di Felice Scalia, in Adista Segni nuovi, n. 13 2 aprile 3013
Da troppo tempo si aveva l’impressione che il Padre eterno avesse dimenticato la sua Chiesa. È lecito anche a noi, comuni mortali, avere in cuore a volte quella impressione di abbandono che colse Giovanni Paolo II quando ad un esterrefatto uditorio disse che «Dio tace, Dio ci abbandona». Con le sorprese tipiche dello Spirito, pare che dopo il grigiore di tanta pastorale a ramengo, e di tanti scandali che hanno reso “sporca” la Chiesa, una luce si intraveda in fondo al tunnel: Francesco, vescovo di Roma, chiamato a «presiedere la carità di tutte le Chiese».
Mi ha telefonato un’anziana amica: «Sono contenta per voi gesuiti, spero che il nuovo papa gesuita farà qualcosa per voi!». L’affetto e la buona intenzione della signora mi ha evitato un eccesso di tristezza. Dunque siamo giunti a tanto nella Chiesa che un papa deve essere di parte, deve favorire i gesuiti se è gesuita, i salesiani se è salesiano, come il rappresentante di una lobby vincente? È giunto a questi livelli il clientelismo nella Chiesa? E allora diciamo subito una cosa: Francesco non è un papa gesuita; è un cardinale di santa romana Chiesa che è stato gesuita ed ora è chiamato a diventare papa cattolico. Non italiano, non latino-americano, non gesuita, non dei chierici, non della Curia romana, ma di tutti i figli di Dio, credenti e no, cristiani e no. Se non c’è tale amore nel suo cuore, tale libertà interiore, è meglio che imiti il papa di Nanni Moretti e si dimetta anche lui. Perché non capirà la gente, non sarà capace di avvertire gli aneliti di un mondo disastrato, e neppure la voce di quel Cristo che lo vuole testimone della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione: «Se mi ami, pasci i miei agnelli e le mie pecore!».
Sì, lo sanno anche i bambini, Francesco è il primo papa che viene dalla Compagnia di Gesù. A me non interessa sapere come mai questo sia avvenuto, se per questa esclusione abbia giocato o meno il voto dei gesuiti di non «ambire e di non accettare cariche onorifiche nella Chiesa, a meno che non venga imposto da colui che lo può imporre». Interessa anche poco se un gesuita ordinato vescovo e perfino cardinale, si possa ancora dire gesuita. Certo non partecipa più né con voto attivo, né con voto passivo alla vita dell’Ordine. Non è questo il punto. E siccome di papi che solo col tempo sono diventati papi “cattolici”, iniziando da malcelate preferenze per interessi, gusti, teologie, appartenenze personali è piena la storia della Chiesa, io mi chiedo che cosa potrà dare alla Chiesa e al mondo questo vescovo di Roma che viene dalle file di Ignazio di Loyola ed è nato in America Latina.
L’America Latina! Croce e delizia della Compagnia di Gesù.
Tra i motivi che spinsero papa Clemente XIV a sciogliere l’Ordine nel 1773 c’era proprio quel Continente. Quell’Ordine che si era opposto alla politica omicida e liberticida dei re cristianissimi di Spagna e Portogallo, doveva essere eliminato. E così avvenne.
Tra i motivi che spinsero Giovanni Paolo II nel 1981 a commissariare la Compagnia di Gesù per oltre 24 anni (per noi gesuiti fu una “seconda soppressione”), c’è sempre l’America Latina. L’adesione dei gesuiti al Vaticano II ed alla sua scelta dei poveri, l’accoglienza di quanto i vescovi latino-americani deliberarono a Medellín nel 1968 (una Chiesa tra i poveri, povera, capace di giudicare la sua storia di oppressione e la sua voglia di liberazione), il Decreto IV della 32.ma Congregazione Generale dei gesuiti che metteva in intimo inscindibile rapporto l’annuncio della fede e la promozione della giustizia: queste, e cose come queste, determinarono una tale diffidenza negli ambienti romani – decisamente schierati dalla parte dei governi sedicenti cattolici sebbene assassini – che, quando fu eletto, papa Wojtyla vide nei gesuiti un covo di comunisti atei che non pregavano più, che erano lontani sideralmente dal Vangelo e ideologicamente promotori di quella Teologia della Liberazione osteggiata con violenza dagli Usa e mal interpretata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. I martiri tra preti, vescovi, suore, catechisti, semplici fedeli, che in nome del Vangelo e della dignità dei figli di Dio si davano da fare per una storia che fosse “salvezza concreta nella storia”, le lacrime delle “Madres de Plaza de Mayo” – madri, sorelle di desaparecidos assassinati dalle dittature “cattoliche” – i chiarimenti dei teologi e l’intensa vita cristiana delle Comunità di Base non fecero cambiare opinione a nessuno. L’opera di demolizione di quella corrente teologica e pastorale è continuata fino ad oggi con parole ed opere. Si pensi alla sostituzione di vescovi vicini al popolo con vescovi preoccupati di ben altro.
Non ci resta che benedire lo Spirito. Da quella regione lo sfacelo e da quella regione oggi la risurrezione?
Per noi occidentali, significativi sono solo i proclami, i bei documenti. Nel linguaggio biblico, nella storia della salvezza, contano i “segni”. Ciò che resta, a mio parere, dei due precedenti papati sono soprattutto i “segni”, molto meno le encicliche. Segno profetico è la preghiera di Assisi di Giovanni Paolo II, la sua sosta orante al Muro del pianto, la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa; segno profetico è l’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI con l’implicita ammissione che la sua linea di governo era stata fallimentare. Il vescovo di Roma Francesco, con segni accessibili a tutti, da buon argentino che ha imparato dal popolo come parlare e come farsi capire, sta dicendo ritorno al Vaticano II, alla Chiesa davvero primariamente “popolo di Dio”, alla fine dell’ecclesiocentrismo, al ripudio dello sfarzo. Sta parlando di collegialità effettiva, di libertà da tradizioni antiche e poco evangeliche, di pace nella giustizia, di rispetto del creato. Sta dicendo a chiare lettere che è «un uomo come noi» (At 14,8-18) e che il ruolo lo rende «servo» di tutti, segno della misericordia del Padre, per nulla un Dominus noster, alter Deus – come si esprimeva il Concilio lateranense V nel 1512 a proposito di papa Giulio II. Sta soprattutto parlando di una Chiesa fondata da un Cristo povero per tutti i “poveri della terra”. Poveri economicamente, malati, emarginati, disprezzati, nullatenenti, oppressi, moralmente non adempienti, «gente di cattiva reputazione» (Mc 2,16). In altri termini, di una Chiesa schierata con Abbà e non con Mammona.
Ma non era anche questa la Chiesa sognata dal card. Martini le cui opere in qualche diocesi era stato proibito leggere ai seminaristi?
Mi si permetta di dire che per noi gesuiti papa Francesco è il ritorno al Decreto IV della nostra 32.ma Congregazione generale. Ci siamo per i poveri, per dare “voce a chi non ha voce”, per liberare gli oppressi. «Annunziare la fede e promuovere la giustizia» sono elementi inscindibili dell’unica missione per cui esiste la Compagnia di Gesù: annunziare e costruire il Regno di Dio «aiutando per puro amore le anime», come dice Ignazio.
Due cose mi è caro pensare. La prima: ora sarà possibile rivedere la storia di p. Pedro Arrupe, grande vittima delle incomprensioni tra la Santa sede di papa Wojtyla e la Compagnia di Gesù, e delle voci interessate di quei gesuiti che non avevano accettato mai il Vaticano II, il Decreto IV, Medellín e le scelte dei provinciali dell’America Latina. In cielo padre Pedro esulterà di gioia con noi. La seconda: spero che questo papa che viene dalla Compagnia di Gesù aiuti indirettamente i gesuiti d’Italia e d’Europa a rivedere la loro “politica” pastorale e la loro collocazione in un mondo lacerato da ingiustizie e sofferenze immani. La riorganizzazione dei quadri, questa ossessione per le “opere” che finisce per dimenticare la “cura delle persone”, da sola, non serve a niente. Dicano che vogliono farne della loro cultura, della loro tradizione, della loro generosa dedizione al Regno di Dio.
Non per spirito di corpo, ma per coerenza al Vangelo, spero che i gesuiti siano di sostegno a questo papa che di difficoltà ne avrà a iosa. Se in America Latina è potuto succedere che aiutare la povera gente e stare dalla sua parte venisse percepita come azione compiuta “contro o nonostante la Chiesa”, ora deve essere chiaro che la svolta teologica e pastorale è compiuta nella Chiesa, accanto ad un Francesco che alla gente sta facendo sognare i sogni di Dio.
*Gesuita, teologo dell'istituto Ignatianum (Me), impegnato nell'ass. “Nuovi orizzonti”
Da troppo tempo si aveva l’impressione che il Padre eterno avesse dimenticato la sua Chiesa. È lecito anche a noi, comuni mortali, avere in cuore a volte quella impressione di abbandono che colse Giovanni Paolo II quando ad un esterrefatto uditorio disse che «Dio tace, Dio ci abbandona». Con le sorprese tipiche dello Spirito, pare che dopo il grigiore di tanta pastorale a ramengo, e di tanti scandali che hanno reso “sporca” la Chiesa, una luce si intraveda in fondo al tunnel: Francesco, vescovo di Roma, chiamato a «presiedere la carità di tutte le Chiese».
Mi ha telefonato un’anziana amica: «Sono contenta per voi gesuiti, spero che il nuovo papa gesuita farà qualcosa per voi!». L’affetto e la buona intenzione della signora mi ha evitato un eccesso di tristezza. Dunque siamo giunti a tanto nella Chiesa che un papa deve essere di parte, deve favorire i gesuiti se è gesuita, i salesiani se è salesiano, come il rappresentante di una lobby vincente? È giunto a questi livelli il clientelismo nella Chiesa? E allora diciamo subito una cosa: Francesco non è un papa gesuita; è un cardinale di santa romana Chiesa che è stato gesuita ed ora è chiamato a diventare papa cattolico. Non italiano, non latino-americano, non gesuita, non dei chierici, non della Curia romana, ma di tutti i figli di Dio, credenti e no, cristiani e no. Se non c’è tale amore nel suo cuore, tale libertà interiore, è meglio che imiti il papa di Nanni Moretti e si dimetta anche lui. Perché non capirà la gente, non sarà capace di avvertire gli aneliti di un mondo disastrato, e neppure la voce di quel Cristo che lo vuole testimone della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione: «Se mi ami, pasci i miei agnelli e le mie pecore!».
Sì, lo sanno anche i bambini, Francesco è il primo papa che viene dalla Compagnia di Gesù. A me non interessa sapere come mai questo sia avvenuto, se per questa esclusione abbia giocato o meno il voto dei gesuiti di non «ambire e di non accettare cariche onorifiche nella Chiesa, a meno che non venga imposto da colui che lo può imporre». Interessa anche poco se un gesuita ordinato vescovo e perfino cardinale, si possa ancora dire gesuita. Certo non partecipa più né con voto attivo, né con voto passivo alla vita dell’Ordine. Non è questo il punto. E siccome di papi che solo col tempo sono diventati papi “cattolici”, iniziando da malcelate preferenze per interessi, gusti, teologie, appartenenze personali è piena la storia della Chiesa, io mi chiedo che cosa potrà dare alla Chiesa e al mondo questo vescovo di Roma che viene dalle file di Ignazio di Loyola ed è nato in America Latina.
L’America Latina! Croce e delizia della Compagnia di Gesù.
Tra i motivi che spinsero papa Clemente XIV a sciogliere l’Ordine nel 1773 c’era proprio quel Continente. Quell’Ordine che si era opposto alla politica omicida e liberticida dei re cristianissimi di Spagna e Portogallo, doveva essere eliminato. E così avvenne.
Tra i motivi che spinsero Giovanni Paolo II nel 1981 a commissariare la Compagnia di Gesù per oltre 24 anni (per noi gesuiti fu una “seconda soppressione”), c’è sempre l’America Latina. L’adesione dei gesuiti al Vaticano II ed alla sua scelta dei poveri, l’accoglienza di quanto i vescovi latino-americani deliberarono a Medellín nel 1968 (una Chiesa tra i poveri, povera, capace di giudicare la sua storia di oppressione e la sua voglia di liberazione), il Decreto IV della 32.ma Congregazione Generale dei gesuiti che metteva in intimo inscindibile rapporto l’annuncio della fede e la promozione della giustizia: queste, e cose come queste, determinarono una tale diffidenza negli ambienti romani – decisamente schierati dalla parte dei governi sedicenti cattolici sebbene assassini – che, quando fu eletto, papa Wojtyla vide nei gesuiti un covo di comunisti atei che non pregavano più, che erano lontani sideralmente dal Vangelo e ideologicamente promotori di quella Teologia della Liberazione osteggiata con violenza dagli Usa e mal interpretata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. I martiri tra preti, vescovi, suore, catechisti, semplici fedeli, che in nome del Vangelo e della dignità dei figli di Dio si davano da fare per una storia che fosse “salvezza concreta nella storia”, le lacrime delle “Madres de Plaza de Mayo” – madri, sorelle di desaparecidos assassinati dalle dittature “cattoliche” – i chiarimenti dei teologi e l’intensa vita cristiana delle Comunità di Base non fecero cambiare opinione a nessuno. L’opera di demolizione di quella corrente teologica e pastorale è continuata fino ad oggi con parole ed opere. Si pensi alla sostituzione di vescovi vicini al popolo con vescovi preoccupati di ben altro.
Non ci resta che benedire lo Spirito. Da quella regione lo sfacelo e da quella regione oggi la risurrezione?
Per noi occidentali, significativi sono solo i proclami, i bei documenti. Nel linguaggio biblico, nella storia della salvezza, contano i “segni”. Ciò che resta, a mio parere, dei due precedenti papati sono soprattutto i “segni”, molto meno le encicliche. Segno profetico è la preghiera di Assisi di Giovanni Paolo II, la sua sosta orante al Muro del pianto, la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa; segno profetico è l’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI con l’implicita ammissione che la sua linea di governo era stata fallimentare. Il vescovo di Roma Francesco, con segni accessibili a tutti, da buon argentino che ha imparato dal popolo come parlare e come farsi capire, sta dicendo ritorno al Vaticano II, alla Chiesa davvero primariamente “popolo di Dio”, alla fine dell’ecclesiocentrismo, al ripudio dello sfarzo. Sta parlando di collegialità effettiva, di libertà da tradizioni antiche e poco evangeliche, di pace nella giustizia, di rispetto del creato. Sta dicendo a chiare lettere che è «un uomo come noi» (At 14,8-18) e che il ruolo lo rende «servo» di tutti, segno della misericordia del Padre, per nulla un Dominus noster, alter Deus – come si esprimeva il Concilio lateranense V nel 1512 a proposito di papa Giulio II. Sta soprattutto parlando di una Chiesa fondata da un Cristo povero per tutti i “poveri della terra”. Poveri economicamente, malati, emarginati, disprezzati, nullatenenti, oppressi, moralmente non adempienti, «gente di cattiva reputazione» (Mc 2,16). In altri termini, di una Chiesa schierata con Abbà e non con Mammona.
Ma non era anche questa la Chiesa sognata dal card. Martini le cui opere in qualche diocesi era stato proibito leggere ai seminaristi?
Mi si permetta di dire che per noi gesuiti papa Francesco è il ritorno al Decreto IV della nostra 32.ma Congregazione generale. Ci siamo per i poveri, per dare “voce a chi non ha voce”, per liberare gli oppressi. «Annunziare la fede e promuovere la giustizia» sono elementi inscindibili dell’unica missione per cui esiste la Compagnia di Gesù: annunziare e costruire il Regno di Dio «aiutando per puro amore le anime», come dice Ignazio.
Due cose mi è caro pensare. La prima: ora sarà possibile rivedere la storia di p. Pedro Arrupe, grande vittima delle incomprensioni tra la Santa sede di papa Wojtyla e la Compagnia di Gesù, e delle voci interessate di quei gesuiti che non avevano accettato mai il Vaticano II, il Decreto IV, Medellín e le scelte dei provinciali dell’America Latina. In cielo padre Pedro esulterà di gioia con noi. La seconda: spero che questo papa che viene dalla Compagnia di Gesù aiuti indirettamente i gesuiti d’Italia e d’Europa a rivedere la loro “politica” pastorale e la loro collocazione in un mondo lacerato da ingiustizie e sofferenze immani. La riorganizzazione dei quadri, questa ossessione per le “opere” che finisce per dimenticare la “cura delle persone”, da sola, non serve a niente. Dicano che vogliono farne della loro cultura, della loro tradizione, della loro generosa dedizione al Regno di Dio.
Non per spirito di corpo, ma per coerenza al Vangelo, spero che i gesuiti siano di sostegno a questo papa che di difficoltà ne avrà a iosa. Se in America Latina è potuto succedere che aiutare la povera gente e stare dalla sua parte venisse percepita come azione compiuta “contro o nonostante la Chiesa”, ora deve essere chiaro che la svolta teologica e pastorale è compiuta nella Chiesa, accanto ad un Francesco che alla gente sta facendo sognare i sogni di Dio.
*Gesuita, teologo dell'istituto Ignatianum (Me), impegnato nell'ass. “Nuovi orizzonti”
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