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sabato 30 marzo 2013

Una fede notturna


di Piero Stefani, in “Il pensiero della Settimana” n. 426 del 31 marzo 2013 (http://pierostefani.myblog.it/)

Tutti i vangeli descrivono in modo diretto la morte di Gesù, nessuno di loro la sua risurrezione. Nessuno mostra quanto l’iconografia ha illustrato a volte in modo anche altissimo (per es. Piero della Francesca a Borgo San Sepolcro), ma sempre comunque ostentato e quindi infedele allo spirito evangelico. Quanto è detto dai vangeli è solo l’esito: la tomba vuota, l’annuncio, le apparizioni non a tutti ma solo ad alcuni testimoni (At 10,39-41). La veglia che celebra l’evento fondativo della fede dovrebbe conformarsi alla logica che esige la testimonianza ma nega il trionfalismo. Essa dovrebbe ricordare, celebrare, attendere, non mostrare. Mai come a Pasqua il battesimo è un mistero di morte e risurrezione (cfr. Rm 6,1-11; passo da cui deriva l’ineguagliata preminenza simbolica del battesimo per immersione).[1]
La fragilità della condizione umana è un’evidenza, la risurrezione una certezza solo di fede. La Pasqua è tutta qui. La morte in croce è avvenuta davanti a testimoni, la risurrezione nel silenzio della notte. Che Gesù Cristo sia risorto è una realtà paragonabile a quella della stella polare: orienta il cammino, ma non consente di vedere. Quella luce non illumina il mondo; anche per chi la guarda basta una nuvola perché scompaia, eppure nulla di quanto posto sotto il nostro controllo è in grado di annientarla. La stella tornerà a farsi vedere, ma resterà lontana.
«Dov’è morte la tua vittoria, dov’è il tuo pungiglione» (1Cor 15,55). Qualcuno ha assunto l’interrogativo retorico, come se fosse reale e perciò si è sentito in obbligo di rispondere con un realistico: «ovunque». Sarebbe così se la certezza della fede fosse paragonabile a quella della luce del sole. Dappertutto vediamo lo spettacolo della morte (cfr. Lc 23, 48) e per di più si tratta di una rappresentazione che alla fine fagociterà in se stessa anche lo spettatore. Solo una fede notturna è nella condizione di credere nella risurrezione. Forse anche per questo la veglia pasquale si celebra nel cuore della notte; là il cero brilla attendendo la luce dell’alba.
La fede non è visione. Siamo salvi in speranza, se la si vedesse non si spererebbe in essa (Rm 8,24). Ciò vale fin dall’origine. È constatazione inoppugnabile che ogni essere umano nasce bisognoso di aiuto. Se non si instaura una relazione nessun vivente sopravvive. Ogni creatura umana necessita fin dalla nascita del rapporto con gli altri. La relazione è indispensabile perché chi è nato cresca. Siamo di fronte a un dato basilare che fa parte integrale dell’esistente.
Ciascuno di noi è stato aiutato a sopravvivere, a vivere, a crescere. Ognuno è stato in qualche modo  educato. Tutto ciò ha a che fare con la fede? È evidente che ogni essere umano è cresciuto solo grazie ad altri; non è invece evidente che all’origine della nostra vita ci sia la relazione con un Altro (con la maiuscola); non è palese che Dio si occupi di noi, mentre è chiaro che di noi si sono curati i genitori (eventualmente anche non biologici). Se non ci fossero stati loro, nessuno di noi ci sarebbe.
Il fatto che Dio si occupi di noi, tuttavia, è una certezza solo nell’ambito della fede. La fede presuppone l’esistenza di un rapporto interumano senza però identificarsi con essa. Anche la risurrezione, al fine di differenziarsene nel modo più radicale, presuppone l’inoppugnabile certezza della morte. Tornano alla mente le grandi parole di Dietrich Bonhoeffer: «Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra da pensare che con loro tutto è perduto, si può credere alla risurrezione dei morti». Il morire è un’evidenza, la certezza che Dio serbi la sua fedeltà a chi dorme nella polvere è certezza di fede.

Piero Stefani


[1] Questi passi sono tratti dal “Pensiero 198” (30.3.2008) che commentava il battesimo, la cresima e il sacramento dell’eucaristia ricevuti da Magdi Cristiano Allam nel corso della veglia pasquale in S. Pietro. Allam pochi giorni fa ha pubblicamente dichiarato di abbondare la Chiesa cattolica accusandola di essere  troppo cedevole verso l’islam. Non ci voleva molto per capire, anche allora, quanto quella cerimonia fosse impropria. Ora la vicenda va ancor più ascritta al novero degli evitabili fallimenti che hanno costellato il pontificato di Benedetto XVI e che infine hanno indotto Joseph Ratzinger a compiere la storica e  capovolgente decisione di rinunciare al suo ruolo di vescovo di Roma.

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