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mercoledì 28 agosto 2013

Poltiglie d'agosto

Domenica 18 agosto, XX del Tempo Ordinario, mi è capitato di partecipare a due celebrazioni eucaristiche. Il Vangelo del giorno era quello in cui Gesù proclama di essere venuto a portare la divisione sulla terra (Lc 12, 49-53); per causa sua si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, ecc. Due celebrazioni, due spiegazioni differenti del Vangelo. Secondo il primo sacerdote la divisione che Gesù è venuto a portare è, in effetti, una divisione interiore; quando ci sforziamo di compiere la volontà di Dio dentro di noi si scatena un conflitto, il bene contro il male. Secondo l’altro sacerdote una condotta cristiana coerente e coraggiosa provoca inevitabilmente una frattura con chi non crede; a noi il compito di perseverare nella fede senza farci intimorire e senza scendere a compromessi. In entrambi i casi, quindi, una spiegazione piuttosto semplicistica e banalizzata del brano evangelico; nessuno dei due sacerdoti ne ha centrato il senso principale e cioè la contrapposizione tra un modo vecchio e un modo nuovo di intendere la fede (simboleggiati dalle coppie padre/madre e figlio/figlia) ossia la contrapposizione tra legge e spirito. Mentre ascoltavo le due omelie mi venivano in mente le parole che mons. Crociata, segretario generale della CEI, pronunciò al XIV Convegno liturgico per seminaristi svoltosi a Roma nel dicembre 2009. “Spesso le nostre parole e la nostra pastorale tutta risultano una poltiglia melensa e insignificante, come una pietanza immangiabile o, comunque, ben poco nutriente. È questione di atteggiamento e di vita, non solo di parole, anche se pure le nostre parole e le nostre stesse omelie dovrebbero prendere a modello questa sorta di criterio regolativo che ci viene dalle parole del vecchio Simeone: nello stesso tempo annunciare la salvezza e mettere di fronte alla decisione. In questo senso sarebbe oltremodo deplorevole far diventare le omelie occasioni per scagliare accuse e contumelie, rimproveri e giudizi di condanna; ma anche il contrario risulta insulso, quando le nostre parole si riducono a poveri raccatti di generiche esortazioni al buonismo universale”. Una analisi impietosa sulla quale occorre riflettere, tanto più che in questi quattro anni non sembra siano intervenuti significativi cambiamenti. Dal mio punto di vista - quello del (malcapitato) fruitore - una delle possibili cause della banalità delle omelie domenicali è la mancanza di fiducia che i sacerdoti hanno in noi laici. Mediamente i sacerdoti non ritengono di doverci incoraggiare ad un approfondimento personale della fede perché una ricerca teologica compiuta autonomamente da persone non convenientemente formate potrebbe avere solo effetti controproducenti: “quando i laici si mettono a pensare da soli prima o poi perdono la fede”, dicono. Inoltre, c’è un problema di carenza di preparazione dei sacerdoti; se alcuni non ritengono necessario stimolare più di tanto i fedeli, altri neanche saprebbero come farlo. Molti sacerdoti, anche quelli giovani appena usciti dai seminari, hanno una preparazione datata, ripetono a memoria concetti che hanno appreso da vecchi manuali di omiletica, non hanno la capacità di attualizzare il Vangelo e di proporlo alla gente in un linguaggio appassionante. Essi per primi non sono stati abituati a pensare con la propria testa bensì formati a essere diligenti esecutori di ordini superiori e scrupolosi somministratori di sacramenti; insomma, funzionari amministrativi più che animatori spirituali. Né va trascurato il fattore istituzionale. La gerarchia ecclesiastica non vuole laici pensanti, con una propria coscienza critica: i laici non devono avere profonde convinzioni ma solo buoni sentimenti, che vanno nutriti con novene, reliquie e processioni. E se restano eterni bambini nella fede, poco male; basta che siano parrocchiani collaborativi e obbedienti. Ecco perché le omelie devono essere rassicuranti, accomodanti, consolatorie; i fedeli devono uscire soddisfatti e appagati dalla celebrazione eucaristica, convinti di essere sulla strada giusta che li porterà dritti dritti in paradiso.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it
22.8.2013

sabato 3 agosto 2013

La mia opinione? Quella della Chiesa!

Le dichiarazioni rilasciate da Bergoglio durante la conferenza stampa sul volo di ritorno da Rio de Janeiro hanno suscitato reazioni contrastanti: c’è chi vi ha letto i segnali di vere e proprie rivoluzioni che il nuovo papa starebbe per introdurre nella Chiesa e chi ha invece osservato che molte di esse sarebbero state sottoscritte anche da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.  

Personalmente ritengo che tra le pieghe dell’intervista vi sia un passaggio che forse può aggiungere qualche utile elemento di riflessione sulla questione delle riforme. A una giornalista brasiliana che gli chiedeva come mai durante la GMG non avesse parlato dell’aborto o dei matrimoni omosessuali Bergoglio ha risposto che non lo aveva ritenuto necessario semplicemente perché la Chiesa su tali argomenti si è già espressa con chiarezza e quindi non c’era bisogno di tornaci su; poi, all’incalzare della giornalista che gli chiedeva quale fosse invece la sua personale opinione Bergoglio ha tagliato corto esclamando d’istinto: “Quella della Chiesa! Sono figlio della Chiesa!”

E in effetti, durante tutta la conferenza stampa Bergoglio non ha fatto altro che ribadire le posizioni del Catechismo della Chiesa Cattolica. Interrogato sui i gay ha detto che certamente non devono essere discriminati ma nulla più di questo. Interrogato sul ruolo della donna ha detto che la Madonna è più importante degli apostoli ma per quanto riguarda le ordinazioni femminili ha ribadito che “quella porta è chiusa perché la Chiesa ha parlato e ha detto no”. Interrogato sull’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati ha detto che è giunto “il kairòs della misericordia” ma ha rimandato al lavoro della commissione degli otto cardinali.  Interrogato sul suo ruolo di pontefice ha invitato a “non andare più avanti di quello che si dice”: “vescovo di Roma” è solo il primo titolo del Papa, il nodo del primato petrino non è oggetto di discussione.

A mio parere Bergoglio interpreta il suo ruolo di vescovo essenzialmente in una dimensione pastorale: si sente e vuole essere un pastore che ama le sue pecore, che ha bisogno delle sue pecore non meno di quanto esse hanno bisogno di lui, che deve discernere quando è il momento di stare davanti, in mezzo o dietro al gregge, che deve condividere tutto con le sue pecore al punto da portarne addosso l’odore, e così via. E’ un pastore e il pastore non è il padrone del gregge; ne è solo il custode, è il sorvegliante di un bene non suo. Per tale motivo, da buon gesuita, cerca di svolgere diligentemente il suo compito senza prendere iniziative che non gli sono state richieste, senza eccedere il suo mandato. Ecco perché si attiene strettamente alla dottrina della Chiesa. La sua opinione personale non può che coincidere con la dottrina della Chiesa ufficiale e qualora fosse diversa egli per primo la riterrebbe irrilevante. Cambiamenti in materia di dottrina o di etica da lui non ne verranno. Ma non è affatto detto che non ce ne saranno. Già, perché Bergoglio appare come una persona aperta al confronto, disponibile ad ascoltare e a valutare proposte e suggerimenti; lo dimostra la nomina di otto cardinali provenienti dai quattro angoli della terra con il compito non solo di consigliarlo ma anche di costituire una sorta di osservatorio permanente su tutto il panorama ecclesiale. Bergoglio non ha in sé l’indole del riformatore ma la sua fedeltà alla Chiesa è così totale e incondizionata che non esiterebbe a sostenere le più radicali riforme qualora fosse la Chiesa intera a chiederglielo.

Pietro Urciuoli
ecclesiaspiritualis.blogspot.it
4.8.2013