiale al posto di un vertice monarchico, come si mostrerà più avanti.

Legislativo: il sinodo dei vescovi. Nella chiesa esso deve passare da un organo consultivo (finora ampiamente inefficace) del papa a un organismo (realmente in grado di con-decidere) a carattere legislativo. Ad esso dovrebbe essere assegnato – analogamente alla corte dei conti e agli organi parlamentari di vigilanza presenti negli stati – uno strumento di verifica. Come tale potrebbe fungere la prefettura per le faccende economiche, a cui finora è stata affidata la revisione interna della curia e che potrebbe diventare un organismo autonomo con funzioni di controllo finanziario, di controllo del sistema e di controllo della gestione amministrativa.

Giudiziario: esso è dato dai tre tribunali della curia: la Penitenzieria Apostolica, che si occupa di scomuniche da parte della Santa Sede; la Sacra Romana Rota, che per lo più impegna autorità giudicanti e nella quale si trattano principalmente processi relativi alla nullità dei matrimoni; inoltre, la Segnatura Apostolica, il supremo tribunale della chiesa, del cui ambito di competenza fa parte la giurisdizione amministrativa.

Al centro dell’interesse, per quanto riguarda la chiesa, sta l’esecutivo, a cui intendiamo rivolgere l’attenzione in quanto segue.


La futura guida della chiesa: un organismo collegiale di governo
Le odierne direzioni d’azienda sono,  nella stragrande maggioranza dei casi, strutture collegiali con differenti organizzazioni interne. Nei gruppi societari mondiali un vertice costituito da un uomo solo si trova solo molto raramente  - il francese PDG (Presidént- Directeur Générale) può essere un esempio -  ma poi tale vertice è inserito in un sistema di “checks and balances”, come lo conosciamo a partire dalle istituzioni del Presidente francese e specialmente di quello americano. Con una direzione collegiale d’azienda si contrasterà il rischio di una conduzione centrata puramente sulla personalità e perciò fondamentalmente instabile, che determina mancanza di continuità.  Un collegio troppo grande è inadatto a dirigere operativamente un sistema complesso, perché è troppo pesante. A un organismo, i cui membri non operano in modo pienamente ufficiale, manca la caratteristica della disponibilità in ogni momento, un requisito di cui hanno bisogno specialmente le strutture collegiali più piccole. Da sconsigliare, per quanto riguarda la direzione operativa, è anche un sistema di conduzione duale, come papa e collegio episcopale, e questo sulla base di esperienze negative in economia e in politica, dal momento che in questo modello conflitti interni di competenza sono nocivi per l’efficienza della gestione.

Che cosa si può dedurre per la chiesa dalla dottrina e dalla prassi che riguardano modelli imprenditoriali di direzione?  Sulla base della prospettiva del management, al posto del papato nella sua forma odierna e del collegio episcopale, sarebbe pensabile un organismo formato da cinque  a nove persone, ossia un gruppo-nucleo nel quale il papa dovrebbe avere assolutamente una posizione più forte di quella di un semplice “primus inter pares” oppure di un portavoce dell’organo direttivo. Mi sembra importante che l’odierna distanza gerarchica tra il papa e i suoi più importanti responsabili di compiti direttivi venga eliminata e sia sostituita da un collegium con responsabilità collettiva. In questo organo supremo di direzione dovrebbero prendere posto personalità con esperienza di direzione, provenienti da dicasteri  decisivi e da regioni importanti. Se i singoli membri dell’organo di direzione si possano concentrare solo sulle decisioni da prendere in comune oppure se, oltre a ciò, possano assumere anche una responsabilità operativa, andrebbe dettagliatamente chiarito; infatti, entrambi i modelli presentano vantaggi e svantaggi. Non è possibile dare un consiglio univoco su come agire. Una affermazione tendenziale dice che il modello della unione personale, il cosiddetto “principio dei due cappelli”, nasconde il pericolo del sovraccarico dei dirigenti con compiti generali e specifici e del potenziale imporsi di egoismi di settore. Viceversa l’unione personale possiede il vantaggio che i membri dell’organismo direttivo supremo non si rendano estranei rispetto alla realtà, bensì a motivo della familiarità con il quotidiano dei loro ambiti  migliorino lo stato informativo della direzione e così contribuiscano decisamente ad elevare la qualità delle decisioni.

Il fatto che un esecutivo collegiale della chiesa sembri essere in contraddizione con il primato definito nel concilio Vaticano I non deve trattenere coloro che hanno delle responsabilità nella chiesa dal continuare a porre la questione delle strutture di direzione.


La curia romana: braccio del papa, centrale o stanza di compensazione?
All’inizio del suo pontificato papa Paolo VI tenne un discorso ai membri della curia. In esso il papa delineò, con diverse formulazioni, come egli vedeva la curia.  E’ il discorso di “un organo di diretta appartenenza e assoluta ubbidienza, di cui si serve il pontefice romano per svolgere la sua missione universale”. In breve: la curia è lo strumento di governo del papa.

Con questo modello di curia, corrispondente al paradigma della chiesa autoritaria, i padri conciliari del Vaticano II non erano d’accordo. Essi riconoscevano sì che, da una parte,   le autorità curiali sono organi ausiliari del papa, ma sottolineavano, d’altra parte, che l’operare di queste autorità deve essere orientato al bene delle chiese particolari. In tal modo il concilio ha chiaramente segnalato che la curia non rappresenta soltanto un braccio prolungato del papa, un posto di comando, bensì una centrale della chiesa universale.

Guida della chiesa e Centrale della chiesa stanno in un reciproco rapporto funzionale. La curia compensa in qualche modo la instabilità personale di un vertice ecclesiale individuale e da ciò dipende la sua importanza. Con il passaggio dalla direzione monarchica a quella collegiale della chiesa viene smorzato anche il ruolo della curia, perché una direzione collegiale è più stabile di una individuale. Che la curia sia al servizio anche del papa, è fuori discussione. Se la curia però non è più soltanto uno strumento di governo solo del papa, allora nella sua organizzazione ha una parola da dire anche il collegio episcopale. In futuro difficilmente si ammetterà che il papa indichi la curia come “sua res”, sottraendola alla discussione in un concilio o in un sinodo di vescovi.

Anziché perderci nel groviglio dell’organizzazione attuale della curia, vogliamo delineare, anche solo a grandi linee, una possibile organizzazione futura di essa. Nel far questo partiamo da un principio di esperienza di tipo organizzativo: “Structure follows strategy” (la struttura segue la strategia). Secondo questo principio la forma organizzativa deve seguire l’orientamento strategico, che a sua volta dipende dal modello di chiesa. Se l’idea complessiva di chiesa cambia, ciò ha anche delle conseguenze per le strutture che servono alla sua realizzazione.

Il modello collegiale di chiesa, sviluppato nel Vaticano II, con lo spostamento del baricentro dal centro verso le unità periferiche, richiede una centrale curiale orientata alle chiese locali e alle conferenze episcopali, con strutture più semplici, più snelle e più trasparenti, e con elementi innovativi.

Esistono approcci che orientano verso una struttura organizzativa tridimensionale: certe unità sono competenti per determinati territori (Propaganda Fide, chiese orientali), altre sono responsabili per determinate questioni oggettive (fede, liturgia) e altre ancora per  specifiche categorie di persone (vescovi, religiosi). La suddivisione orizzontale per compiti, sul piano gerarchico immediatamente sotto la suprema guida della chiesa, dovrebbe corrispondere ad una “struttura regionale integrata”, perché questo tipo di organizzazione meglio permette un adattamento delle chiese locali ai differenti ambienti e ha bisogno di un limitato coordinamento da parte della curia. L’idea regionale dà alle chiese locali e particolari una maggiore libertà di autodeterminazione e porta ad una più profonda motivazione dei responsabili. Il tipo organizzativo regionale rende meglio giustizia al principio di sussidiarietà, tanto invocato nella dottrina sociale cattolica.

La complessità della chiesa universale si riflette in misura minore anche nella organizzazione della curia. Le differenti funzioni che una centrale ecclesiale come la curia deve gestire – parallelamente alla centrale di gruppi societari di una multinazionale – non vengono semplicemente soppresse nel caso di una riorganizzazione radicale. Così, attraverso un’ampia decentralizzazione dei processi decisionali, le funzioni di direzione e di armonizzazione perderebbero peso, mentre guadagnerebbero importanza le funzioni di consulenza e di prestazione di servizi. Come saldo la conseguenza sarebbe una riduzione dell’apparato di impiegati. Così, la curia si trasformerebbe in una centrale stanza di compensazione, in un forum per idee e programmi delle chiese locali, che vengono condivisi con altre chiese locali e da loro valutati.

Nella curia come centrale stanza di compensazione l’odierna Segreteria di Stato (che allora dovrebbe ben cambiare nome) potrebbe giocare un ruolo importante di coordinamento e mediazione. Essa sarebbe responsabile a che il flusso di informazioni tra centrale ecclesiale e chiese locali sia facilitato e dovrebbe  perciò far sì che la dominante mania di segretezza venga meno  e guadagni invece terreno la trasparenza, oggi universalmente richiesta; infatti, “Sunlight is the best desinfectant” (la luce del sole è il miglior disinfettante!).

La trasformazione funzionale delle unità di gestione finora operanti dovrebbe, nel caso di una autentica riforma della curia, andare anche oltre. Come secondo esempio si può accennare all’odierna Congregazione per la dottrina della fede, l’antica Inquisizione, poi Sant’Ufficio. L’organismo, composto da eminenti teologi, potrebbe all’inizio del terzo millennio fornire alla chiesa un servizio migliore che non quello di ridurre al silenzio dei teologi scomodi. Invece di inquisizione, innovazione! Si tratta della disponibilità e della capacità di configurare attivamente il cambiamento. Compito di sottosistemi innovativi è l’incremento della capacità di adattamento del sistema complessivo a sviluppi futuri, attraverso un continuo miglioramento di soluzioni esistenti e l’elaborazione di soluzioni totalmente nuove ai problemi. La “nuova” Congregazione per la dottrina della fede potrebbe stimolare lavori di ricerca, proporre tesi da discutere, e anche organizzare competizioni alla ricerca di idee e simposi. Sarebbe il “think tank” di una chiesa aperta, promotrice di futuro. Che compito affascinante!


Politica personale: il tallone d’Achille della riforma della curia
Ciò di cui la curia ha bisogno, oltre ad una riorganizzazione delle strutture, è una maggiore flessibilità nell’impiego del personale. Nella curia domina oggi il “principio clericale”; fondamentalmente i membri della curia sono dei religiosi. Ci sono solo poche donne, impiegate per lo più come segretarie e in compiti di scrittura. Ci sono anche dei laici in alcuni consigli, ma si tratta di eccezioni.

Alla rigidità del sistema ha contribuito, non da ultimo, il legame tra posizione ecclesiale e funzione curiale. Vige la regola che i detentori di alti uffici di curia abbiano il rango di vescovi, arcivescovi o cardinali. Che sarebbe di dignitari ecclesiastici della curia, dignitari di alto rango, se per qualunque motivo non possono più svolgere i loro compiti curiali? A ciò si aggiungono pesanti perplessità di natura giuridica. La combinazione di ufficio di curia esecutivo e ministero ecclesiale legislativo in una sola persona contraddice in modo pesante al principio della divisione dei poteri. Perciò in una riforma della curia occorre seriamente riflettere se non debba essere presa in considerazione una separazione tra ufficio di curia e ministero ecclesiale.

La rinuncia  ai due principi di politica personale finora seguiti avrebbe come conseguenza che molti più laici potrebbero ricoprire uffici di curia, che anche delle donne potrebbero assumere funzioni curiali di grado superiore, che accanto a un effettivo di membri di curia stabili, potrebbero operare nella curia a tempo determinato religiosi e laici provenienti dalle più diverse regioni, aree linguistiche, culture e tradizioni. In questo modo la curia diventerebbe un autentico luogo di scambio di idee.


La resistenza della burocrazia
Chiesa universale e gruppi societari mondiali, come abbiamo visto, hanno in comune la burocrazia. La curia fa parte delle strutture burocratiche più antiche, che ritengono sia loro compito garantire la continuità della loro organizzazione; infatti,  “la gerarchia romana vuole sopravvivere”. Tutte le burocrazie hanno perciò in comune la “resistance to change”, la resistenza contro i cambiamenti dello status quo.

Una disciplina, quale la curia come organo del papa ha consolidato, potrebbe dimostrarsi una via per accelerare il processo di riforma. Secondo la Costituzione Apostolica sulla curia romana di papa Paolo VI, del 15 agosto 1967, direttori, membri e consulenti delle sezioni interne vengono nominati di volta in volta sempre soltanto per cinque anni, ma le rinomine sono possibili e abituali. Più importante però è che i cardinali, che presiedono un dicastero, dopo la morte del papa devono dimettersi dai loro uffici e il nuovo papa, entro tre mesi dalla sua elezione, deve confermare tutte le nomine. Se sul trono di Pietro salirà un nuovo papa intenzionato alla riforma, potrebbe, in breve tempo, attuare i più importanti cambiamenti che riguardano le persone,  per realizzare una riforma duratura della curia.

Per riuscire a realizzare una riforma della curia è necessario un forte collegio episcopale che determini la direzione e si attenga con perseveranza alla linea scelta, e c’è bisogno di un papa forte che sia disponibile a rinunciare alla sua pienezza di poteri finora detenuta a favore della collegialità nel senso della “communio”, a commutare cioè il “potere di Pietro” nel “servizio di Pietro”.


Ricapitolazione
1. Il baricentro della chiesa deve situarsi in futuro fortemente nelle chiese locali e particolari, le quali sono più vicine alle persone che non la lontana curia. Lo vuole anche il principio di sussidiarietà difeso dalla chiesa.

2. Una riforma della curia è urgente, perché l’organizzazione attuale non corrisponde né al modello ideale di chiesa né ai bisogni  pratici del futuro.

3. In una riforma della curia dovrebbero essere valorizzate le conoscenze e le esperienze delle scienze del management, poiché si possono trovare molti parallelismi tra chiesa universale e gruppi societari mondiali.

4. Una riforma della curia presuppone la riforma della direzione della chiesa. Il vertice monarchico va sostituito da un governo collegiale, il centralismo romano va rimpiazzato da una decentralizzazione a favore delle chiese locali e particolari, così come aveva auspicato il concilio Vaticano II.

5. In una riforma della curia, accanto a moderni principi di gestione, si dovrebbero applicare anche i principi della divisione dei poteri.

6. La curia non è soltanto un braccio prolungato del papa, bensì anche la centrale di una organizzazione mondiale e un polo di idee delle chiese locali.

7. La riforma della curia richiede strutture semplici, snelle e trasparenti, come pure la installazione di punti innovativi.

8. La separazione tra posizione ecclesiale e funzione curiale contribuisce al rafforzamento della cooperazione dei laici e ad un maggiore flessibilità dell’apparato amministrativo.

9. Una riforma della curia è realizzabile, nonostante la resistenza della burocrazia, immediatamente dopo l’elezione di un uovo papa, a patto che ci sia realmente la volontà di riforma.

Chi odia la chiesa grida con Voltaire: “Ecrasez l’infâme!”. Chi ama la chiesa invoca riforme; costui non vuole la morte della chiesa, bensì che essa viva, anche nel nuovo millennio. Egli però ne ha abbastanza di professioni platoniche: “Ecclesia semper reformanda” (La chiesa deve sempre rinnovarsi). Vorrebbe vedere dei fatti, per poter una buona volta dire: “Ecclesia tandem reformata (“La chiesa si è finalmente rinnovata!”)