Nell’imponente produzione di Ernesto Buonaiuti (1881-1946) un
posto di primaria importanza occupano le opere dedicate alla storia del
cristianesimo tardo medievale, un filone di ricerca avviato nel 1925 in
coincidenza di un corso accademico sui rapporti tra spiritualità gioachimita e
movimento francescano[1].
Si trattava di anni molto travagliati per
Buonaiuti, anni nei quali si erano andati sempre più inasprendo quei contrasti
con il Vaticano che sarebbero culminati con la sospensione a divinis e la scomunica expresse vitandus del 25 gennaio 1926.
Il suo Francesco d’Assisi venne pubblicato nel 1925 per le edizioni Formiggini
nella collana “Profili” e come molti altri suoi lavori venne posto all’Indice dal Sant’Uffizio. Trattasi di un
testo molto breve, senza pretese di rigore storico ma non per questo meramente
divulgativo, il cui scopo è offrire al lettore - in linea con l’obiettivo della
collana nella quale è inserito - un profilo cursorio ma essenziale del frate di
Assisi[2].
L’opera di Ernesto Buonaiuti risente
certamente, così come altre pubblicate in quel medesimo periodo in concomitanza
del settimo centenario della morte di san Francesco, della lezione di Paul
Sabatier[3].
Tuttavia ciò non sminuisce affatto il contributo del Buonaiuti che si distingue
per l’originalità e la lucidità con cui vengono tratteggiati i passaggi
fondamentali della vita di Francesco di Assisi.
La sua conversione, ad esempio. Per Buonaiuti «La conversione di Francesco non poteva
essere l’adesione intellettuale riflessa ad una fede religiosa per lo innanzi
disconosciuta. Egli non aveva mai rinnegato il simbolo del suo battesimo e non
si era mai pubblicamente allontanato dalle pratiche devozionali dei suoi
conterranei. Le sue esuberanze giovanili non erano nulla di più grave e di più
indecoroso di tutto quello che ogni chiesa ufficialmente costituita perdona
generosamente alla sua gioventù. […] Francesco si è convertito piuttosto il
giorno in cui, di contro a tutto il ciarpame vuoto e pesante delle convenzioni
umane, delle menzogne sociali, delle ipocrisie sanzionate, dei gretti interessi
materiali che avvelenano le anime, offuscano i rapporti fraterni, stravolgono e
contraffanno le leggi spontanee e primitive della vita associata, ha
riguadagnato, di questa vita associata, l’economia spontanea e il tessuto
elementare, nel precetto dell’amore e nel dovere del pronto, sorridente
sacrificio. Quel giorno, annullando quell’artefatta inversione di valori che è
alle scaturigini e alla base della associazione pubblica ed economica degli
uomini, ed invertendola a propria volta, ha ritrovato la genuina gerarchia di
valori che la vita cosmica impone a una creatura ragionevole che sogni attuare,
nella pienezza delle sue energie specifiche, il proprio spirituale destino»[4].
Francesco realizza così, con i primi frati che
si riuniscono intorno a lui, un modello di vita religiosa completamente nuovo,
in grado di intercettare la diffusa domanda di genuinità evangelica del laicato
del suo tempo senza per questo entrare in aperto contrasto con la Chiesa
istituzionale: «Altri, prima di
Francesco, avevano tentato di dare espressione concreta al disagio gravoso in
cui la ibrida costituzione politico-religiosa della Chiesa, tratta dalla mole
stessa dei suoi interessi e dal groviglio delle sue interferenze terrene a
tutti gli adattamenti e a tutte le complicità, gettava gli spiriti più
sensibili e le anime più timorate. Ma il superamento delle barriere concettuali
e disciplinari, in cui la tradizione e l’istinto di conservazione cercano di
tenere mortificato e frenato lo spirito fermentante della libertà cristiana,
non era stato in essi deciso e trionfale. Non aveva cioè raggiunto quella
stupenda condizione di assoluta e olimpica tranquillità nella quale non appare
più necessario insorgere positivamente contro le forme consuetudinarie della
mediocrità spirituale per abbatterle, appare invece sufficiente svuotarle di
contenuto nell’atto stesso in cui le si accettano o le si tollerano»[5].
Tuttavia, nonostante i buoni propositi di
Francesco e compagni, i contrasti con la gerarchia ecclesiastica non si fanno
attendere. A tal proposito Buonaiuti osserva che la Chiesa istituzionale se, per
un verso, ha bisogno che periodicamente nascano nuclei spontanei in grado di mostrare
alla cristianità che quello evangelico non è un astratto e irrealizzabile ideale,
per altro verso tende a controllarne l’espansione e l’incidenza affinché tali
nuclei «non escano dalle proporzioni di
minoranze infinitesimali, viventi ai margini della grande collettività
esteriormente credente o non si atteggino a mentori troppo petulanti e a
giudici troppo intransigenti degli accomodamenti, delle acquiescenze e delle
transazioni ufficiali»[6].
E ancora: «Le insigni innovazioni della
libera spiritualità cristiana nel mondo delle tradizioni e delle discipline
costituite non possono acclimatarsi senza provocare l’ostilità rabbiosa e cieca
del misoneismo farisaico, di cui vive la massa di tutte le istituzioni sociali.
Molti, in curia, dovevano avere terribilmente a fastidio questa fraternità
costituitasi intorno a Francesco, che non aveva sedi fisse e ordinamenti ben
chiari; che girovagava liberamente per i comuni e le campagne d’Italia,
praticando e bandendo il Vangelo in una maniera che lasciava praticamente in
non cale la gerarchia, i suoi poteri e le sue consuetudini»[7].
Un contrasto che diviene insanabile negli anni
della elaborazione normativa dell’Ordine dei Minori, tra il 1221 e il 1223: «Quale valore pertanto egli avrebbe potuto
assegnare ai tentativi, da qualunque parte venissero, di codificare e di
stilizzare in aride formule prescrittive quella che ai suoi occhi doveva
restare una pura attitudine di spiriti votati all’ideale dell’universale
fraternità nella pace e nella gioia? Il codice della perfezione, quale egli lo
aveva vagheggiato e quale voleva fosse con pari fervore bramato dai suoi amici
era, tutto, nei pochi incisi neotestamentari ch’egli aveva sottoposto all’esame
sbigottito di Innocenzo III. Ogni loro ampliamento esegetico importava una
depauperazione; ogni clausola di commento e di specificazione significava un
abbassamento»[8].
Un cambiamento di paradigma – da fraternitas
a ordo – i cui risvolti psicologici
in Francesco di Assisi non sfuggono al Buonaiuti: «Attraverso le angosciose ore della sua ineffabile tragedia Francesco
dovette convincersi suo malgrado che il compito di salvare senza un’ombra di
concessione l’idealità che aveva alimentato il sogno della “conversione” era superiore
alle sue forze; o meglio, che era al di là delle capacità ricettive della vita
associata, che il suo fascino e la sua parola avevano cementato. E allora,
affinché qualcosa potesse pur sopravvivere del suo iniziale programma volle
riservare ad ogni costo a sé medesimo l’onere di compilare ed allestire le
regole che le pressioni della curia ormai impietosamente esigevano»[9].
Il cammino della istituzionalizzazione è ormai
inevitabilmente aperto e viene percorso con sempre maggiore decisione già
all’indomani della morte di Francesco: «La
mattina dopo la venerata salma era trasportata senza indugio, per volontà di
frate Elia, ad Assisi. Cominciava la triste odissea dell’ideale francescano.
Ché gli uomini san trovare un magnifico diversivo alla loro congeniale
neghittosità e al loro funzionale fariseismo avvolgendo negli incensi della
loro devozione le figure d’eccezione che avrebbero voluto invece unicamente
trasformare e innalzare il tenore della loro vita. L’ordine, già sfuggito alla
direzione effettiva di Francesco, si accingeva a battere, con ritmo accelerato,
la via della consacrazione ufficiale nella chiesa e nel mondo. Francesco aveva
sognato i fratelli messaggeri umili e poveri di pace e di perdono: l’ordine
avrebbe innalzato dovunque le sedi stabili del suo magistero. Francesco aveva
maledetto il fratello che a Bologna aveva per primo sanzionato la
contaminazione della scienza con l’idealità minoritica: l’ordine sarebbe
entrato a vele spiegate nell’insegnamento accademico. Francesco aveva deprecato
ogni privilegio curiale: l’ordine avrebbe questuato a Roma le bolle del suo
ambiguo e clandestino arricchimento. Francesco aveva prescritto la povertà
dell’arredamento e della suppellettile sacra: Elia avrebbe dedicato alla sua
memoria un monumento senza pari»[10].
Tutto è perduto, quindi, dell’originario
messaggio di Francesco? Niente affatto. «Francesco
d’Assisi aveva praticato la superiore economia dello spirito, risollevando in
pieno la sublime semplicità della vita evangelica. Ma non appena la sua
idealità si era concretata in una forma di vita associata la sua purezza
sembrava essersi offuscata e il suo ardore impedito. I risultati
dell’esperienza da Lui incarnata non sono stati per questo meno imponenti. […]
I grandi maestri dell’umanità vivono immortali proprio in virtù del lento, macerante
martirio a cui debbono essere sottoposti le loro aspirazioni e il loro
programma, per fiorire e fruttificare sul solco arido, ingrato e tardo della
vita associata»[11].
In definitiva, Buonaiuti legge nelle vicende
del francescanesimo delle origini il contrasto tra Chiesa gerarchica e Chiesa
spirituale, istituzione e carisma, sacerdozio e profezia, clericalismo e laicità,
un contrasto che si ripropone drammaticamente uguale, nelle sue linee
essenziali, a sette secoli di distanza. E proprio alle risposte che Francesco diede
a questo contrasto il movimento modernista deve guardare se vuole perseguire
l’obiettivo di costruire, come diremmo oggi, non tanto un’altra Chiesa quanto
una Chiesa altra.
In
tutto questo non sfugga, infine, una forte componente autobiografica; un
modello di santità laica vissuta fuori dal tempio non poteva non esercitare un
potentissimo richiamo su chi, come Buonaiuti, sentiva di appartenere alla
generazione dell’esodo, una generazione protesa nello sforzo di scrollarsi di
dosso il peso delle superfetazioni extra-evangeliche ereditate da un ingombrate
passato: «In fondo al mio spirito c’era
costantemente il presentimento istintivo che ci son trapassi storici i quali
impongono alla generazione dell’esodo lunghe, penose, errabonde peregrinazioni.
Ed io sentivo di appartenere ad un nucleo di precursori. Altri, dopo di me,
avrebbe salutato all’orizzonte il profilo evanescente della terra promessa»[12].
Pietro Urciuoli
agosto 2014
[1] Ernesto Buonaiuti era dal 1919
professore ordinario di Storia del cristianesimo presso l’Università di Roma e sino
ad allora si era dedicato alla storia del cristianesimo delle origini. Il corso
tenuto nel 1925 sarebbe stato dato alle stampe molti anni più tardi, nel 1958, sulla
rivista “Religio” da lui stesso fondata nel 1919 con il titolo Il messaggio gioachimita e la “religio”
francescana.
[2]
Con l’editore Angelo Fortunato
Formiggini, suicida per protesta contro il regime fascista, Buonaiuti ebbe una
fruttuosa collaborazione concretizzatasi in altre opere pubblicate nella
medesima collana tra cui Gesù, Sant’Agostino, San Paolo, Tommaso d’Aquino e, per la collana
“Medaglie”, Alfred Loisy. Sempre nel
1925 Ernesto Buonaiuti pubblicò altri lavori su Francesco d’Assisi e sul
francescanesimo: tra questi Il settimo
centenario francescano in “Rivista d’Italia” e Origini cristiane e movimento francescano in “Ricerche Religiose”.
La biografia di Francesco di Assisi del Buonaiuti è stata ristampata nel 1997
dalle Edizioni Biblioteca Francescana, con introduzione di Sandra Migliore.
[3] La Vie
de Saint François d’Assise pubblicata a Parigi nel 1894 da Paul Sabatier rappresenta
sicuramente una pietra miliare nella storia della storiografia francescana. Il
Sabatier ha inoltre il merito di aver avviato quell’analisi storico-filologica delle
fonti biografiche disponibili su Francesco d’Assisi che va sotto il nome di “questione
francescana”.
[4] E.
Buonaiuti, Francesco d’Assisi,
Ed. Formiggini, Roma 1925, p. 26.
[5] Ivi,
p. 30.
[6] Ivi,
p. 33.
[7] Ivi,
p. 60.
[8] Ivi,
p. 63.
[9] Ivi,
p. 66.
[10] Ivi,
p. 75.
[11] Ivi,
p. 77.
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